Necessità di protagonismo: occupy your mind

Negli ultimi quattro anni siamo stati letteralmente “bombardati” dai media attraverso continue notizie sulla crisi, la quale, secondo la retorica mainstream, sarebbe unicamente di origine finanziaria, partita dalla “bolla immobiliare” negli Stati Uniti e arrivata magicamente in Europa.

Ogni analista, ogni esperto o qualsiasi lettura fornita all’opinione pubblica sottolineano come il tutto sia il risultato da una parte di una cattiva finanza (Stati Uniti in particolare), e dall’altra di una inefficiente gestione dei bilanci statali (Europa). La realtà, invece, è ben diversa: il sistema economico è sempre lo stesso, il capitalismo, ed entra in crisi in modo fisiologico perchè non funziona in armonia con gli esseri umani e la natura, ma è mosso unicamente dalla ricerca di un sempre maggiore profitto. Questo porta tendenzialmente a delle crisi, che vengono utilizzate per riorganizzare l’economia e per continuare a far accumulare ricchezze a pochi. La ricetta politica imposta durante questa crisi mira a una svalutazione della forza lavoro, per rilanciare i profitti e far decollare un nuovo ciclo di accumulazione, in attesa della prossima crisi.

Si può, molto grossolanamente, cercare di riassumere così il quadro storico/economico per comprendere meglio quali siano le conseguenze sul piano politico. Nell’Europa di oggi la situazione si presenta diversa da quella statunitense per fattori storici (entità più recente), politici (maggiore instabilità) ed economici (presenza di economie troppo diverse); non è un caso che  gli USA siano riusciti a rinviare, non senza una catastrofe sociale, una fase di stallo come quella europea. Nell’UE, infatti, dopo anni di accordi, trattati, scontri e mediazioni, il potere dominante ha colto l’occasione per cambiare di nuovo il proprio paradigma: “adesso -ci dicono- il debito è un problema, dovete mettere i conti in ordine, avete vissuto al di sopra delle vostre possibilità, quindi bisogna tagliare e pareggiare i bilanci”. Poco importa se a rimetterci sono sempre gli stessi, non è affatto un problema se esplode la disoccupazione, aumentano i suicidi e si dovrà vivere una vita sempre più precaria e difficile: bisogna “fare i compiti a casa”.

Questi discorsi, se non stessimo ascoltando dei capi di stato, ci sembrerebbero parte di una paternale trita e ritrita, fine a se stessa, ma non è così. Fanno tutti parte di un’ ulteriore strategia o, meglio, delle scuse con le quali intendono toglierci quelle poche briciole che erano state conquistate. Il momento di crisi, quello che loro chiamano “emergenza”, viene sfruttato ideologicamente per tirar fuori dal cappello una sorpresa che qualcuno forse ricorderà, ovvero i “governi tecnici”, composti da “persone qualificate che agiscono nell’interesse nazionale”. Come accaduto tra il 1992 e il 1996 (con la breve parentesi berlusconiana) con i governi Amato, Ciampi e Dini, i quali furono messi lì per i “sacrifici necessari voluti dall’Europa”, oggi in Italia arriva il momento di Mario Monti, la cui strada è stata spianata dal presidente della repubblica Giorgio Napolitano.

Non si tratta di una novità (il primo governo tecnico della storia d’Europa fu quello dell’inglese Aberdeen nel dicembre 1852 e durò tre anni) o di una improvvisa  cessazione della democrazia, poiché con o senza di essa è sempre avvenuto di tutto: i grandi gruppi di interesse e i vari partiti europei hanno deciso di affidare ai loro esponenti di punta l’attuazione delle famose misure “lacrime e sangue”, concertando tali politiche negli organi che loro stessi si sono dati, tra cui il Consiglio e la Commissione Europea.  Stessa cosa si può dire rispetto agli allarmismi, sinistri e destri, riguardanti la fine della “sovranità nazionale”, sovranità che già a partire dal secondo dopoguerra fu limitata in funzione degli interessi statunitensi e, successivamente, livellata sulla nascita della contraddittoria Unione Europea.

Quest’ultima quindi, sta attaccando fortemente le condizioni di vita di milioni di persone e il tutto rispecchia i giochi fra poteri in atto nel vecchio continente, dove la maggior potenza (lo stato tedesco) si impone sulle altre (i cosiddetti PIIGS) seguendo la solita legge: la continua sottrazione e accumulazione di ricchezza, cosa che avviene in modo analogo anche verso i subalterni tedeschi, che rimangono sottopagati rispetto a quanto lavorano. In Italia, dopo l’arrivo del nuovo governo, sostenuto da quasi tutti i partiti, c’è un gran parlare del “modello tedesco” e, in vista delle prossime elezioni, del “continuare sulla linea Monti” (come affermano D’Alema, Fini e Casini); le ricette che propongono però non risolveranno alcunché e lo si vede già dopo un anno di governo, con la disoccupazione alle stelle, sia giovanile che generale, l’aumento delle disuguaglianze e del lavoro precario.

Se, quindi, ogni soggetto istituzionale legittima questo governo, con poche eccezioni che sfruttano l’elemento novità attraverso la propria retorica generalista (si legga Movimento 5 Stelle), o vecchie glorie che ormai hanno perso credibilità partecipando a governi analoghi (su tutti Sinistra e Libertà, o Rifondazione Comunista nel governo Prodi), c’è da porsi il problema del perchè non esista una radicale opposizione sociale a un tale scempio. E qui, come si dice, casca l’asino: troppo spesso sia i singoli cittadini indignati, che i movimenti sociali di protesta hanno strizzato l’occhio ai partiti di cui sopra, alle volte nel bel mezzo del fiume in piena della contestazione, altre anche in assenza di conflitto sociale, prontamente arginato dai sindacati confederali, con la CGIL in prima fila nel seguire le indicazioni del PD. Si pensi, ad esempio, ai due ridicoli scioperi di 3 e 4 ore proclamati rispettivamente per la riforma delle pensioni e per quella del mercato del lavoro, in compagnia di Cisl e Uil…

In questo quadro, bisogna prendere atto della malafede di tutti i partiti che aspirano ad un posto in parlamento, perchè la campagna elettorale è iniziata da un pezzo e i messaggi che circolano e circoleranno sono strumentali ai loro interessi. Bisogna tornare a insistere sulle questioni apparentemente più ovvie: sul fatto che sia inutile mettere una X su un foglio e dare carta bianca ad un governo per cinque anni, che sia dannoso dare per scontato tutto quello che ci propinano i media, così come sottovalutare il menefreghismo generale. Per quanto riguarda le stesse proteste, troppo spesso rappresentano una mera emulazione di ciò che accade altrove. Non si possono, infatti, scimmiottare gli Indignados spagnoli o gli Occupy americani, solo perchè all’improvviso ne sentiamo parlare; così come non serve di per sé salire sui tetti o sulle gru, emulando quanto fecero gli operai della fabbrica milanese INNSE, i quali vinsero la propria lotta ma misero in guardia dal “fare come loro”, facendo capire che, se le problematiche sono simili e globali, non è detto per niente che la risposta debba  essere identica.

Se vogliamo che le cose cambino, dobbiamo promuovere un agire politico che non sia dettato unicamente da una scadenza o da un periodo, come solitamente avviene, dal mondo del lavoro a quello della formazione, rispetto alle varie riforme antisociali. Dobbiamo muoverci in un orizzonte più ampio delle singole lotte e rivendicazioni settoriali; limitarsi al proprio orticello, sia esso il posto di lavoro, la scuola, l’università o il territorio, porta inevitabilmente ad accontentarsi delle poche briciole che dall’alto dei loro palazzi ci gettano. La politica al ribasso portata avanti da sindacati concertativi e attraverso rivendicazioni minimali, non può ottenere altro che contentini, mentre emargina chi non si accontenta, tacciandolo di estremismo. Questo non signfica rinunciare ad incidere nel proprio ambito quotidiano, la scuola, il lavoro, il territorio, per lanciarsi in cortei nazionali e referendum che vengono sitematicamente ignorati, quando non strumentalizzati dai partiti, per dare addosso ai movimenti o farsi pubblicità.

Al contrario, è necessario muoversi in ciò che ci è più prossimo, e su cui possiamo  veramente dare un contributo, ma forti di una analisi della situazione nel suo insieme, che permetta alle varie pratiche di essere realmente efficaci. Se infatti le analisi politiche alle quali non segue alcuna pratica sono vuote, le lotte che non sono supportate da chiavi di lettura all’altezza della situazione sono cieche. Ma la cosa più importante è che sia le pratiche che le analisi riescano ad essere realmente condivise e che non siano occasione di ghettizzazione. Per questo serve umiltà e capacità di adattamento, che permettano di fluire vigili di fronte alle diverse circostanze e di non irrigidirsi su posizioni che a lungo andare diventano scogli per una maggiore estensione dell’opposizione sociale.

In questo senso, la lotta NoTav in Val di Susa può essere un esempio dal quale trarre importanti insegnamenti. Essa non è, come già detto, un modello da esportare, ma ha dimostrato a tutta Italia la possibilità di trasformare una contestazione territoriale in un punto di partenza dal quale lanciare rivendicazioni ampiamente condivisibili, di portata globale e anticapitalista. Coinvolgendo diverse anime politiche e sociali in un’unica lotta, sono riusciti a creare una connessione tra Torino e Chiomonte, tra la metropoli e la valle alpina, realizzando il primo segmento di quel filo rosso che potrebbe e dovrebbe unire i proletari..ooops!, il 99% di tutto il mondo.

Smettendola di scimmiottare Occupy, occupy your mind.

Editoriale tratto dal nostro cartaceo num. 9, che potete leggere online qui o in Pdf cliccando QUI

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