Intervista a Wu Ming 2

Abbiamo incontrato Wu Ming 2 alla presentazione del libro Timira al CSA Next Emerson, a seguito della cena in solidarietà per i condannati di Genova organizzata dal collettivo di Cuochi4Genova (cene che consigliamo vivamente) e, dopo aver assistito ad un magnetico reading di alcuni pezzi tratti da Timira, abbiamo pensato di fargli qualche domanda.

-Ciao, per questa intervista pensavamo di leggerti un pezzo introduttivo che, con una metafora, parla dei movimenti politici e del loro rapporto con la cultura per poi chiederti di commentalo. Che ne pensi?

Per me va bene.

I movimenti come enormi bastimenti solcano il mare della storia, traghettando le società a terre nuove e inesplorate. Impressionano per la loro forza e per la velocità con cui l’osservatore li vede sparire all’orizzonte. Quando non si frantumano in forza delle onde avverse, quando la ciurma non si ritira sfiduciata dall’impresa temeraria e quando il vento della storia li sorregge sono inarrestabili nella loro rotta. Su quel bastimento i cantastorie, i pittori e gli scrittori emergeranno tra la ciurma che si affanna sul ponte per creare la narrazione del viaggio, per far si che gli sforzi collettivi vengano inanellati in una catena narrativa che renda eroica ogni fatica, ogni sacrificio e ogni vittoria. Verrà allora dipinta, descritta e cantata la bellezza futura della riva d’approdo così che possa essere condiviso un immaginario collettivo di una rotta mai sperimentata, così che l’utopia possa essere usata come bussola. Quanta fatica, quante risorse, quanto intelletto, quanta creatività talvolta quanta incoscienza si è dovuta accumulare, spesso in forma silente, perché quel bastimento si costituisse e potesse salpare. Il compito dei movimenti è di di cavalcare le onde, di indicare una rotta, di fare approdare in terre nuove, terre che gli sbarcati popoleranno. Terre in cui quel bastimento non può muoversi se non come racconto o memoria della drammatica bellezza di quel viaggio. Terra in cui quel bastimento è inutile, da smontare per costruire oggetti di altra natura più adatti alla terra ferma. Intanto che un altro bastimento sarà messo in cantiere e saranno ancora terre nuove. Un artista sarà chiamato ad adornare la spiaggia d’approdo e, periodicamente, ci si radunerà su quel lido a dirsi le ragioni del trascorso viaggio. Qualcuno guardando il mare penserà al vecchio mondo cui non si può tornare, qualcuno penserà a una nuova terra, i più vivranno la nostalgia di quel viaggio in cui non c’era scissione tra desideri ed esperienze, tra dovere e piacere.

-Sei d’accordo con il ruolo attribuito agli artisti in questa metafora del movimento?

Dunque, non mi trova molto d’accordo l’immagine del cantastorie che emerge sopra la ciurma che fatica e che porta avanti la nave. Non mi convince molto questa così netta separazione dei lavori tra chi ha il compito di trasformare in un’epopea anche narrativa il muoversi e il viaggio di questo bastimento e chi invece ha il compito più manuale o brutale di farla andare avanti. Ti racconto la vicenda di un altro bastimento, la nave degli argonauti. La nave degli argonauti è la seconda nave che riuscì a passare indenne dagli scogli delle sirene. La prima fu quella di Ulisse. Ulisse decise di tappare con la cera le orecchie dei suoi marinai e di ascoltare soltanto lui. Quella degli argonauti, invece, adottò un’altra tecnica: siccome a bordo c’era Orfeo, che era un grande cantore, grande artista e musicista, fecero cantare a lui delle storie, delle poesie in modo che la ciurma venisse attirata dalle sue canzoni più che da quelle delle sirene e che quindi nessuno si buttasse verso gli scogli. Lo stratagemma funziona però soltanto in parte: c’è un membro dell’equipaggio, che si chiamava Bute che era un apicoltore di Atene, che ad un certo punto si distrae dall’ascolto del canto di Orfeo, sente il canto delle Sirene e si butta, viene poi salvato da Afrodite. Quindi con quello stratagemma non si sarebbe riusciti a portare a casa tutti quanti. Io penso che quello stratagemma avrebbe funzionato meglio, avrebbe avuto un risultato migliore se Orfeo avesse coinvolto l’equipaggio a cantare insieme con lui. Se invece l’equipaggio è solo un uditorio e l’artista appunto è quello che canta, che si erge un po’ e gli altri che lo ascoltano mentre faticano c’è sempre un po’ il rischio che qualcuno non ascolti, si distragga, non partecipi. Ecco, secondo me invece l’artista dovrebbe avere il compito di coinvolgere, e in particolare il cantastorie, di proporre una narrazione. Nell’attuale possono trovare posto, essere coinvolti, anche attivamente come narratori anche coloro che, diciamo, di loro mestiere non fanno direttamente i cantastorie. Quindi per uscire dalla metafora noi cerchiamo di scrivere romanzi che il più possibile attivino chi li legge a cercare ancora a farsi altre domande, in qualche modo partecipare alla costruzione del significato della storia che abbiamo raccontato. Altrimenti abbiamo l’impressione che si producano danni, e in parte nel nostro passato è anche un errore che abbiamo fatto. Per esempio quello di considerarci la cellula agit-prop del movimento, in particolare nei mesi prima di Genova 2001 in cui appunto producevamo storie, immagini, metafore che dovevano in qualche modo spingere la moltitudine a manifestarsi a Genova e ci siamo detti che probabilmente avremmo fatto un servizio migliore a quel movimento se invece di raccontare, raccontare, raccontare avessimo coinvolto nel nostro raccontare le persone che invece in quel modo venivano invitare soltanto ad ascoltare.

-In questa metafora gli artisti appaiono due volte: una come parte attiva nello sviluppo del movimento, ovvero come creatori di un identità collettiva, e una ricoprendo la funzione di memoria collettiva delle gesta passate del movimento. Visto che oggi siamo in una situazione in cui “il bastimento deve essere ancora calato in acqua e forse anche costruito”, credi che gli artisti debbano avere un ruolo anche in questa fase?

Sì, in un certo senso si, anche se, ripeto: più che il ruolo degli artisti questo è il ruolo delle storie, si raccontano per dare un’identità collettiva, un obiettivo, dare forma ad un utopia, raccontare un mondo possibile. Questa è la funzione delle storie, poi non credo appunto che debbano essere raccontate soltanto da uno specifico gruppo di persone che sono gli artisti. Credo sia il ruolo delle storie, delle narrazioni e dell’arte anche se vogliamo, dell’invenzione, della creatività che non il ruolo dei creativi, degli artisti ecc…

-Quindi in un certo senso l’artista, usando una parola molto diretta, è un tramite…

Si, è quello che sa fare, però che dovrebbe anche in qualche modo essere lo stimolo a fare altrettanto… che magari ti fa vedere come si può fare a mettere insieme una storia che ti serva per ricordare le imprese del passato e per dare un significato a queste imprese nel presente… non mantenendolo però come una sua prerogativa, non recintando questa capacità per dire: “soltanto io sono in contatto con le muse”, cercando invece di socializzare i propri attrezzi, i propri strumenti, le proprie capacità. Credo che le storie abbiano un ruolo anche nel mettere in acqua il bastimento perché finché un bastimento, per stare nella metafora, pensa di non essere compatto, cioè che le assi che lo compongono non sono tutte inchiodate bene, pensa di essere fatto di tanti pezzi separati, nessuno lo mette in acqua. Perché pensi che non galleggi. Quindi in questa fase le storie dovrebbero avere il ruolo, la capacità, di far vedere come per esempio tanti piccoli movimenti, tante piccole e grandi lotte che magari esistono sul territorio nazionale in realtà si possano comporre e formare un unico bastimento. A me sembra che le storie abbiano il ruolo di superare questa divisione, questa parcellizzazione, che è invece sempre funzionale al potere: dividi et impera.. Ecco le storie dovrebbero servire ad unificare le diverse macchie del leopardo, insomma, farlo diventare una pantera nera oppure mettere le assi e i pezzi del bastimento perché questa è la condizione senza la quale il bastimento non parte nemmeno.

-Una domanda in parte risposta, questa partecipazione alla creazione delle storie credi che sia già in atto? C’è già questo collante tra varie storie?

Diciamo, ci sono i prerequisiti, secondo me… noi quando scriviamo un libro poi parte di questo partecipare le storie per noi consiste nell’andarne a parlarne in giro il più possibile in situazioni come quella di sta sera e questo ci permette di attraversare e conoscere tante situazione attive. Perché in realtà penso che chi ci invita a parlare, a raccontare i nostri libri sono associazioni, centri sociali, librerie, però tutte realtà resistenti nel loro piccolo, o meno piccolo. I periodi nei quali giriamo sono sempre periodi per noi di ottimismo perché ci fanno vedere in realtà quante situazioni attive che hanno voglia di fare cultura, di raccontare storie, di mettere insieme storie ci siano in giro per la penisola.

…il mettere insieme segue alla narrazione collettiva…

sì, esattamente, avvolte ci rendiamo conto che per esempio già intorno ad un libro magari alla necessità di presentare un libro in due città vicine, a volte nascono dei contatti delle situazioni, che prima non c’erano. Questa è una delle cose che ci gratifica molto del lavoro di andare a presentare i libri in giro. Perché poi sono contatti che rimangono, per cui situazioni di città diverse che si mettono d’accordo perché così il pomeriggio si va’ da uno, la sera si va’ da un altro e le nostre spese di viaggio vengono divise da due soggetti piuttosto che da uno solo…quando poi noi siamo partiti rimangono in contatto e cominciano a fare cose insieme che non avevano mai fatto. No, quindi i prerequisiti ci sono tutti, di scene ce ne sono tante e di creatività in gioco ce né molta, forse manca l’aspetto più organizzativo, nel senso che per produrre una forza alternativa, da un lato ci vuole l’alternativa, e i contenuti alternativi secondo me ci sono, creativi e alternativi…però devi anche essere una forza e per essere una forza ci vuole coordinamento, organizzazione… qualcosa che vada al di là del semplice raccontare insieme ma che diventi anche qualcosa di concreto a livello organizzativo e la cosa difficile sembra questa: riuscire a mantenere da un lato la fluidità dei movimenti, il loro essere delle amebe, delle forme molto libere, dall’altra parte la necessità però di darsi struttura per avere forza. Darsi una struttura può però avere il rischio di ingabbiare poi questa fluidità. Penso che i prerequisiti per raccontare insieme ci siano, nella nostra esperienza di collettivo per esempio per raccontare insieme però non basta avere una idea comune e la volontà di raccontarla, bisogna poi trovare a che ora ci si vede, quando ci incontriamo, in che settimana, chi scrive un capitolo, chi ne scrive un altro…c’è una parte organizzativa che non è indifferente.

-Noi come collettivo del giornale siamo nati proprio per questo. Noi partiamo da un livello cittadino e regionale di analisi con l’obiettivo appunto di fare da collante fra le varie lotte ed è alla fine la necessità che hai evidenziato te durante le tue risposte…allora ti ripasso la palla chiedendoti come si può creare questo legame?

Questa è una domanda che in qualche modo mi trova impreparato, e mi dispiace… Alla fine il campo dove cerco di farlo io è, appunto, quello della narrazione, della cultura, del racconto e mi pare che su questo campo ci sia stato un passo avanti e anche un allargamento. Dal punto di vista culturale, per esempio, molte delle istanze che erano state portate a Genova, che poi dal punto di vista organizzativo della tenuta è un movimento che è stato sconfitto, però molti dei contenuti che erano stati portati, rispetto alla diversa globalizzazione altermondialismo ecc… questi sono quasi diventati moneta comune oggi, no? O comunque secondo me sono condivisi da una vasta fetta della popolazione….quindi in realtà dal punto di vista culturale è stata una battaglia che non è stata azzerata, che non è stata sconfitta. Però appunto io di “mestiere”, non facendo più direttamente il politico, il sindacalista, la mia autocritica è che mi rendo conto che la mia dimensione culturale, ideale, di condividere utopie, di condividere storie ecc… non è sufficiente. Questo tipo di lavoro dobbiamo continuare a farlo e non darlo per scontato…troppo spesso viene dato per scontato che “sulle idee ci intendiamo” quando poi ci intendiamo fino ad un certo punto. Ma sicuramente non basta.

-Riscontri una difficoltà a superare lo scoglio di quello che viene proposto dalle sirene del mainstream?

Riscontro una difficoltà, questo sicuramente si. Penso che appunto il piano della formazione culturale del confronto, di cercare di abitare le contraddizioni, di capirle, capire cosa ci stia dentro. …il costante smontaggio dei miti che ti vengono proposti, propinati, questo lavoro qui non è mai finito e che appunto continuamente bisogna cercare di capire se le alternative che mi propongono sono realmente le uniche. Sono prigioniero di una cornice concettuale che mi viene cucita intorno? Questo lavoro di decostruzione e di ricostruzione, questo è sempre attuale.

Grazie Wu Ming 2 per questa intervista

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