Minori alcolizzati, spacciatori negri, punkabbestia vandali…e alla fine gli ultras.

C’è un articolo uscito il 23 aprile su Repubblica di Firenze, a firma di Ernesto Ferrara, su cui val la pena soffermarsi un’istante. L’articolo ha come titolo: «La notte di Santa Croce: i fumogeni della movida» e si inserisce a pieno titolo tra i migliori della decennale campagna che i quotidiani locali portano avanti contro il degrado in cui verserebbe il centro della città. E’ una vecchia formula. La rendita immobiliare che governa da sempre la città prima ha espulso dal centro storico una gran parte dei suoi residenti, per lucrare sugli affitti delle case e dei fondi commerciali. Da piazza Santa Croce a piazza Santa Maria Novella, e da piazza Santissima Annunziata a piazza Pitti, la città è stata riempita di vetrine e di residenze lussuose, per un pubblico che nel centro di Firenze transita, consuma e sparisce. In questo modo, gli eventi che vi accadono non ricevono alcuna mediazione e integrazione nel tessuto sociale, che non esiste più, e sembra compiuto da gente venuta da Marte. I media amplificano questi sparuti fatti all’infinito, per chiedere una maggiore presenza di forze dell’ordine, di proibizioni e di strumenti di sorveglianza. L’effetto è un sempre maggiore svuotamento e mercificazione del centro storico, a vantaggio della stessa rendita immobiliare che ha avviato il processo. Alcuni capitoli di questa lunga campagna sono indimenticabili: il parrocco di Santo Spirito assediato nella sua chiesa; i consiglieri comunali che riprendono col telefonino due turisti americani che amoreggiano nei pressi di Santa Croce; la crociata di Cioni contro il racket dei lavavetri; il pallone dei bambini sequestrato in piazza dai vigili urbani. Oggi Ernesto Ferrara aggiunge un nuovo capitolo alla saga, ma le trasformazioni economiche che con la crisi stanno investendo la nostra città suggeriscono qualche riflessione ulteriore sull’ossesione securitaria manifestata ancora una volta dai media cittadini. A tal proposito, Emilio Quadrelli nell’ introduzione scritta per la nuova edizione di Gabbie metropolitane (La casa Usher 2013) scrive: «Di fronte a tale scenario l’irrompere della crisi è stato quanto mai salutare. […] Di fronte alle decisioni a cui inevitabilmente lo stato di crisi obbliga, lo spazio per i giochi intellettuali si azzera. In tale frangente ritornano a essere importanti le cose che contano davvero. […] Di colpo di tutte le retoriche, in primis insicurezza urbana, degrado e malessere sociale, che avevano a lungo monopolizzato il dibattito politico, sembrano aver perso qualunque tipo di attrattiva. Nessuno ne parla più. Se mettiamo a confronto le cronache di un qualunque quotidiano pre-2007 con le attuali scopriamo, con un certo stupore, che nelle nostre società non vi è più traccia di devianza, insicurezza e microcriminalità. “Sociale” e “società” sono termini che si incontrano sempre più raramente, mentre a conquistare il proscenio del dibattito pubblico sono la politica e il politico, dai quali, questo è il punto, la popolazione (le masse subalterne) è costantemente esclusa». In presenza della crisi, economica e sociale, le retoriche dominanti devono gettare acqua sul fuoco e salvare il salvabile, preoccupandosi di mostrare il «rinnovamento» di una classe politica che ha raggiunto picchi di sfiducia altissimi e, parallelamente, curando di non aumentare l’insicurezza ed esacerbare gli animi. Il governo Letta, appena instaurato, è il perfetto frutto di questa fase: un governo democristiano nato per mediare su tutto.

Pare così davvero fuori tempo massimo il terrorizzato articolo di Ernesto Ferrara, come il relitto di un passato che fatica a scomparire. Ma merita ripercorrerlo lo stesso, da una parte perché offre sprazzi di genialità davvero rari, dall’altra perché ci consegna una chiave di lettura sui maggiori interessi che si muovono a Firenze. In tempo di social network e di giornalismo partecipato, l’articolo si fonda interamente sulla testimonianza di Lorenzo, 30 anni, studente: « “Sembrava uno squadrone. Dieci, quindici ragazzi. Camminavano spediti, uno accanto all’altro. Cantavano cori da stadio. Era notte fonda, ma intorno a loro c’erano centinaia di persone a bere e a parlare in strada. Prima hanno acceso e poi lanciato un fumogeno: si è alzata una nube rossa, c’è stato il fuggi fuggi, intorno erano tutti increduli. E’ stato assurdo”. Sabato notte, sono da poco passate le 1.30. Lorenzo, studente, 30 anni  è fuori con gli amici a bere una birra. Non fuori dallo stadio in un post partita, e nemmeno nel bel mezzo di una protesta notturna di piazza. Lorenzo, come migliaia di altre persone, è fuori da uno dei locali di via dei Benci, a due passi da piazza Santa Croce. Eppure la scena a cui si trova ad assistere, sgomento, è proprio questa: un gruppo di ragazzi, forse ultras, che sfilano in via dei Benci e poi lanciano un fumogeno all’angolo con piazza Santa Croce. “Non c’entrava nulla il baccano dei weekend in centro. Non c’entravano nulla nemmeno il degrado, l’alcol e tutto il resto. Quella era follia. Per un momento ho avuto la sensazione dell’anarchia, per questo l’ho fotografata [la foto è in alto] . Per dimostrare che tutto può succedere in quella strada di notte…”, racconta Lorenzo». E’ davvero meraviglioso il verso in cui l’anarchia si incarna all’angolo tra via de’ Benci e Borgo dei Greci. Il resto dell’articolo prosegue in tono minore. Il repertorio è quello classico: «movida», «sballo», «far west», «minimarket e abusivi che vendono alcool e trombette da stadio». Ma il finale torna di livello: «Ricordando anche che la polizia ha fatto due multe da 1.000 euro a un pub di corso Tintori (il Tartan Jack Scottish) per aver dato da bere a due minori tra i 16 e i 18 anni la notte di Pasqua; ha denunciato un punkabbestia che tutto sbronzo sempre sabato scorso ha cominciato a sbraitare e poi spaccato un vaso davanti al sagrato di Sant’Ambrogio; domenica sera ha arrestato due etiopi che spacciavano in via dei Macci». Si diceva, spacciatori negri, minori alcolizzati e punkabbestia rissosi. E infine gli ultras. Allora basta parlarci con quegli ultras per capire che ha ragione Quadrelli e che dopo la crisi non è più tanto utile, dal punto di vista di chi intende governare la città, foraggiare l’Ernesto Ferrara di turno per scrivere le sue storie di degrado. Qui di seguito riporto alcuni brevi estratti di una chiacchierata che ho tenuto con alcuni ragazzi, ultras della Fiorentina, che hanno acceso la torcia la notte del 23. «Il giorno dopo c’era la partita coi granata e sono scesi da noi la sera prima. Abbiamo fatto una cena tutti assieme e poi, in un bel gruppetto, siamo andati a fare un giro in centro. Non è successo proprio un bel niente. Camminavamo in mezzo alla nostra città, coi nostri amici, e abbiamo fatto qualche coro. Su di noi, sul nostro gemellaggio, sulla nostra città. Abbiamo acceso una torcia, che tranne allo stadio per le leggi speciali dei nostri politici, è un attrezzo perfettamente legale, perché non fa male a nessuno. La torcia ha colorato l’aria, ha creato quei secondi di atmosfera e si è spenta, senza nessun fuggi fuggi, senza niente di niente. Al limite, qualcuno ci guardava con un po’ di invidia, perché invece di passare le nostre serate a non far niente nei pochi spazi e modi che ci sono ancora permessi, a noi piace ancora fare banda e viverci il rapporto che abbiamo con la città», mi dice T. Io gli chiedo che reazioni hanno avuto l’indomani, quando hanno letto l’articolo di Ferrara. «M’è venuto da ridere. Inizialmente direi che m’ha fatto piacere. Cioè, su fb vedi che gir sto articolo e tutti a commentare con frasi come “c’entra coi fatti di Boston!”, “Lorenzo, l’orgoglio di papà”, “ci s’aveva anche le fialette puzzolenti e le miccette”. Poi però ti rompe anche un po’ le palle. Insomma, voglio dire, quando si tocca così il ridicolo nel descrivere la realtà, senza alcuna vergogna, devi davvero preoccuparti, dico noi dobbiamo preoccuparci, perché da un momento all’altro con questi pazzi qui può succederci qualunque cosa». Prosegue G.: «A me sono venute in mente le parole di un romanista che apparvero in rete il giorno dopo l’omicidio di Sandri. Queste del fumogeno sono cose da ridere, ci mancherebbe, però mi è venuta in mente questa cosa. Ti ricordi le reazioni dei media all’omicidio? Prima tutti a dire che era morto in una rissa tra ultras poi, quando è stato impossibile negare che un poliziotto aveva sparato dall’altra parte della strada, tutti a parlare della “follia ultras” di voler impedire che le partite fossero giocate, per mandare in cavalleria il fatto che un poliziotto aveva sparato a un ragazzo. Tutti a parlare di “disagio”, di “delinquenza”. Su Asromaultras.org uscì questa testimonianza [la cerca col telefonino e me la legge]: “No, non lo sapete. Non lo sapete perché ieri pomeriggio e ieri sera è successo quello che è successo. Ed è proprio questo il motivo per cui succede e continuerà a succedere. Per la distanza che da trent’anni ci separa. Una giusta distanza. Tutti scrivete, tutti sapevate, tutti avete opinioni e soluzioni. Ma nessuno capisce che in realtà è la distanza che determina questo stato delle cose. […] Sappiamo tutti che quell’agente non pagherà. Ci hanno abituato a questo. Ci hanno abituato nei secoli. Ma anche recentemente. E non pagherà perché la tensione che si è inevitabilmente alzata verrà usata (di fatto già lo è) per pareggiare il danno. Ma il danno culturale, la frattura..la distanza non è così che si ripara. Così si afferma. Si sentenzia. Si scolpisce dentro le persone, nella loro vita quotidiana, nei pensieri, nei gesti e nello strato più profondo dell’animo. La distanza. Giusta perché ancora una volta nessuno ammette, nessuno si dimette, nessuno è e sarà vero nella verità delle cose. […]La distanza ce la teniamo. A questo punto la pretendiamo. In lei ci riconosciamo, la difendiamo. Ci saranno sempre due verità nello stato delle cose. La nostra la sappiamo. La sapremo sempre e sempre la cavalcheremo. Senza sosta, senza tregua. Non curandoci delle «leggi del branco» con cui cercano di incasellarci in sondaggi e programmi tv o affibbiando stemmi di partito o appartenenze terroristiche. Che dicano, che scrivano, che reprimano. Biglie, sassi, punteruoli. Era un ragazzo buono e gentile. E se fosse stato cattivo? Faceva differenza? Doveva morire con tre, quattro botte invece che una?”. Ecco, in me, quando escono articoli come questo del giornalista di Repubblica, cresce la distanza, mi sento proprio di un altro mondo. Cioè, è come se mi si allentassero i legami che ancora mi tengono buono a fare la mia vita, a lavorare, alle cose di tutti i giorni». La discussione è continuata un altro po’. La questione della distanza è tornata con varie sfaccettature. Alcune visioni erano più specificamente politiche, e traducevano questo sentimento di estraneità nella necessità di organizzare la protesta. Per altri, forse la maggioranza, questa stessa distanza non è un concetto politico. Le parole di altro ragazzo presente alla conversazione, che fa un paragone con la musica rap, spiegano bene questo stato di cose: «Però certe canzoni mi fanno rispecchiare. Non mi rispecchio nell’ostentazione, nella cultura da gangster, però quando si scagliano contro le istituzioni, con quell’odio e quel distacco, dicendo semplicemente “non ho lacrime per Nassirya”, “non me ne fotte un cazzo”. La concezione che hanno loro [alcuni gruppi rap italiani] dello Stato è la stessa che ho io, ed è diversa da quella che può avere un compagno, vaffanculo ma vaffanculo veramente, io non mi ci metto nemmeno a combatterlo, perché vaffanculo, io cerco di tirare avanti la mia baracca in un modo più o meno legale, più o meno giusto, ma di te veramente non me ne fotte un cazzo, se ti conosco ti evito, se a te Stato ti conosco ti evito, non mi ci metto a lottare a gratis contro di te, non lo faccio per un’idea, al limite lo faccio su una cosa pratica, se proprio siamo io e te che ci si sta attaccando, ma se devo parlare del quartiere che fa schifo non si va a manifestare per il quartiere, si va a spacciare e si vive. Magari in questo modo si vive ancora di più lo schifo, se non sei idealista sai che non si può cambiare niente e di conseguenza, schifo per schifo, vivo. Piuttosto che ascoltare una canzone in inglese che non ci capisci un cazzo sento che ha da dire un idiota di Centocelle che poi così idiota non è. Dice cose che ti possono toccare, ti possono tornare. Di sicuro ci saranno mille pischelletti che gli foga solo il taglierino, a me mi fa venire i brividi quando dice “vaffanculo lo Stato, vaffanculo tutto, me ne fotto”. Cioè vedo un modo di rapportarsi simile bene o male a come mi rapporto io a questi momenti di disagio. Quando vado a giro il mio disagio non lo manifesto al corteo in diecimila, è che quando vedo una volante io anche se un c’ho nulla io giro dall’altra parte. Non mi ci metto proprio perché so che fanno schifo, so che c’ho tante cose che poi una cosa tira l’altra… Non va bene come rispondi, ti metti a fare una battuta e vieni schiaffato dentro dodici ore perché hai fatto il simpatico, ecco, basta con queste stronzate, basta con il mettersi proprio a confronto con loro, se non nelle situazioni in cui riesci a farlo nello stesso modo in cui fanno loro, quando riesci a esercitare potere».

E allora, per tornare alle frasi di Quadrelli citate in apertura, è un dato di fatto che, con la crisi, le distanze aumentano e il lavoro affannoso dei poteri consiste nel sopirle. Distanze economiche, sociali, culturali. I risultati elettorali, come tanti episodi di conflitto o di rabbia ovunque nel Paese, lo mostrano con chiarezza. La capacità delle istituzioni e dei corpi intermedi (come i sindacati, le associazioni di categoria, le reti clientelari, le parrocchie…) di esercitare una funzione di governo delle contraddizioni sociali diminuisce velocemente, con i tagli della spesa pubblica e con una disoccupazione in netto aumento. In questo scenario, Ernesto Ferrara trova ancora rilevante denunciare la movida in Santa Croce. Questo raconta qualcosa di Firenze. Probabilmente, la necessità di aumentare ancora la redditività del centro storico rimane una priorità locale, rispetto ad altre aree dove si preferisce gettare acqua sul fuoco e non insistere con l’ossesione securitaria che tanto andava di moda pochissimi anni fa. A Firenze il potere ancora non pare fare i conti con la crisi e continua imperterrito a speculare (v. editoriale di CortocircuitO in merito). Questo dato appare confermato dalla sordità del Comune rispetto alle istanze di conflitto e riappropriazione che una parte crescente della popolazione fiorentina sta esprimendo in questi mesi. Dalla chiusura della ludoteca dei Nidiaci al parcheggio in piazza del Carmine e in piazza Brunelleschi, dalla successione continua di sfratti alla svendita di beni pubblici, Renzi e i «suoi» si dimostrano interessati ad aumentare il proprio giro di affari, trascurando ogni concreta mediazione. Come suggeriscono le testimonianze raccolte, questo non fa che aumentare le distanze. Che si tratti di ragazzi di stadio, è solo una contingenza, una possibilità tra tante. Gli effetti della distanza non si traducono immediatamente nella capacità di organizzare e generalizzare la lotta, ma sicuramente ne costruiscono alcune contraddittorie premesse. A un certo punto, bella per loro.

Lucrezio Schwarz

 

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