Renzi e il “nuovo Pd”: giù la maschera!

http://www.inventati.org/cortocircuito/wp-content/uploads/2014/03/renzispam2.pngLa partecipazione di Matteo Renzi ad Amici, noto programma in onda sulle reti Mediaset, continua ad alimentare un acceso dibattito sia sulla carta stampata sia in rete. In tal senso possiamo certamente affermare come il brioso sindaco fiorentino abbia già colto il suo primo basilare obiettivo: la conquista dell’attenzione da parte di un pubblico su scala nazionale. Un traguardo certamente non scontato per chi come lui rimane, comunque e pur sempre, un amministratore locale. Tuttavia, nonostante sia difficile negare il successo politico conseguito da Renzi, non sono mancate aspre critiche al suo comportamento.

Queste possono essere raggruppate in due grandi insiemi. Da un lato troviamo infatti coloro che hanno schernito il campo da gioco scelto dal sindaco di Firenze: una trasmissione di irrilevanza culturale e portatrice di modestissimi valori esistenziali (la fama, il successo..), per di più in onda sulle reti di proprietà di Silvio Berlusconi. A coloro, certamente non per glorificare la condotta renziana, abbiamo già risposto con un articolo alcuni giorni fa.

Un secondo gruppo di critici ha invece sottolineato la diversità di stile tra Matteo Renzi e Pierluigi Bersani. Evidenziare come l’attuale segretario del Partito Democratico non avrebbe certamente neanche immaginato una sua presenza nella trasmissione di Maria de Filippi non è un difficile esercizio intellettuale. Maggiormente complesso è invece esplicitarne le ragioni. Praticamente la totalità dei commentatori ha però richiamato al riguardo solo spiegazioni ruotanti attorno alle diversità anagrafiche o personali tra i due leader in questione. Mancando quindi, almeno a nostro giudizio, di cogliere la vera posta in palio della lotta interna al Partito Democratico. Permetteteci a tal proposito una piccola digressione.

Il Partito Democratico nasce dall’incontro tra le due principali subculture politiche che hanno attraverso l’Italia nel corso della cosiddetta Prima Repubblica: quella bianca, simbolo dell’associazionismo e del mondo cattolico; quella “rossa”, espressione delle organizzazioni legate al movimento operaio e alla “sinistra”. Si tratta di subculture, che oltre a caratterizzarsi per uno stretto legame con precise forze partitiche istituzionali (la Dc nel primo caso, il Pci nel secondo) hanno nel corso dei decenni mantenuto una straordinaria stabilità geografica. La zona bianca si concentrava infatti nel Nord-Est (con le parziali eccezioni di Rovigo, Venezia, Trieste e Bolzano) e si allungava nelle province pedemontane lombarde. Comprendeva inoltre Cuneo, Imperia, Lucca, Macerata e Campobasso. Può risultare interessante notare come ancora oggi in queste province l’affermazione di forze definite, certamente a sproposito, di “sinistra”, sia sempre particolarmente difficile. La zona rossa era invece più compatta, dato che comprendeva le province dell’Italia centrale posizionate sulla riva destra del Po. Le regioni in questione sono ovviamente l’Emilia- Romagna, la Toscana, le Marche e l’Umbria. Al loro interno però, oltre a segnalare le eccezioni di Piacenza, Lucca, Massa-Carrara, Macerata ed Ascoli Piceno, si notano anche diverse gradazioni di forza elettorale del Pci, con i “comunisti” tradizionalmente più forti nelle prime due regioni.

Nel 2007 quindi l’obiettivo propagandistico dei Democratici di Sinistra e de La Margherita, dando vita al Partito Democratico, è quello di unire le forze istituzionali derivanti da queste due tradizioni politiche. In realtà, per i primi si tratta anche e soprattutto di allargare il proprio bacino elettorale oltre i confini della ex zona rossa, loro tradizionale roccaforte, dove però erano rimasti anche, in un certo senso, confinati. La scontata curiosità conseguente da questa affermazione è quindi quella di valutare se il Pd abbia centrato il proprio obiettivo. La risposta al riguardo deve essere un forte e chiaro “no”. Aiutiamoci con i dati. Nelle elezioni per il rinnovo del Parlamento nel 2008 le province di massimo insediamento democratico coincidono infatti all’82% con quelle dove massima era stata anche l’affermazione del Fronte democratico popolare (Pci e Psi) nel 1948. Non è necessario avere sotto gli occhi, come in realtà abbiamo noi in questo momento, una doppia mappa elettorale per immaginare quali siano le regioni in comune a cinquanta anni di distanza: ovviamente, le cosiddette rosse. Inoltre, le recenti elezioni hanno ulteriormente aggravato questo problema per il Pd, con il 21% della propria forza elettorale, rispetto al 19% di cinque anni fa, proveniente da Toscana ed Emilia-Romagna. Insomma, per un partito che voleva avere respiro nazionale (al riguardo si presti attenzione ai tre colori rappresentanti la bandiera italiana presenti nel simbolo del Pd) trovarsi con una simile differenziazione territoriale è nei fatti una grande sconfitta.

Come nel precedente articolo, questa lunga digressione sembra averci portato lontano dal nostro primario obiettivo: spiegare la presenza di Matteo Renzi ad Amici. Tuttavia, ci appariva una premessa necessaria per comprendere le trasformazioni che il sindaco di Firenze sta riuscendo, piaccia o meno, ad imporre al proprio partito.

Il fallimento di Bersani nel raggiungere una congrua maggioranza in entrambi i rami del Parlamento non è solamente una sconfitta personale per il segretario Pd. Con lui viene infatti meno il proposito per gli ex comunisti di una espansione geografica da realizzarsi attraverso l’unione e la sommatoria con altre forze partitiche. In questi anni infatti, nonostante alcuni significativi cambiamenti nella politica italiana (maggiore volatilità elettorale, drastica riduzione nel numero degli iscritti ai partiti, centralità della figura del leader) l’allontanamento del Pd dal partito di massa novecentesco era stato, almeno sotto alcuni aspetti, eccessivamente lento. Infatti, se il ridottissimo bagaglio ideologico dei democratici, così come il sempre minore peso, sia numerico sia fattuale, degli iscritti farebbero pensare ad un esplicito allontanamento da questo modello di partito, vi sono pur sempre elementi di continuità. Tra questi ci sembrano particolarmente rilevanti gli stretti legami che il Pd bersaniano continua a mantenere con alcuni corpi intermedi: associazioni, sindacati confederali e cooperative in primis. Il modello del partito di massa, teorizzato per la prima volta da Max Weber in funzione di contenimento e di inquadramento delle masse che per la prima volta grazie all’allargamento del suffragio entravano nell’arena elettorale, è stato sfidato, almeno a livello teorico, dal cosiddetto catch-all party di Otto Kirchheimer.

Le premesse per questo cambiamento erano molteplici: veniva meno la necessità di integrare nuove masse nel sistema; diminuiva la possibilità per i partiti, a causa dell’affermazione di una società più complessa, di unificare le domande provenienti da strati diversi della popolazione; si affermavano nuovi mezzi di comunicazione di massa che sostituivano l’attività capillare dei militanti, aumentando al contempo la necessità di esperti politici, soprattutto nel campo della comunicazione. Il nuovo partito pigliatutto si caratterizza quindi per una drastica riduzione dell’apparato ideologico e per un minor riferimento ad una classe sociale; per un ulteriore rafforzamento dei gruppi di vertice e la svalutazione del ruolo dei militanti; per l’assicurazione di un ampio accesso al proprio interno a diversi, talvolta anche contrastanti, gruppi di interesse.

Insomma, Renzi vincerà la propria battaglia contro Bersani non solamente in quanto straordinario comunicatore politico, ma anche e soprattutto perché la sua forma-partito, come si amava scrivere qualche decennio fa, rappresenta il miglior adattamento possibile alla realtà attuale.

Questa è costituita, anche e soprattutto, da elettori apatici, distratti, scarsamente informati e guidati nel proprio comportamento da atteggiamenti ed opinioni irrazionali. Una parte di questi guarda Amici dove Bersani non avrebbe messo, e continuerà a non mettere mai, piede. Anche per questo il suo Pd rimane sovra-rappresentato nelle regioni rosse, tra i dipendenti pubblici, nelle grandi città, tra gli uomini nella fascia d’età compresa tra i 45 ed i 64 anni. Una forza partitica quindi destinata a non poter mai conquistare la maggioranza nel Paese, in quanto allo stato attuale minoritaria e soprattutto perché, nel prossimo futuro, destinata ad indebolirsi ulteriormente per l’assottigliamento delle forze sociali dalle quali trae il proprio sostegno. A questa sconfitta annunciata Matteo Renzi si ribella. Non riusciamo quindi proprio a comprendere perché i democratici stessi lo biasimino tanto. Nei fatti l’aver rimosso anche il primo maggio dal proprio calendario non ci sembra altro che la simbolica conseguenza del quotidiano agire di questo partito. Per quale ragione Fassina e compagnia si agitano tanto?

Leggi anche:

Renzi, Maria De Filippi e la comunicazione politica

Matteo Renzi, gli intrighi di palazzo e la bieca retorica della “responsabilità”

Facebook

YouTube