Una prima presa di parola del Laboratorio Acrobax sulla giornata del 15/10

Il 15 ottobre a Roma abbiamo vissuto una giornata lunga e densa di avvenimenti su cui vorremmo esprimere alcune riflessioni, anche a fronte del linciaggio mediatico a cui siamo sottoposti.
Questo comunicato è una presa di parola rispetto alla pressione mediatica che si sta producendo intorno a quella giornata; diverso e con altri tempi sarà il dibattito di movimento.
La giornata è stata fatta vivere da migliaia di persone, di cui noi siamo stati una parte e come tale abbiamo provato a curare la riuscita e la capacità di sedimentare, che si sono mobilitate contro la crisi e l’austerity dimostrando che in Italia c’è un malessere diffuso e in quella partecipazione vediamo la volontà determinata di cambiare, di trovare strade alternative alle ricette della banca europea e prendere
parola in prima persona.
Questo l’abbiamo visto in maniera straordinaria nella grandissima partecipazione alla parte di corteo che abbiamo contribuito a costruire in assemblee pubbliche con centinaia di persone, con delegazioni di 15 città, dal nord al sud dell’italia, con migliaia di precarie/e, migranti e studenti, sotto le insegne di San Precario e Santa insolvenza. Immaginato e realizzato all’interno della rete degli
Stati generali della precarietà, nata nel corso dell’ultimo anno e che sta puntando alla realizzazione dello sciopero precario. Per questo abbiamo condiviso l’appello del 15 ottobre e siamo andati a Barcellona per la sua organizzazione internazionale e la costruzione di un movimento europeo.
Quella parte di corteo, a cui molte realtà si sono unite direttamente in piazza della Repubblica, aveva scelto di dare vita ad alcune iniziative di comunicazione, da quella all’albergo Exedra-Boscolo fino all’occupazione di fori imperiali che hanno costruito la nostra presa di parola pubblica e a viso aperto. A chi ci indica come regia di una presunta escalation del livello di scontro raggiunto dalla manifestazione rispondiamo che è semplicemente impossibile e fuori da ogni logica che una struttura cittadina possa organizzare una parte così ampia della manifestazione.
Nel corso del corteo si sono date delle azioni diverse dai livelli che noi abbiamo praticato o condiviso con la nostra rete. Non ci interessa entrare nel dibattito buoni e cattivi, violenza o non violenza che riteniamo molto strumentale e invece sicuramente molto più interessante è il ragionamento su come costruire relazione, condivisione e partecipazione in situazioni analoghe.
Crediamo che la gestione della piazza da parte delle forze dell’ordine sia stata criminale e intenzionalmente mirata a dividere definitivamente il corteo, con le cariche generalizzate da via labicana, dove il nostro spezzone è stato caricato alle spalle, fino a piazza San Giovanni, con l’accanimento su manifestanti inermi e con caroselli dei blindati lanciati addosso alla gente. A questo migliaia di persone hanno risposto opponendo una tenace resistenza esprimendo una parte sostanziale di quella rabbia che vediamo ogni giorno crescere nel tessuto sociale italiano sempre più sottoposto ad
un’insopportabile precarietà della vita intera.

Leggiamo e vediamo nei mezzi di comunicazione una superficiale lettura di questa giornata a cui, purtroppo, molti esponenti politici danno la stura e che stanno costruendo addosso alle nostre spalle un capro espiatorio. Assurde e ridicole le insinuazioni nei nostri confronti.
Riteniamo grave aver mischiato come figurine di un album realtà e strutture, iniziative e strumenti comunicativi, immagini e simboli.
Una gran confusione che crea un mostro mediatico da sbattere in prima pagina. Noi non abbiamo nulla da nascondere perché sempre alla luce del sole abbiamo messo noi stessi nelle lotte contro la precarietà che costruiamo giorno dopo giorno.
Laboratorio Acrobax

Intervento di Valentino Parlato

Quella di ieri a Roma è stata una manifestazione storica, il segno di un possibile cambiamento d’epoca. Una manifestazione enorme, rappresentativa di tutto il paese (camminando nel corteo e in piazza si sentivano gli accenti di tutte le regioni italiane). E ancora, una manifestazione che si realizzava in contemporanea con tante altre nel mondo, in Europa e anche negli Usa, tutte concentrate sul cambiamento del modello di sviluppo, a sancire la crisi del liberalcapitalismo. Per dire che così non si può andare avanti, che la politica di oggi è arrivata a un punto morto e che ci vuole un’inversione di rotta, anche dei partiti politici, oggi ridotti alla sopravvivenza di sé stessi.

A Roma ci sono stati anche scontri con la polizia e manifestazioni di violenza. Meglio se non ci fossero state, ma nell’attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici, era inevitabile che ci fossero. Aggiungerei: è bene, istruttivo che ci siano stati. Sono segni dell’urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile.

La manifestazione e le pressioni che essa esprime chiedono un rinnovamento della politica. È una sfida positiva agli attuali partiti di sinistra a uscire dal passato e prendere atto di quel che nel mondo è cambiato. La crisi attuale – più pesante, dicono in molti, di quella del 1929 – non può essere superata con i soliti strumenti. Negli Usa fu affrontata con il New Deal e in Italia e Germania, dove lo sbocco fu a destra, non con le privatizzazioni, ma con le nazionalizzazioni di banche e industrie. Ci ricordiamo dell’Iri, fondamentale nell’economia anche dopo la caduta del fascismo?

Quello che è accaduto ieri deve aprirci gli occhi e la mente. Non si può continuare a fare politica con le vecchie ricette. Ci dovranno essere cambiamenti anche nelle lotte sul lavoro e nel sindacato, e nella politica economica. Per concludere, vorrei ricordare che dopo il discorso di Sarteano anche un banchiere come Mario Draghi ha detto di capire le ragioni degli indignati. Forse siamo all’inizio di una nuova epoca.

Valentino Parlato

I precari di tutta Italia a Bologna per preparare il loro primo sciopero generale

dal fatto quotidiano

Hanno organizzato gli stati generali er parlare delle esperienze e di come muoversi, anche dal punto di vista legale. “Siamo qui per far sentire la nostra voce. Anche a rischio di perdere il lavoro”

Una riunione che doveva essere informale, ma che alla fine si è trasformata in un’assemblea aperta: così si è aperta la due giorni degli Stati Generali, per organizzare il primo sciopero precario, previsto per il 15 ottobre prossimo.  Al Vag61, in via Paolo Fabbri, a Bologna, ragazzi provenienti un po’ da tutta Italia si sono trovati per discutere di precariato, per raccontarsi le proprie esperienze, come sportelli san precario, risorsa per chi un contratto stabile e sicuro non ce l’ha.

Prima dieci, poi una cinquantina di persone si sono sedute in cerchio, come alle assemblee d’istituto  in una scuola, e hanno parlato a turno di ciò che accade nella loro città e di come cambiare le cose a poco a poco in tutto il Paese. Perché essere precari non è solo una condizione lavorativa, ma è anche uno stato esistenziale spesso rifiutato, che coinvolge tutte le fasce d’età e che tende a isolare gli individui, allontanandoli dalla rete sociale.

Un pomeriggio di workshop e di riflessione in preparazione alla giornata di oggi, la Costituente vera e propria, istituita per organizzare il grande sciopero in tutta Italia.

Molti i temi già discussi. Primo fra tutti la necessità di stabilire una rete solida nel territorio italiano, di creare una sintonia che si traduca in una maggiore efficienza delle iniziative portate avanti. Poi si è parlato di battaglie, di sconfitte e di vittorie, di come la voglia di giustizia di chi è sfruttato si possa trasformare in partecipazione e conflitto, di come, per cambiare le cose, sia necessario denunciare e informare. “Perché l’ignoranza è sempre un’arma che si rivolge contro chi la impugna”.

Il progetto degli Stati Generali è nato nell’ottobre del 2010 e in questi mesi ha subito un’espansione vertiginosa, portando alla nascita di Punti san precario in sempre più città e regioni.

Milano, Roma, Bologna, Genova, Perugia, Caserta, Livorno, Bari. Sono solo alcune delle città rappresentate, solo alcuni dei luoghi dove la rete contro il precariato si è stabilita, fornendo un supporto a tutti coloro che questa condizione la subiscono.

Un supporto legale, pro bono, ma anche politico, una consulenza atta a spiegare al lavoratore quali siano le sue possibilità di rivalsa, quali siano i suoi diritti.

“Spesso” racconta Massimo Laratro, avvocato del punto san precario di Milano, “i giovani sono così abituati all’idea di essere precari, e del lavoro precario in generale, che quando vengono espulsi da una realtà, da un circuito lavorativo, pensano sia normale. Noi spieghiamo loro come muoversi”.

E la popolazione ha risposto a questa iniziativa con grande entusiasmo. Perché la zona grigia che è il precariato esclude spesso da quelle forme di tutela e di supporto che esistono oggi, e a volte c’è un vuoto da riempire che non è solo legale, ma anche politico e sindacale.

“Solo nel 2011, da gennaio a oggi”, racconta l’avvocato Laratro, “abbiamo seguito più di 150 vertenze legali. Ma il lato giuridico è un aspetto marginale di ciò che facciamo. Oggi bisogna dare coraggio ai lavoratori, per uscire dall’isolamento che questa condizione crea. Noi forniamo gli strumenti affinché le persone si organizzino nella loro realtà professionale, ma alla fine sono loro gli attori”.

Ciò che san precario vuole, ciò per cui lotta e scenderà in piazza il 15 ottobre, non è solo la mobilitazione dei precari, ma l’elezione del precariato come tema dominante dello sciopero. Il precariato inteso come male a cui serve una cura, una terapia fatta di un welfare più vicino agli standard europei, del diritto all’insolvibilità in tempo di crisi, di una politica che non sia di austerity, ma di crescita e di una moneta come bene comune, e non riservata alle oligarchie economiche.

“Noi non chiediamo molto”, continua Laratro, “ma senza maggiori risorse i precari continueranno a essere ricattati, e sotto ricatto non potranno rivendicare i loro diritti”.

L’Assemblea Costituente di oggi, a Bologna, sarà aperta a tutti, sindacati, movimenti, associazioni, cittadini. A tutti coloro che vorranno partecipare all’organizzazione dello sciopero precario, che vorranno “promuovere un’ideologia basata sul cambiamento, su una trasformazione che deve avvenire sia dentro sia fuori dalla sfera del lavoro”. Perché, ricordano i ragazzi seduti in riunione, “anche se è difficile per un precario scioperare e far pesare la propria assenza, pur rischiando di perdere il posto, se ci si organizza a rete, se tutti i precari incrociano le braccia, forse qualcosa può cambiare”.

di Annalisa Dall’Oca

Da piazza pulita a Que se vayan todos!

Il punto di vista precario interviene nella trasmissione piazza pulita La 7.

Restiamo umani blocchiamo questo paese!

15 ottobre contro l’austerity prima tappa verso lo sciopero precario!

Costruiamo la prima dichiarazione d’indipendenza dei precari.

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Dichiarazione dell’Hub Meeting15S di Barcellona, verso il 15Ottobre a Roma

Dichiarazione del Hub Meeting partecipanti 15S

Noi, reti e persone che hanno partecipato al Meeting 15SHub, riunione svoltasi a Barcellona tra il 15 e il 18 settembre, dichiariamo che

– Rifiutiamo il concetto di austerità per affrontare l’attuale crisi e risolverla, in quanto tale approccio presuppone una gestione autoritaria
 e antidemocratica dei beni comuni.

– Denunciamo le politiche di austerità che si traducono in un aumento della diseguaglianza e in un attacco frontale ai fondamenti del welfare e dei diritti conquistati in anni di dure lotte sociali dei movimenti.

– Sottolineamo come, allo stesso tempo, queste politiche di austerità favoriscano interessi economico-finanziari privati, quegli stessi interessi che sono alla base del modello di sviluppo e che ci hanno condotto all’attuale crisi.

Quella che stiamo osservando non è solo una crisi economica, ma  anche e soprattutto una crisi politica. E’ l’apice del processo di disgregazione del patto sociale europeo e rivela impietosamente l’assoluta incapacità
dell’attuale sistema politico di gestire decentemente il bene comune.

A fronte della condizione di precarietà materiale ed esistenziale sempre più diffusa, reclamiamo un processo di democratizzazione radicale della gestione economica e politica in Europa, che consenta la costruzione di un nuovo modello di welfare che poggi su due pilastri:
l’introduzione di un reddito di esistenza, incondizionato, e l’accesso effettivo e libero ai diritti e ai beni comuni
(sanità, istruzione, casa, ambiente, conoscenza).

Per conseguire questi obiettivi, è essenziale un nuovo modello di politica fiscale europea e un nuovo approccio alla questione del debito. Condizione necessaria ma non sufficiente perché ciò possa realizzarsi è l’introduzione di un nuovo insieme di diritti sociali, tra i quali è prioritario il diritto al fallimento per gli individui.

Salviamo le persone, non le banche.
Consideriamo inoltre necessario garantire l’accesso libero alle reti di comunicazione e la neutralità di queste stesse reti, alla conoscenza e all’istruzione e ci opponiamo a qualsiasi processo di privatizzazione e mercificazione del sapere.

In un quadro in cui precarizzazione e disoccupazione continuano a crescere incontrollate, la condizione migrante è l’esempio più eclatante della distruzione dei diritti del lavoratore e dello svilimento delle condizioni di lavoro.
Consideriamo ciò che sta accadendo nel campo lavoro migrante uno scellerato laboratorio di quel che si intende applicare a tutta la classe lavoratrice in un futuro prossimo. Rivendichiamo con forza e urgenza la necessità di svincolare la fruizione da parte dei migranti dei diritti sociali, politici e di cittadinanza dal contratto di lavoro. Al tempo stesso, riteniamo che l’accesso a tali diritti debba essere garantito anche i familiari dei migranti che lavorano in
Europa. Siamo tutti migranti, nessun essere umano può essere illegale!

Dobbiamo trasformare gli attuali modelli di democrazia e riappropriarci della politica, con la partecipazione diretta a tutti gli aspetti della vita sociale, politica ed economica. L’attuale modello di democrazia rappresentativa è evidentemente superato. Non c’è nessuno che ci rappresenti!

Per tutti questi motivi, convochiamo la cittadinanza per il prossimo 15 Ottobre affinché possa esprimere con forza il rifiuto di questa strategia di uscita dalla crisi e rivendicare una democrazia che sia reale.

Non abbiamo più nulla da perdere ma tutto da guadagnare!

15SHM Statement

18 Sep

Declaración de los participantes del 15S Hub Meeting

Nostras, las redes y personas participantes en el encuentro 15SHub Meeting que tuvo lugar en Barcelona entre los días 15 y 18 de septiembre

Rechazamos el concepto de austeridad para explicar la actual situación de crisis y afrontar su solución ya que supone una gestión autoritaria y antidemocrática de la riqueza común.         

Denunciamos que las políticas de  austeridad producen  un incremento de  las desigualdades y un ataque  frontal contra los pilares del Estado del Bienestar europeos y los derechos sociales que éste ha garantizado como resultado de las múltiples luchas sociales.

Al mismo tiempo, estas políticas de austeridad favorecen los intereses económico-financieros   privados responsables del modelo de desarrollo económico que ha provocado la actual crisis.

Ésta no es tan sólo una crisis económica sino sobre todo una crisis política. Es la culminación de la ruptura del pacto social europeo. Además pone en evidencia el agotamiento del sistema de partidos políticos en la gestión del bien común.

Ante la precariedad material y existencial, reclamamos la democratización de la economía  y de la gobernanza europea que permita la construcción de un nuevo modelo de bienestar social fundado en dos aspectos: la provisión de una renta básica incondicional y el acceso efectivo y libre a los derechos sociales y los bienes comunes (sanidad, educación, vivienda, medioambiente, conocimiento ..)

Para la consecución de este modelo se hace necesaria una política fiscal, presupuestaria y social europea así como la auditoría de la deuda. Condición necesaria pero no suficiente para ello es el reconocimiento de un nuevo catálogo de derechos sociales, entre los cuales se revela prioritario el derecho a la quiebra de las personas: rescatemos a las personas no a los bancos.

También consideramos necesario garantizar la neutralidad y el libre acceso  a la red, al conocimiento y la educación contra las dinámicas privatizadoras y mercantilizadoras del saber.

En una situación de precariedad y desempleo creciente, la condición migrante es el más claro ejemplo de la privación de los derechos laborales y de la desvalorización de la actividad productiva. La condición del trabajo migrante es el modelo que pretende ser impuesto al conjunto de la población trabajadora. Reivindicamos la desvinculación de los derechos sociales, políticos y de ciudadanía del contrato de trabajo. Así mismo reivindicamos la concesión de los mismos al conjunto de los migrantes residentes en los países europeos. Todos somos migrantes y nadie es ilegal.

Debemos  transformar los modelos de democracia y reapropiarnos de la política a  partir de la participación directa en todos los ámbitos de la vida  social, política y económica.  El actual modelo de democracia representativa está agotado: nadie nos representa.

Por estos motivos convocamos a la ciudadanía el próximo 15 de Octubre para que exprese su rechazo a las políticas de salida de la crisis y reivindique de una verdadera democracia.

 

Nada que perder, todo por ganar

http://bcnhubmeeting.wordpress.com/

 

La minaccia dell’articolo 8

di Luciano Gallino, la Repubblica, 15 settembre 2011

I commenti all’articolo 8 del decreto sulla manovra finanziaria hanno insistito per lo più sul rischio che esso faciliti i licenziamenti, rendendo di fatto inefficace l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori allorché si realizzino “specifiche intese” tra sindacati e azienda. È stato sicuramente utile richiamare l’attenzione prima di tutto su tale rischio, di importanza cruciale per i lavoratori.

Tuttavia un’attenzione non minore dovrebbe essere rivolta ad altre parti dell’articolo 8 che lasciano intravvedere un grave peggioramento delle condizioni di lavoro di chiunque abbia o voglia avere un’occupazione alle dipendenze di un’azienda.

Vediamo dunque che cosa potrebbe succedere ad un lavoratore (o lavoratrice) che già è occupato in un’azienda, oppure stia trattando la propria assunzione, laddove associazioni dei lavoratori rappresentative sul piano nazionale o territoriale abbiano sottoscritto con quell’azienda le “specifiche intese” previste dall’articolo 8. Sappia in primo luogo l’interessato che – se ci sono state delle intese in merito – ogni suo movimento sul lavoro sarà controllato istante per istante da un impianto audiovisivo. L’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori lo vieterebbe, ma l’articolo 8 del decreto permette di derogarvi. Gradirebbe forse, quel lavoratore, un orario intorno alle 40 ore? Se lo tolga dalla testa. In forza di un’altra “specifica intesa”, entro quell’azienda l’orario normale è di 60 ore, il limite massimo posto da una direttiva della Commissione europea, limite che per particolari mansioni può salire a 65; però, in forza della stessa intesa, può in qualche mese scendere a 20. Vorrebbe essere classificato come operaio specializzato, come lo è da tanti anni? Gli viene fatta presente un’altra intesa, stando alla quale quell’azienda può attribuire a uno specializzato la qualifica di operaio generico: prendere o lasciare. Può anche accadergli, dopo qualche tempo, che l’azienda gli proponga di convertire il contratto di lavoro a tempo indeterminato in un contratto da collaboratore a progetto rinnovabile, se garba all’azienda, di tre mesi in tre mesi.

Un contratto grazie al quale si ritroverebbe a lavorare nella veste di un autonomo – tali essendo i collaboratori a progetto – che deve effettuare la sua prestazione con tutti i vincoli del lavoratore subordinato, a partire dall’orario e dai controlli audiovisivi, ma senza fruire dei benefici che questi hanno, tipo avere per contratto le ferie retribuite.

Le situazioni lavorative sopra indicate non sono illazioni gratuite. Se le parole del decreto hanno un senso, sono tutte situazioni rese materialmente e immediatamente possibili, nel caso in cui l’articolo 8 diventi legge, dai punti che vanno da a) (concernente gli audiovisivi) fino ad e) (riguardanti le modalità del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni) del comma 2 dell’articolo in questione. Con un minimo impegno se ne possono individuare innumerevoli altre; quale, per dire, un’organizzazione del lavoro che abolisca del tutto le pause sulle catene di produzione, o introduca operazioni di dieci secondi da ripetere seicento volte l’ora.

La giungla di situazioni lavorative in cui qualsiasi lavoratore o lavoratrice potrebbe trovarsi sommerso è resa possibile dal comma 2-bis (o 3 che sia, nell’ultima versione). Tale comma costituisce un mostro giuridico quale la Repubblica italiana non aveva mai visto concepire dai suoi legislatori. Infatti esso permette nientemeno che di derogare, ove si siano stipulate le suddette intese tra associazioni dei lavoratori o le loro rappresentanze sindacali operanti in azienda, dalle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2. Non qualcuna: tutte. Al riguardo la formulazione dell’articolo 8 non lascia dubbi: esso mira a stabilire per legge che è realmente possibile derogare da tutte le leggi che hanno finora disciplinato le materie sopra elencate. Dette leggi comprendono non soltanto lo Statuto dei Lavoratori del 1970, il pacchetto Treu del 1997, la legge 30 del 2003 con il successivo decreto attuativo (emanati dalla stessa maggioranza di governo), ma pure le centinaia di disposizioni legislative introdotte dagli anni 60 in poi che si trovano citate in calce a ogni manuale di diritto del lavoro (si veda ad esempio quello del compianto Massimo Roccella).

Oltre che ignorare, ma per il governo attuale son piccolezze, gli articoli 3 e 39 della Costituzione.

Di fronte a una simile mostruosità, eventuali accordi tra i sindacati confederali che si impegnassero a rifiutare ogni deroga di quella parte dell’articolo 8 riguardante i licenziamenti senza giusta causa del comma 2 sarebbero evidentemente scritti sull’acqua (a parte l’amenità di sottoscrivere di corsa una deroga a un decreto millederoghe). Per un verso perché rappezzare il vulnus dell’articolo 18 dello Statuto sarebbe certamente utile; ma al prezzo di accettare il gravissimo stravolgimento di tutte le regole concernenti l’organizzazione del lavoro e della produzione che il decreto pretende di introdurre. Per un altro verso, l’ambiguo comma 1 spalanca palesemente la porta a ogni genere di degrado dell’attività dei sindacati: dalla contrattazione sindacale al ribasso (nota fattispecie del diritto del lavoro), alla formazione di mille sigle locali, alla concreta possibilità che anche rappresentanze sindacali delle maggiori confederazioni cedano sul piano locale a pressioni, lusinghe, o calcoli di convenienza. A sommesso avviso di chi scrive, l’articolo 8 del decreto sulla manovra economica non è in alcun modo emendabile o assoggettabile a pattuizioni. Se non si vuole far fare un salto indietro di mezzo secolo alla nostra civiltà del lavoro, va semplicemente cancellato.

(15 settembre 2011)

 

Il comune in rivolta!

 

di JUDITH REVEL e TONI NEGRI

Non ci voleva molta immaginazione per « strologare » rivolte urbane nella forma delle jacqueries, una volta che l’analisi della crisi economica attuale fosse stata ricondotta alle sue cause ed ai suoi effetti sociali. In Commonwealth, fin dal 2009, era stato infatti previsto. Quello che non ci saremmo mai attesi, all’incontrario, è che in Italia, nel movimento, questa previsione fosse rifiutata. Sembrava infatti, ci fu detto, antica; si disse invece: ora è il momento di ricostruire fronti larghi contro la crisi, di stabilire nei movimenti forme di organizzazione-comunicazione-riconoscimento che tocchino la rappresentanza politica.

Bene, adesso ci si trova tuttavia di fronte a movimenti che si esprimono in forme insurrezionali più o meno classiche, ma che si danno ovunque, sradicando così la vecchia grammatica geopolitica nella quale alcuni continuavano ostinatamente a voler pensare. Si danno cioè:

1) laddove un proletariato nuovo – fatto di precari et di disoccupati – si congiunge a classi medie in crisi: soggetti diversi che si unificano in modo inedito nella lotta, come nei paesi del sud-mediterraneo, per chiedere nuove forme di governo, più democratiche. La dittatura politica dei vari Ben Ali e quella politico-economica delle nostre democrazie di facciata non saranno certo equivalenti – anche se le seconde hanno per decenni accuratamente costruito, appoggiato e protetto le prime – ma ormai la voglia di democrazia radicale è ovunque e traccia un comune di lotta a partire da fronti diversi, permette intrecci e mescolanze, ibrida le rivendicazioni dagli uni con quelle degli altri;

2) dove le medesime forze sociali, che soffrono della crisi in società con rapporti di classe ormai decisamente controllati da regimi finanziari in economie miste, manifatturiere e/o cognitive, si muovono su terreni diversi con pari determinazione (i movimenti degli operai, degli studenti, e dei precari in genere, prima; ed ora movimento sociali complessi del tipo “acampados”);

3) dove la ripresa di movimenti di puro rifiuto, attraversati da composizioni sociali quanto mai complesse, stratificate sia verticalmente (classi medie che precipitano verso il proletariato dell’esclusione), sia orizzontalmente (nelle diverse sezioni della metropoli, fra gentrificazione e zone ormai “brasilianizzate” – come ricorda la Sassen –, dove cioè i rapporti fra gang cominciano a lasciare segni di kalashnikov sulle pareti dei quartieri, perché l’unica – drammatica, entropica – alternativa all’organizzazione delle lotte è quella della criminalità organizzata).

Le attuali rivolte inglesi appartengono a questa terza specie ed assomigliano molto a quelle che hanno attraversato qualche tempo fa le banlieues francesi: misto di rabbia e di disperazione, di frammenti di auto-organizzazione e di spezzoni di sedimentazione di altro tipo (gruppi di quartiere, solidarietà di rete, tifoserie ecc.), esprimono ormai l’insopportabilità di una vita ridotta a macerie. Le macerie che le rivolte lasciano dietro a se stesse, senz’altro inquietanti, non sono alla fine così diverse da quelle che costituiscono il quotidiano di molti uomini e donne oggi: brandelli di vita ad ogni modo.

Come aprire la discussione su questo complesso di fenomeni dal punto di vista di un pensiero del comune? Quanto verremo qui di seguito formulando, ha la sola intenzione di aprire uno spazio di dibattito.

Innanzitutto, ci sembra si tratti di respingere alcune interpretazioni che i mezzi di comunicazione delle classi dominanti veicolano.

Si sostiene in primo luogo, che si tratta di movimenti (questi di cui parlavamo) da considerare, dal punto di vista politico, nella loro “radicale” diversità. Ora, che questi movimenti siano politicamente diversi è ovvio. Ma che lo siano “radicalmente” è semplicemente idiota. Tutti questi movimenti sono, infatti, radicalmente qualificati non semplicemente – a secondo dei casi – dall’opposizione a Ben Ali o ad altri dittatori, non dalla denuncia del tradimento politico di Zapatero o di Papandreou, non dall’odio nei confronti di Cameron o dal rifiuti dei diktat della BCE – ma piuttosto, tutti insieme, dal rifiuto di pagare le conseguenze dell’economia e della crisi (niente sarebbe più errato che considerare la crisi come catastrofe accaduta all’interno di un sistema economico sano; niente di più terribile del rimpianto per l’economia capitalistica prima della crisi), cioè dell’enorme spostamento di ricchezza che queste stanno provocando a favore dei potenti, organizzati nelle forme politiche dei regimi occidentali (democratici o dittatoriali, conservatori o riformisti…).

Queste sono rivolte che nascono in Egitto o in Spagna o in Inghilterra, dal rifiuto allo stesso tempo, dell’assoggettamento, dello sfruttamento e del saccheggio che l’economia ha predisposto sua vita di intere popolazioni del mondo, e delle forme politiche nelle quali la crisi di questa appropriazione biopolitica è stata gestita. E questo vale anche per tutti i regimi cosiddetti “democratici”. Questa forma di governo non sembra preferibile, se non per l’apparente “civiltà” con la quale maschera l’attacco sferrato alla dignità e all’umanità delle esistenze che frantuma: la dissoluzione dei rapporti di rappresentanza ha raggiunto misure rovinose. Quando si afferma che esistono – secondo i criteri della democrazia occidentale – differenze radicali fra la rappresentanza nella Tunisia di Ben Ali o nella Tottenham, o nella Brixton di Cameron, si finge semplicemente di non vedere l’evidenza: la vita è stata troppo compressa e saccheggiata per non esplodere in un moto di rivolta. Per non parlare dei dispositivi di repressione, che riportano l’Inghilterra ai tempi dell’accumulazione originaria, alle prigioni di Moll Flanders o alle fabbriche di Oliver Twist. All’affissione delle foto dei ragazzi rivoltosi sui muri e sugli schermi delle città inglesi, andrebbe davvero opposta la stampa grand format delle facce da maiali (altra variante dei PIGS?) dei padroni delle banche e delle finanziarie che hanno condotto interi quartieri a quella condizione, e che continuano a fare della crisi occasione di profitto.

Torniamo alla vulgata dei giornali. Diverse sarebbero queste rivolte, poi, dal punto di vista etico-politico. Alcune legittime, come nei paesi del Maghreb, perché la corruzione dei regimi dittatoriali avrebbe condotto a condizioni di miseria; comprensibili quelle degli studenti italiani o degli “indignados” perché “precarietà è brutto”; criminali quelle dei proletari inglesi o francesi, semplici movimenti di appropriazione di quello che non è loro, di vandalismo, e di odio razziale.

Tutto ciò è in gran parte falso, perché queste rivolte tendono – fra le diversità, che non si tratta qui di negare – ad avere natura comune. Non sono rivolte “giovanili”, ma rivolte che interpretano condizioni sociali e politiche considerate del tutto insopportabili da strati di popolazione sempre più maggioritari. La degradazione del salario lavorativo e di quello sociale è andata oltre quel limite che gli economisti classici e Marx identificavano nel livello di riproduzione dei lavoratori e chiamavano “salario necessario”. Ed ora, che i giornalisti dichiarino che queste lotte sono prodotte da derive del consumismo, se osano!

Ne viene una prima conclusione. Questi movimenti possono essere “ricompositivi”. Essi penetrano in effetti le popolazioni – che si tratti di lavoratori finora garantiti o di precari, di disoccupati o di chi non ha mai conosciuto altro che “attività”, arte di arrangiarsi, lavoretti sommersi – e ne esaltano i momenti di solidarietà nella lotta contro la miseria. Nella povertà e nella lotta per reagirvi si ricongiungono ceti medi declassati e proletariato migrante e non, lavoratori manuali e cognitivi, pensionati, casalinghe e giovani. Qui si ritrovano condizioni di lotta unitaria.

In secondo luogo, salta immediatamente agli occhi (ed è questo che soprattutto inorridisce gli interlocutori che pretendono vedere caratteristiche consumistiche in questi movimenti) che questi non sono movimenti caotico-nichilisti, che non si tratta di bruciare per bruciare,  che non si vuole decretare la potenza distruttiva di un no future inedito. Quarant’anni ormai dopo il movimento punk (che fu peraltro, alla faccia degli stereotipi, appassionatamente produttivo), non sono movimenti che decretano, avendola registrata e introiettata, la fine di ogni futuro ma che al contrario vogliono costruirlo. Essi sanno che la crisi che li tocca non è dovuta al fatto che i proletari non producono (sotto padrone o nelle condizioni generali della cooperazione sociale che ormai innerva i processi di captazione del valore), o non producono abbastanza, ma al fatto che sono derubati del frutto della loro produttività; che cioè essi devono pagare una crisi che non è la loro; che i sistemi di sanità, di pensionamento, di ordine pubblico, se li sono già pagati mentre la borghesia accumulava per le guerre ed espropriava per il suo proprio profitto. Ma soprattutto sanno che dalla crisi non si uscirà se loro, i rivoltosi, non mettono le mani nei meccanismi di potere e nei rapporti sociali che quei meccanismi regolano. Ma, si obbietterà, quei movimenti non sono politici. Quand’anche esprimessero posizioni politicamente corrette (come spesso è avvenuto per gli insorti nord-africani o per gli indignados spagnoli) – aggiungono i critici – quei movimenti si pongono pregiudizialmente fuori o in posizione critica dell’ordine democratico.

Per forza, ci sembra di poter aggiungere: nell’ordine politico attuale, è difficile, se non impossibile, trovare fori, passaggi, percorsi attraverso i quali un progetto che attacchi le attuali politiche di superamento della crisi, possa darsi. Destra e sinistra, quasi sempre, si equivalgono. La patrimoniale riguarda i redditi da 40/50 mila euro per gli uni, quella di 60/70 mila euro per gli altri: sarebbe quella la differenza? La difesa della proprietà privata, l’estensione delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni sono all’ordine del giorno di ciascuna parte. Il sistema elettorale è ormai puramente e semplicemente ridotto a sistema di selezione di delegati dei ceti privilegiati. Ecc, ecc. I movimenti attaccano tutto questo: sono politici o no quando lo fanno? I movimenti sono politici perché si pongono su un terreno non rivendicativo ma costituente. Attaccano la proprietà privata perché la conoscono come forma della loro oppressione ed insistono piuttosto sulla costituzione e la gestione della solidarietà, del Welfare, dell’educazione – insomma, del comune, perché ormai è questo l’orizzonte di vita dei vecchi e dei nuovi poveri.

Naturalmente nessuno è tanto stupido da pensare che queste rivolte producano immediatamente nuove forme di governo. Ciò che tuttavia queste rivolte insegnano è che “ l’uno si è diviso in due”, che la compattezza apparentemente senza faglie del capitalismo è ormai solo una vecchia fantasmagoria – che non c’è modo di riunificarla, che il capitale è definitivamente schizofrenico, e che la politica dei movimenti non può che situarsi immediatamente dentro questa rottura.

Noi speriamo che i compagni che ritenevano le insurrezioni un vecchio arnese delle politiche dell’autonomia sappiano riflettere su quanto sta avvenendo. Non è sfiancandosi nell’attesa di scadenze parlamentari, ma inventando nuove istituzioni costituenti del comune in rivolta, che tutti insieme potremo comprendere l’a-venire.

da www.uninomade.org

 

Avanti a sinistra con lo sciopero politico

26/09/2010

Ilmanifesto

Tommaso De Berlanga

Avanti a sinistra con lo sciopero politico

Oskar Lafontaine è uno dei pochi «statisti» espressi dalla Sinistra europea. Ieri era a Roma, alla festa nazionale della Federazione della Sinistra, per il confronto con Paolo Ferrero.
Mercoledì sarà presentata la riforma del patto di Maastricht; cosa prevede?
È un trattato neoliberista fin dalle origini. Il suo scopo è la stabilità dei prezzi, e questo porta a una politica economica sbagliata. Avrà per conseguenza l’aumento della disoccupazione e delle condizioni di vita precarie. Se l’Unione europea prosegue su questa strada, i problemi si aggraveranno.
Quale configurazione dovrebbe avere la Ue per evitare che le popolazioni vedano l’Europa come un nemico?
In molti paesi si registra già una disaffezione verso le elezioni europee. In Germania vota solo il 40%. Si è persa fiducia. I popoli hanno tutte le ragioni visto che le misure europee finora hanno portato al dumping salariale, sociale e fiscale. E il rischio è che la destra aumenti i consensi.
C’è una responsabilità della sinistra?
Se la sinistra non propone politiche alternative, la gente si rivolge alla destra. In Germania, invece, la Linke raggiunge il 12% e non c’è un partito di estrema destra. In tutta Europa la sinistra si pone il problema del governo; la questione decisiva è la credibilità.
Dall’inizio del prossimo anno, il bilancio sarà europeo. I singoli stati avranno meno spazio per politiche nazionali. Cosa dovrebbe fare la sinistra?
Bisogna capire cosa significa una moneta unica. Quando c’è, scompare un importante strumento di politica monetaria come la svalutazione o la rivalutazione. Oggi, in Europa, serve una politica salariale coordinata, che segua i movimenti della produttività. In caso contrario, avremo le tensioni attuali. Per esempio, in Grecia i salari aumentano troppo, ma la moneta non può essere svalutata. Al contrario, in Germania sono fermi, ma non si può rivalutarla. Una soluzione, per esempio, sarebbe aumentare i salari in Germania, mentre in Grecia li si modera. Altrimenti si sgretola la Ue.
È una proposta?
Abbiamo bisogno di un salario minimo europeo, stabilito per contratto. Ma vale anche per le tasse e i servizi sociali. La terza proposta proposta riguarda il potere. Una risposta per facilitare la redistribuzione dal basso verso l’alto è lo sciopero generale. A lunga scadenza, la soluzione è la redistribuzione delle ricchezze create dai lavoratori nel loro complesso, a livello delle grandi imprese. È necessario un nuovo ordine economico. E che lo stato prenda in mano la circolazione del denaro. La circolazione in mano ai privati non ha funzionato. Queste sono le cinque nostre proposte.
Quanto pesa il potere economico?

Il potere economico è per la vita delle persone ancor più importante di quello politico. La proprietà dovrebbe essere delle maestranze che l’hanno creata. Se lo stato dà soldi a Opel o Fiat, siano i lavoratori ad avere il controllo, non il management. La Linke non ha proposto la partecipazione statale, come in Volkswagen, ma quella dei lavoratori.
Cosa deve fare la sinistra per riguadagnare consenso a livello europeo?
Noi abbiamo il 12% perché abbiamo proposto un programma credibile e alternativo rispetto agli altri partiti. Che non hanno potuto esagerare nel diventare neoliberisti proprio perché c’era la Linke. Noi avremmo preso i loto voti, insomma; e i rapporti sociali sono migliori di quanto sarebbero stati altrimenti. Anche da noi si discute se partecipare a un governo oppure no. Ma la risposta è «sì» solo quando ci sono le condizioni per realizzare i progressi sociali reali, visibili, tangibili per l’elettorato.
È accettabile, come in Siemens, la sicurezza del posto di lavoro in cambio di minor salario?
Se lo fa una sola impresa può funzionare, se lo fanno tutte, no. E il sindacato diventa inutile. Il modello neoliberista è stato assunto dai partiti socialdemocratici, ma anche dal sindacato. È necessario un rinnovamento anche a questo livello.
Cambia qualcosa sul piano delle forme di lotta?
Le grandi manifestazioni non bastano. Le imprese e i governi ci sono abituati. Sono parte integrante di un «teatro». Bisogna incidere sui rapporti di distribuzione. Se la produzione viene paralizzata, allora c’è una reazione anche da parte delle classi dirigenti. Per questo la Linke ha per la prima volta nel programma anche lo sciopero politico. La tradizione socialdemocratica è sempre stata contro questa forma, per esempio.

14 dicembre: agenzie stampa

15 dicembre

SCONTRI, ALZETTA: «PIAZZA NON PIÙ DISPOSTA A SUBIRE ABUSI DEMOCRAZIA»
OMR0000 4 POL TXT Omniroma-SCONTRI, ALZETTA: «PIAZZA NON PIÙ DISPOSTA A SUBIRE ABUSI DEMOCRAZIA» (OMNIROMA) Roma, 15 dic – «È assolutamente inutile pensare di raccontare quello che è successo ieri a Roma, come l’effetto dell’azione di pochi facinorosi che avrebbero preso in scacco una piazza altrimenti pacifica. La realtà è un’altra e il fatto che i media e la classe politica cerchi in tutti i modi di nasconderla o mistificarla non fa altro che dimostrare la spaccatura che vive il sistema della rappresentanza in questo paese. Tutta la piazza ieri ha voluto dimostrare non solo che c’è un’intera generazione che non ha più né futuro né rappresentanza politica, ma che non è più disposta a subire passivamente gli abusi di una democrazia truccata. Che piaccia o no, è questo il fatto nuovo, la vera notizia della giornata. La fiducia in parlamento ottenuta con la compravendita dei deputati, al pari delle parentopoli ad uso e consumo delle cricche, non sono solo uno spettacolo che offende la dignità di tutti, ma è anche il segno di una classe politica che non ha più scrupoli né timidezza nel mostrarsi per quello che è. E allora perché la rabbia e l’indignazione non dovrebbero anche loro mostrarsi per quello che sono? Chi era in piazza ieri è più consapevole di quello che i giornali o i politici credono, sa perfettamente che con la fiducia il governo procederà in modo ancora più aggressivo e incurante nei suoi progetti di dismissione del welfare e nell’attacco ai diritti sociali, dalla riforma universitaria fino all’applicazione delle misure dell’austerità economica. Sa perfettamente che non c’è mediazione possibile. La giornata di ieri tuttavia non è sufficiente a costruire un’alternativa al berlusconismo, ma è stata una svolta necessaria a renderla possibile. Ha aperto uno spazio che ora si tratta di estendere. È il momento ora di sviluppare il ragionamento politico in un nuovo progetto che metta in collegamento quei pezzi di società che non ci stanno ad accettare la dura legge del ricatto, che non sono e non vogliono essere oggetto di nessuna compravendita. Per questo il meeting lanciato da Uniti contro la Crisi per il prossimo 22 e 23 gennaio diventa fondamentale in un percorso che vede nel 14 dicembre l’apertura di una nuova fase». Lo dichiara, in una nota, Andrea Alzetta, capogruppo capitolino Roma in Action. red 151325 dic 10

GOVERNO: SCONTRI ROMA, CHIESTA CONVALIDA FERMI MA NO PROCESSO DIRETTISSIMA

GOVERNO: SCONTRI ROMA, CHIESTA CONVALIDA FERMI MA NO PROCESSO DIRETTISSIMA = Roma, 15 dic. (Adnkronos) – Nessun processo per direttissima, per il momento, a carico delle persone arrestate ieri durante gli incidenti a Roma, ma una richiesta di convalida dell’arresto per 26 persone, richiesta che la Procura invierà al più presto al gip. L’ufficio del pubblico ministero ha già disposto la scarcerazione per una giovane che era tra i fermati di ieri e a carico della quale non sono emerse responsabilità. Sono queste le prime mosse disposte dal procuratore aggiunto Pietro Saviotti nell’ambito dell’inchiesta scaturita dagli scontri di piazza avvenuti ieri. I manifestanti, che hanno tra i 18 e i 37 anni età, provengono da Roma, Sardegna, Liguria e Toscana. In giornata saranno trasferiti dalle camere di sicurezza dove hanno trascorso la scorsa notte in carcere, in attesa della convalida da parte del gip. La Procura chiederà o la detenzione in carcere o gli arresti a domicilio ovvero l’obbligo di firma. (segue) (Saz/Col/Adnkronos) 15-DIC-10 13:42 NNN

GOVERNO: ALEMANNO, A SCONTRI DI IERI PROFESSIONISTI GUERRIGLIA AD ALTISSIMO LIVELLO

GOVERNO: ALEMANNO, A SCONTRI DI IERI PROFESSIONISTI GUERRIGLIA AD ALTISSIMO LIVELLO = Roma, 15 dic. (Adnkronos/Labitalia) – «Quello che posso dire è che chi si è mosso ieri tra piazza del Popolo e dintorni è un professionista della guerriglia ad altissimo livello, con tecniche e modi di agire che sono veramente degni, purtroppo, di istituzioni come quelle di Genova e dei più violenti scontri verificatisi in europa in tempi recenti». Così il sindaco di Roma, a margine della X Conferenza nazionale di Statistica è intervenuto sugli scontri di ieri. Alemanno ha quindi sottolineato che «la questura sta facendo verifiche su tutte le aree di provenienza per vedere se ci sono presenze europee». (Lab /Opr/Adnkronos) 15-DIC-10 13:19 NNN

GOVERNO: SCONTRI ROMA, CHIESTA CONVALIDA FERMI MA NO PROCESSO DIRETTISSIMA
GOVERNO: SCONTRI ROMA, CHIESTA CONVALIDA FERMI MA NO PROCESSO DIRETTISSIMA = Roma, 15 dic. (Adnkronos) – Nessun processo per direttissima, per il momento, a carico delle persone arrestate ieri durante gli incidenti a Roma, ma una richiesta di convalida dell’arresto per 26 persone, richiesta che la Procura invierà al più presto al gip. L’ufficio del pubblico ministero ha già disposto la scarcerazione per una giovane che era tra i fermati di ieri e a carico della quale non sono emerse responsabilità. Sono queste le prime mosse disposte dal procuratore aggiunto Pietro Saviotti nell’ambito dell’inchiesta scaturita dagli scontri di piazza avvenuti ieri. I manifestanti, che hanno tra i 18 e i 37 anni età, provengono da Roma, Sardegna, Liguria e Toscana. In giornata saranno trasferiti dalle camere di sicurezza dove hanno trascorso la scorsa notte in carcere, in attesa della convalida da parte del gip. La Procura chiederà o la detenzione in carcere o gli arresti a domicilio ovvero l’obbligo di firma. (segue) (Saz/Col/Adnkronos) 15-DIC-10 13:42 NNN

ANSA-FOCUS/ SCONTRI ROMA: COME GLI ANNÌ 70, ROMA RIVIVE L’INCUBO
CRO S43 QBXL >ANSA-FOCUS/ SCONTRI ROMA: COME GLI ANNÌ70,ROMA RIVIVE L’INCUBO TANO D’AMICO,MAI VISTA PIAZZA DEL POPOLO FRA I ROGHI,RABBIA PURA (di Rosanna Pugliese) (ANSA) – ROMA, 14 DIC – Le fiamme che ardono in Piazza del Popolo, e due colonne alte di fumo nero, accanto alle due chiese, dove si scontrano la polizia e i ragazzi. C’è «una immagine nuova», oggi, anche negli occhi di uno come Tano D’Amico, l’autore di celeberrimi scatti durante gli scontri degli anni Settanta. «Piazza del Popolo, così, con quei roghi, io non l’avevo mai vista», dice il fotografo. Dov’è stato stamattina? «Dappertutto». Cosa ha visto? «La rabbia pura che esplode. Nel ’77, nel ’68 c’era invece la speranza. Io andrei a due secoli fa, per fare un confronto, alle sommosse di Parigi e al ’48». Rientra nella cronaca dei fatti, in ogni caso, oggi, l’impressione che la storia di 30-40 anni fa si ripeta. Roma ha rivissuto l’incubo del passato. E lo dimostrano alcune foto storiche. Il fiume di studenti nel cuore di Roma, oggi; come quello immortalato il 19 febbraio 1977, in bianco e nero: la foto s’intitolava ’50 mila studenti per le vie della capitalè. Le scarpe a terra, su via del Corso: le hanno perse durante gli scontri, oggi. Come quelle brandite in aria dalle donne, ancora nel ’77, ‘Siamo tutte a piede liberò. Le sciarpe usate per nascondere i volti, oggi. Come lo scatto che inaugura la galleria de ‘Gli anni ribellì di D’Amico: ‘Ragazza e carabinierì, dove la fila al centro fra i capelli, e la sciarpa tirata sopra al naso incorniciano gli occhi puntati sui militari. Un ragazzo si sente male, su uno dei ponti del Tevere, e tre compagni lo trasportano, correndo, mentre scappano dalla ‘caricà, oggi. Accadeva anche il 21 aprile del 1977: tre agenti trasportavano a braccia il collega ferito, in una foto. Chi oggi è stato alla manifestazione contro il Governo non ha potuto non ricordare gli anni ’70. «Ci ho pensato anche io – risponde D’Amico -. Ma allora era molto diverso», dice anche. «All’epoca protestava una minoranza. Oggi in piazza scende la maggioranza degli studenti». Non solo. «Nel ’68 c’era un grandissimo movimento, animato da grandi speranze per il futuro. Nel ’77 c’era una incredibile autonomia di pensiero, con la novità delle donne in piazza, per esempio. Oggi io ho visto la rabbia pura dei figli contro i padri, intesi in senso lato. L’esplosione della paura del futuro. A costo di prenderle, a costo di farsi male. Ma non erano armati». La sensazione che l’incubo si ripeta, che sia ancora possibile una morte come quella di Giorgiana Masi, che a 19 anni finì vittima degli scontri a Ponte Garibaldi, il 12 maggio del 77, prende in ogni angolo del cuore della città. Quando di gruppi anarchici assediano le camionette delle forze dell’ordine. E più banalmente anche davanti alle aste degli striscioni, impugnate come ‘pseudo-armì, in metropolitana. Davanti all’onda che percorre Piazza del Popolo, quando esulta e applaude, perchè le camionette della Guardia di finanza arretrano, di fronte a petardi, bottiglie, sampietrini. O alle Mercedes in fiamme sul Lungotevere davanti a una folla di giovani che aspettano e temono: «Attenti che esplode!», e si fa il vuoto davanti. Il fiume umano che si cala da un muro di oltre due metri, coi maschi che sostengono le femmine nel salto, per deviare il percorso, avendo timore della possibile esplosione. Le fughe in avanti e gli scatti indietro. Le corse, quando il panico investe la folla. L’attesa sui ponti, alle spalle del focolaio degli scontri, dove gruppi di giovanissimi si rifugiano, finendo con l’essere comunque raggiunti dalla folla che scappa al grido ‘caricano!’. (ANSA). PGL 14-DIC-10 20:45 NNN

>ANSA-FOCUS/ SCONTRI ROMA: ULTRÀ E BORGATARI, I NUOVI BLACK BLOCK
CRO S43 QBXL >ANSA-FOCUS/ SCONTRI ROMA: ULTRÀ E BORGATARI,I NUOVI BLACK BLOC RABBIA URBANA E NIENTE POLITICA,HANNO SCATENATO L’INFERNO A ROMA (di Lorenzo Attianese) (ANSA) – ROMA, 14 DIC – Da giorni si esaltavano con l’unico obiettivo di scatenare oggi «l’apocalisse a Roma» perchè «quando monta la rabbia sociale nessuno ti può fermare». La maggior parte di loro ha dai 18 ai 25 anni, con alle spalle qualche anno di esperienza per scontri allo stadio o risse nei quartieri di borgata di Roma e Napoli. E fanno nuovi adepti tra i ‘figli di papa«: conta poco, perchè coperti con passamontagna, sciarpe nere, occhiali scuri o caschi sono tutti uguali. È la nuova generazione di black bloc ‘made in Italy’, che oggi ha sconvolto Roma con atti di vandalismo nella centro della città e scontri con le forze dell’ordine. Poca politica, nessun eroe se non la squadra del cuore, zero ideologia e moltissima rabbia urbana. Non esperti di guerriglia ma avvezzi agli scontri e all’odio »per le guardie«. Esperti di curve e disordini da stadio, e oggi infatti erano armati soprattutto con le »bombe di Maradona«, i grossi petardi usati proprio dagli ultrà. La politica per questi ragazzi c’entra poco, gli unici ideali sono »l’onore di chi ha il coraggio di rompere il c… agli sbirri« o la fede ultras. »Se ci tolgono il futuro devono pagare, tutti«, dice uno di loro arrivato da Napoli in treno con alcuni amici. A coordinarli ci sono alcuni ultras romani delle frange più giovani e violente. E nel mix di teppisti sono finiti anche alcuni anarchici romani e di Pisa. L’unico collante è il disagio sociale. Che va espresso con la »rivolta a 360 gradi – dicono – perchè siamo stanchi del mangia mangia dei potenti«. Anche oggi gli obiettivi principali dei black bloc sono state le forze dell’ordine e le banche. »Loro sono dei servi – dicono parlando degli agenti – noi invece difendiamo il popolo«, le banche, invece, rappresentano »il potere dei soldi che noi non abbiamo«. Appunto, più la disperazione che l’ideologia. Un potere quello dei soldi al quale, però, molti di loro aspirano. Quando girano ogni giorno per strada hanno vestiti alla moda e guardano con ammirazione ai bulli che sfrecciano con le auto potenti. »Siamo precari, ci arrangiamo lavorando in nero o con contratti a termine come operai, baristi o artigiani. Ma i veri soldi li fanno quelli seduti sulle poltrone, che ‘mangianò sulle nostre spalle«, dice qualcuno di loro mentre rolla una canna o distribuisce qualche pezzo di marijuana. Vestiti di nero e in gruppo, con spranghe, mazze, estintori, picconi, pietre o qualsiasi oggetto racimolato per strada si sentono un massa pronta a combattere una guerra studiando strategie urbane della tensione. E per qualche giovanissimo sono i nuovi eroi da imitare. Oggi alcuni liceali si coprivano il volto cercando di imitarli anche nei gesti, rovesciando i cassonetti e contando i danni per arricchire il loro nuovo curriculum. La riforma della scuola, il governo Berlusconi o i massimi sistemi. Niente di tutto questo. Conta la rabbia. È quanto basta per sentirsi i ‘giustì nella nuova sfida lanciata al potere. (ANSA). Y4J-TZ 14-DIC-10 20:58 NNN

(ANSA) – ROMA, 15 DIC – Cambio di strategia della procura di Roma per la maggior parte degli arrestati per gli scontri avvenuti ieri nel centro storico. La procura ha deciso di farli giudicare per direttissima e domani mattina compariranno dinanzi al giudice. Tutti i fermati sono accusati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. Il primo atto sarà, comunque, l’esame della legittimità dei fermi. Al termine dell’udienza, per gli indagati, tutti incensurati, potrebbe prospettarsi, a seconda delle singole posizioni, la custodia in carcere, gli arresti presso il domicilio, l’obbligo di firma, la rimessione in libertà. Il procuratore aggiunto Pietro Saviotti ha spiegato i motivi del cambio di rotta della procura: «Inizialmente avevamo deciso di non procedere in modo sommario con la direttissima del giorno dopo – ha dichiarato – optando per l’acquisizione di informative e dei verbali di arresto e chiedendo approfondimenti agli investigatori». «Successivamente la procura – ha aggiunto – valutate l’incensuratezza di tutti gli arrestati e la loro età, ha proceduto a circoscrivere le condotte di cui ciascuno deve rispondere. La mancanza dell’esigenza di ulteriori approfondimenti, salvo nuove risultanze, ha indotto la Procura a chiedere il giudizio direttissimo per la maggior parte degli arrestati. Nei prossimi giorni si valuteranno eventuali ulteriori fatti che dovessero emergere dagli approfondimenti investigativi».(ANSA). TB 15-DIC-10 15:30 NNN

Ora la precarietà vi si rivolta contro

Si fa presto a dire «black bloc». Salvo poi scoprire i volti dei propri figli dietro le sciarpe o un sasso. Abbiamo ascoltato attentamente le ragioni di chi martedì ha scelto di forzare la «zona rossa» intorno al Palazzo. Per scoprirne la cultura politica e sondarne la ricchezza umana. Seguiteci.
Tutti vi cercano, ma nessuno si interroga troppo. Com’è andata martedì?

La giornata ha messo in evidenza soggetti e movimenti con cui si devono ora fare i conti. Sta avvenendo in tutta Europa. Il paragone con gli anni ’70 è una narrazione del potere, per farne una semplice ripetizione ciclica, una banalità. C’è stata una saldatura importante tra tessuti sociali sulla proposta concreta. Si è unificata la prospettiva, ci si è dati una parola comune. E ha generalizzato il tema della condizione precaria, che viene sempre ridotta all’attesa di un posto fisso che non arriverà mai; mentre accomuna ai senza casa, ai cassintegrati, ecc.

Qual è stata la parola unificante?

Martedì era la rivolta, la ricerca della rottura. Come singole realtà sociali, facciamo molto altro. Per esempio, siamo impegnati in battaglie locali – a volte insieme ai sindacati di base o altre realtà – in conflitti di intensità inferiore. Chi vive la crisi, di fronte alla fine della mediazione politica, comincia a «soggettivizzarsi» non solo nell’autorganizzazione, ma costruendo «pezzettini» di rivolta quotidiana. Alla fine emerge la crisi globale di un sistema bloccato. Siamo di fronte alla crisi del processo di valorizzazione: di per sé è una «crisi sistemica». Non c’è molta ideologia da aggiungere. E c’è pure una «crisi nella crisi», quella della rappresentanza politica.

Coincidenza forse non casuale.

No. Ma è anche una scelta necessitata. Se – come potere – dico che «a causa della crisi» non sono in grado di dare risposta ai bisogni sociali, è ovvio che «la mediazione» non la posso trovare. Io politico sono esautorato dal processo economico. Ma ogni scelta economica è politica. Ora ci troviamo in una nuova stagione, che rimette in discussione anche tattiche, progetti, apparati organizzativi.

È cambiato «l’ambiente» per tutti. Trovare l’accordo intorno a un tavolo richiede anni, una giornata così, invece…

Non c’è dubbio, perché alla fine si tratta anche di riconquistare un po’ di forza sociale e politica. Se vogliamo la trasformazione radicale dell’esistente dobbiamo rimettere al centro i processi di conflitto. È politicismo parlare oggi di «quale rappresentanza per i movimenti», oppure «quale dialogo con il sindacato democratico». È discutere di politica prima di accumulare forza e presenza. I processi di ristrutturazione e riorganizzazione del capitale hanno frammentato il tessuto sociale. Ricostruire è arduo. Servono molte strutture reali, per supportare la socializzazione. L’opzione sindacale in molte situazioni non è sufficiente, visto anche l’alto livello di ricattabilità sui posti di lavoro, specie nel settore privato. In Italia la metà del lavoro è al nero. Ci sono 14 milioni certificati di inattivi…

Un po’ troppi, per esser tutti veri…

Tra questi sicuramente si pesca molto lavoro nero o sommerso, ed anche la criminalità. Nelle nostre periferie ci sono centri urbani di spaccio a cielo aperto, lì c’è il vero «quarto settore». Ma il problema della rappresentanza andrebbe posto come rappresentanza sociale, capacità di essere recettivi e intellegibili ai tanti che sono soli e non sanno come esprimere la propria rabbia. Ora sanno che c’è qualcuno disponibile. Fino a ieri pensavano che eravamo tutti «normalizzati», che con un paio di fondi pubblici ai centri sociali e una candidatura si sistemava tutto.

Tutto qui?

Che da qui a «costruire un mondo nuovo» sia sufficiente bruciare due macchine, ovviamente no… Ma qual è la priorità oggi? Riportare i processi di conflitto al centro, accumulare forze per il cambiamento… Anche facendo le barricate costruiamo un mondo nuovo, perché mentre le fai scopri «con chi» puoi fare un altro mondo. Tutto questo riporta al vecchio tema: «senz’acqua, la papera non galleggia».

Martedì si vedeva chiaro: «solo tutti insieme facciamo paura».

E la piazza ha «tenuto» oltre ogni attesa. Ora c’è da capire quali prospettive si dà questo movimento. Ma martedì tanti «pischelletti» hanno capito che c’è una cooperazione nella lotta, e la ricomposizione è possibile. Il movimento non è «nostro», è libero di scegliere.

Una ricomposizione concettuale, dopo 20 anni di «impotenza percepita»…

È stata davvero una giornata importante, per questo. Ora bisogna lasciare spazio affinché si esprima su altri obiettivi. Nei mesi scorsi è stata importante la mobilitazione degli studenti medi. E si è visto. Lo spezzone universitario ci stava dentro con una consapevolezza maggiore, ma con articolazioni meno sociali, più «equilibrismi». Ma è nella frammentazione sociale che c’è più necessità di un passaggio politico. Bisogna dare parola e rappresentanza sociale, quindi anche politica, a un precariato diffuso che oggi non ha altri spazi se non il proprio stesso «agire». C’è necessità di «candidarsi nella società» – non alle elezioni – essere credibili per le cose che fai e che dici tutti i giorni, al di là della sparata di martedì. Si tratta di costruire «complicità» nelle relazioni. Un piccolo obiettivo contro l’isolamento e la frammentarietà, ma anche contro la crisi della politica. Ci sono partiti di massa che, per fare un volantinaggio, faticano a mettere insieme 15 persone. E ci sono invece collettivi di base, movimenti autorganizzati, che hanno una capacità di militanza e adesione che va manifestata.

Come la spiegate questa differenza?

Anzitutto con l’accumulazione di forza e la consapevolezza delle parole d’ordine radicali che stiamo mettendo in campo. Se c’è una crisi sistemica, è sistemica. È inutile cercare il modo di cogestirla. L’idea di «governare la crisi» si scontrerà con gli equilibri della globalizzazione. Cosa farà Vendola domani, quando vorrà introdurre una riforma sociale radicale? Potrà sforare il patto di stabilità? Sarà disposto a farlo?

Da gennaio la politica di bilancio sarà fatta a Bruxelles.

Crediamo che la scelta sarà quella di «dichiarar guerra» ai poveracci. E’ ovvio che chi detiene il potere ha dei privilegi e li vuol preservare. Non ha più strumenti di mediazione, il welfare state, e dichiara guerra. Ma a questo punto è finita anche un’altra ipotesi: quella della «simulazione del conflitto». Oggi chi «simula» scherza col fuoco. Se è finita la mediazione politica, è finita anche la simulazione. L’«elemento simbolico» ha un peso forse ancora più forte. Il blindato che va a fuoco è un simbolo, non è che sparisce la guardia di finanza. Ma va a fuoco sul serio.

La repressione. Cosa vi aspettate?

Staremo a vedere. Per oggi si tratta di avere la capacità di dare una risposta unitaria. È comprensibile, conseguente, che ci sia una reazione dura. Chi ha i privilegi – ricchi, padroni, governanti – o chi voleva solo scalzare Berlusconi, presentandoci poi il conto dei sacrifici, del «governo di transizione neutrale», della gestione europea e di Marchionne… «non ci ama». Contro questa prospettiva abbiamo detto «que se vayan todos», andate tutti a casa. Perché non ci sono alternative, in questo «palazzo» immobilizzato tra lobby di interessi trasversali e governance della globalizzazione. Può darsi che finora siamo stati una generazione poco coraggiosa…

Ma è stata la vostra Valle Giulia…

È l’apertura di una nuova stagione. Tutta la cordata che arriva fino a Vendola dovrà prendere prima o poi delle decisioni. Abbiamo visto un silenzio imbarazzato davanti a questa giornata. E pensiamo sia sbagliato, perché bisogna essere conseguenti con le cose che si dicono. Si parla di sofferenza, precarietà, rabbia… Ma qualsiasi governo verrà dopo, o mette in crisi il sistema di accumulazione e la governance, oppure avrà le mani legate. E quindi l’unica cosa che rimane ai democratici è l’opinione. Ma, almeno quella, falla!

Qualcosa di molto distante dall’immagine di «quelli che vogliono solo sfasciare tutto»…

Si può anche non negare questa cosa: sì, volevamo sfasciare tutto. Ma eravamo tanti e volevamo prendere parola. Quando lo fai, non sei «simpatico».

Era un corteo di gente che finalmente parlava: «mafiosi», «venduti»…

Senza fischietti e palloncini… È il frutto di pratiche di organizzazione sociale, fuori dai campi già conosciuti, dalla «politica» dei partiti, in parte anche dai sindacati. Per esempio, lo spazio di attivazione dentro un laboratorio sociale, o la riaggregazione della precarietà in un determinato territorio, rimettendo al centro la «complicità» tra persone. Li aggreghi costruendo una tua «narrazione», che dice «siamo indipendenti, aspiriamo a dare parola a chi non ce l’ha».

Anche attraverso una birra scambiata, una squadra di calcio, o la «cospirazione» tra precari che si rivolgono a un avvocato per far causa all’azienda e sfilarle almeno un po’ di soldi.

Tanto, da precario, non hai il posto…

Alcuni dicono cash and crash. Un modo nuovo di «assumersi» in pianta stabile come precari e sopravvivere. Mostrano la corda tutte le forme di «crisi pilotata». La Cgil ha reso noto che le ore di cig concessa ha superato il miliardo. Ci sono oggi nuove frontiere oltre lo sfruttamento diretto della forza lavoro. Anche se, secondo noi, rimane sempre questo il centro della contraddizione.

Nonostante la delocalizzazione vada riducendo la base produttiva…

Ci sono anche le nuove forme del lavoro cognitivo, o del lavorare nel tempo di «non lavoro». Ma il tema è sempre quello della produzione, della vendita della forzalavoro; non è che si scappa. Rimaniamo sempre lì, tra valore d’uso e valore di scambio… Si tratta di costruire un’azione politica realmente alternativa, a cominciare da: cosa si produce, per chi, come lo si fa, in quale equilibrio e sostenibilità. Bisogna ripartire dai bisogni. In base a quelli sai anche calibrare una nuova filiera produttiva, cosa effettivamente è utile produrre. Magari scopriremo che non serve fare tante automobili, ma nemmeno ci dobbiamo tutti mettere a lavorare nel fotovoltaico. Ma torniamo al discorso di prima: o accetti la governance o la rompi. Per fare questo ti devi attrezzare, organizzare gente, accumulare forza; che è oggi il problema numero uno.

Il manifesto – 17 dicembre 2010