La comunicazione politica come spazio di conflitto

Si sente spesso parlare, su giornali, telegiornali e siti di informazione mainstream, dei movimenti antagonisti, “black bloc”, “incappucciati” o “giovani dei centri sociali” etc. Quando lo fanno essi hanno l’evidente scopo di sbattere il mostro in prima pagina. Un esempio fra i tanti arriva dalla val di Susa: in un fronteggiamento tra manifestanti e poliziotti davanti al cantiere espropriato, la telecamera coglie un’attivista apostrofare un poliziotto in tenuta antisommossa con l’espressione “pecorella”.

 Per Paolo Grisieri, giornalista di Repubblica, il manifestante provocatore rappresenta il simbolo di “una schizofrenia collettiva che trasforma la brava gente in truci eversori, gli impiegati in bombaroli come cantava De Andrè. Di quella schizofrenia le prime vittime inconsapevoli sono i protagonisti”. Una malattia che ha contagiato la Val di Susa (qui il file video).

Dietro questa retorica si cela l’idea che la società sia un corpo unico e pacificato, identificando l’attuale sistema politico ed economico con la normalità, o meglio con la salute. Tutto ciò che eccede i canoni della “normalità” viene trattato come un male da curare. Ecco dunque che i rave diventano un raffreddore, gli scontri allo stadio una brutta influenza e gli “zingari che rubano” un cancro da estirpare. Allo stesso modo, dall’altra parte della scala sociale, vengono continuamente dati in pasto all’opinione pubblica i ladri di polli (gentaglia tipo Fiorito, detto er batman), ovvero le mele marce di un sistema altrimenti sano. Anche le lotte sociali vengono inserite in questo schema. Prendiamo per esempio le contestazioni studentesche del 14 novembre: la vulgata mediatica ci dice che i pacifici cortei degli studenti sono stati infiltrati dai violenti antagonisti, cioè che un corpo sano è stato infettato, e che quindi serva un bel ciclo di antibiotici a base di leggi speciali.

Noi invece riteniamo che la società si configuri come un terreno di scontro tra due o più parti. Va da sé che coloro che si troveranno a dominare in un determinato contesto dovranno inevitabilmente fare i conti con i dominati. È per questo che nel corso della storia il potere ha messo in campo pratiche discorsive efficaci alla marginalizzazione, alla normalizzazione e alla messa a produzione di quella fetta di società che si è posta in conflitto rispetto allo stato di cose presente. Di conseguenza non esiste una informazione neutra, ma solo informazione di parte. Per perpetrare l’illusione democratica la società odierna necessita di assumere l’opinione delle classi dominanti come opinione di tutti. L’opinione pubblica diventa così l’opinione di coloro ai quali è concesso di averne una. In questo modo da un lato si cerca di far sì che i dominati introiettino parole d’ordine e discorsi messi in campo dai dominanti; dall’altro si tenta di assorbire in schemi predefiniti le voci dissidenti dei subalterni.

Compreso questo, è evidente che la produzione di verità può essere descritta come effetto di un rapporto di potere. Perciò riteniamo necessario amplificare la voce delle lotte che attraversano la società, e per farlo il primo passo è rompere gli schemi che inquadrano i movimenti sociali e le lotte dotate di una certa radicalità come malattie da curare, creando canali di informazione che diffondano una narrazione efficace e di parte del conflitto, contribuendo alla ricomposizione sociale e all’estensione di una solidarietà reale, non all’estrazione di effimero consenso. Inutile quindi inseguire l’opinione pubblica, se ciò significa cercare l’approvazione dei giornalisti, ma soprattutto di chi li paga. La sua struttura verticale è costruita in modo tale da attivare una tattica di contenimento dei movimenti allo scopo di renderli inefficaci, da una parte riassorbendone le rivendicazioni, assecondandole paternalisticamente, e, dall’altra, delegittimando il comportamento collettivo attraverso la divisione tra buoni e cattivi (o meglio, tra sani e malati). L’opinione pubblica si configura così come un dispositivo di organizzazione del consenso e amministrazione del dissenso. Ogni movimento che abbia cercato di far bella figura con i lettori di Repubblica ha fallito. Esempio lampante è stato il movimento no war del 2003: in quel caso, pur potendo contare su grandi masse mobilitate e su un’ampia capacità di rappresentazione simbolica, non è stato certo impedito allo stato italiano di appoggiare l’invasione dell’Iraq.

Obiettivo immediato di chi, come noi, legge la comunicazione politica come uno spazio di conflitto, e crede quindi nell’esigenza di un’informazione di parte, deve essere quello di creare uno spazio proprio, riappropriandosi di tecnologie e tecniche di comunicazione oggi in mano al potere, per alimentare un’interpretazione del reale veramente antagonista, così che il movimento possa incidere sulla realtà. Ci diamo come condizione imprescindibile quella di fornirci e di condividere gli strumenti necessari al superamento dello stato di cose presente.

Redazione CortocircuitO

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