Nucleare - La Francia non è preoccupata

fonte: www.non-fides.fr

Esplosioni in serie, recinti di contenimento polverizzati, noccioli in fusione, vasche bucate, eccetera: tutto quello che i pro-nucleare consideravano come “estremamente improbabile” si è manifestato in blocco in Giappone, terza potenza mondiale, paese noto per la sua virtuosità tecnologica. La catastrofe di Fukushima-Daiichi, pur di un livello inaudito – non uno, ma quattro reattori hanno rilasciato, contemporaneamente o uno dopo l’altro, la loro radioattività nell’ambiente – resta ancora, dopo tre mesi, un “incidente”: ogni giorno che passa, o quasi, porta la suo razione di “problemi” e di “difficoltà impreviste”, che ritardano la derisoria “stabilizzazione” che il gestore Tepco spera di raggiungere al più presto nel gennaio 2012. L’imprevisto senza fine di Fukushima porta così una cocente smentita all’”onnipotenza” dei tecnici e dei poteri pubblici, siano essi americani, giapponesi o francesi: nemmeno loro riescono più a gestire il macchinario mondiale nel quale ci siamo poco a poco lasciati invischiare, credendo, contro ogni verosimiglianza, che saremmo stati al riparo dalle sue conseguenze più violente.

Il cinismo che caratterizza la gestione della catastrofe – che essa sia sovietica o giapponese non cambia – non ha tardato ad apparire come tale alle popolazioni che vivono nelle vicinanze della centrale di Fukushima. Così come la nube di Chernobyl non si era opportunamente fermata alle frontiere francesi, la nube giapponese non si è limitata alla “zona di evacuazione” obbligatoria, di 20 km, decretata dal governo qualche ora dopo l’incidente. Benché un’autorità così poco vigile come l’AIEA l’abbia informato, a partire dal 30 marzo, di livelli di radioattività allarmanti al di là di questa zona (in particolare a 40 km), il governo non si è curato della “trasparenza”. Pragmatico come sa esserlo il potere di Stato in tali situazioni, ha invitato gli abitanti coinvolti a rinchiudersi in casa, nascondendo per un mese e mezzo i dati che contraddicono quelli ufficiali sulla contaminazione ed ha inoltre aumentato del “poco” sufficiente la soglia “accettabile” di radiazioni – da 1 a 20 millisievert all’anno, per la popolazione, cioè al massimo ammesso per i lavoratori del nucleare in situazioni normali. Ciò per evitarsi, senza contravvenire alle regole internazionali, delle evacuazioni tanto necessarie quanto impraticabili (pensiamo per esempio a quello che significherebbe l’evacuazione della città di Fukushima, situata a 60 km dalla centrale ed abitata da 300.000 persone). [Il governo giapponese, NdT] ha anche aumentato al livello sacrificale necessario le soglie valide per i 7800 lavoratori della centrale: i 100 millisievert di “emergenza radioattiva” inizialmente ammessi sono stati portati a 250, e anche questi livelli saranno a loro volta “aggiustati” (il 1 giugno, gli esami di due operai rivelavano che questi avevano raggiunto tale limite). Però lo Stato giapponese non può gestire a lungo una parte della popolazione come se si trattasse di un gruppo di liquidatori: ora che tutto lo iodio radioattivo è stato inalato, il governo approva l’evacuazione degli 80.000 abitanti dei villaggi rurali “fuori zona” [1] che avevano tanto spaventato i dosimetri (“Sono diventato una cavia di questo disastro”, notava giustamente uno degli abitanti). Ma quelli che vengono evacuati adesso hanno già perso la vita, anche se non avessero consumato la verdura contaminata dal cesio 137.

Le poche informazioni pubbliche riportate quassù, prese per la maggior parte da un “grande quotidiano della sera”, come si dice, non hanno provocato, qui, alcuna vera inquietudine, dopo l’emozione dei primi giorni. Che lo Stato francese dichiari che la sua “politica nucleare non è oggetto di discussione” non dovrebbe deluderci né stupirci. Scelta politica da più di sessant’anni, il nucleare resta ancor più “indiscutibile” in Francia dopo che la Svizzera e la Germania hanno deciso di uscirne progressivamente, continuando però ad importare elettricità francese, di origine nucleare. Quanto ai test di sicurezza dei reattori che il potere ha creduto di dover annunciare per farci inghiottire la pillola (di iodio), anche i giornali devono riconoscerne l’inutilità, visto che questi test si basano “sulla documentazione già esistente e le stime dei gestori stessi”. Allora, un “gruppo” per fare cosa? Per ottenere un referendum? Per chiedere l’”alternanza” socialista, partito la cui segretaria si spinge fino a prometterci, un bel mantenimento dello statu quo, l’uscita da un “tutto nucleare” che non è mai esistito (la Francia produce i tre quarti della sua elettricità e meno del 20% della sua energia a partire dal nucleare)? O per sostenere qualche rottame leninista, che ripartirebbe volentieri con altri cent’anni di nucleare, a condizione che lo Stato torni ad esserne il solo azionario, come ai bei vecchi tempi? O, ancora, per avvicinarsi agli “antinuclearisti” promotori di piani di uscita graduali, in 10, 20 o 30 anni, a gran colpi di eoliche industriali e di centrali fotovoltaiche di cui lo Stato stesso sovvenziona lo sviluppo, via EDF, GDF-Suez [2] e molti altri, assicurando in questo modo il mantenimento del nucleare?

“Chernobyl, Fukushima, mai più!” scandiscono i più accaniti difensori dell’uscita progressiva. A questi “antinuclearisti” inconseguenti – lasciamo perdere quelli che danno lezioni e si sono lanciati in un trionfante e fuori luogo “Ve l’avevamo detto!” – noi opporremo la sola “parola d’ordine” concepibile: l’arresto immediato e incondizionato del nucleare, soprattutto in Francia. Perché, oltre ai terremoti, tsunami e alle cadute di aerei di linea, contro i quali la Francia è impreparata, è ogni giorno che la tecnologia nucleare, nelle sue diverse applicazioni (militari, mediche, civili), si rivela incontrollabile e devastatrice. Ma come “uscirne”? Cominciando col ricordare un fatto molto semplice: per la Francia il nucleare è talmente strategico che non è possibile immaginare di uscirne “pacificamente”. Per quanto enorme ciò possa sembrare, non potremo fermarlo che dopo aver completamente rimesso in causa la società che di esso si nutre e lo Stato che lo difende (cosa di cui non vogliono sentir parlare gli antinuclearisti, che giudicano in fondo buone le condizioni presenti). Ma se è vero che la fine dell’elettricità nucleare dipende dalla nascita di un vasto movimento di emancipazione collettiva, bisogna anche sottolineare, reciprocamente, che una critica antinucleare conseguente è suscettibile di favorire l’emergere di quest’ultimo. L’industria nucleare, per le sue conseguenze senza pari sugli ambienti naturali ed umani, per il suo gigantismo, per l’organizzazione sociale tecnicamente integrata e totalmente amministrata che esso necessita, può a buon diritto essere vista come il massimo della depossessione. Ebbene, è proprio in quanto massimo che essa ci lascia intravedere quella che potrebbe essere, a contrario, una società che abbia saputo liberarsi: certo non un paradiso terrestre, ma una società in possesso dei suoi mezzi.

Senza pregiudicare la critica di altri aspetti dell’attuale desolazione sociale, c’è bisogno di amplificare l’opposizione antinucleare. Non quella, lo si sarà capito, che si stordisce con illusioni rinnovabili, con progressi tecnologici e di lobbying, ma quella che ha saputo portare avanti la critica congiunta dell’industrializzazione della società e dello Stato. A ciò sarà sempre recriminato che non ne abbiamo più il tempo; eh beh, dobbiamo prendercelo, il tempo, appropriarne e vedere di farne qualcosa. Tutto può, a volte, succedere molto velocemente. Lo si è visto, lo si vede, ogni giorno, “altrove e diversamente”.

Alcuni membri della Coordination contre la société nucléaire (Coordinamento contro la società nucleare, NdT), 11 giugno 2011.

Note
[1] di evacuazione, NdT
[2] grandi imprese francesi dell’energia, NdT

Ven, 08/07/2011 – 10:30
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