Il “caso Balotelli” e il “marketing antirazzista”

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Ieri è uscita su tutti i siti d’informazione mainstream la notizia della contestazione di alcuni tifosi fiorentini alla squadra del Milan. Il fatto è avvenuto alla stazione di Campo di Marte, i rossoneri erano di ritorno dalla trasferta di Siena, dove avevano appena guadagnato, ai danni proprio della Fiorentina, la qualificazione alla Champions, grazie anche a un rigore molto dubbio.
Il fatto di per sé ha poca rilevanza e si inserisce in uno schema classico: i tifosi della squadra “outsider” contestano la squadra potente, accusandola di aver “comprato” il risultato. Inoltre la contestazione si è limitata alle offese, anzi pare che gli unici ad alzare le mani siano stati dirigenti e giocatori milanisti. Insomma non un assalto violento, non un gesto di “follia ultras” (come amano dire i pennivendoli di Repubblica), ma una banalissima contestazione a cui erano presenti, per altro, un numero esiguo di persone (circa una trentina).
Eppure la notizia ha assunto addirittura carattere nazionale e a Firenze ieri non si parlava d’altro. Perché?

A scatenare il putiferio sono stati alcuni “versi della scimmia” rivolti dai contestatori a Balotelli. Su una cosa bisogna fare chiarezza, anche se questo urterà le “sensibilità democratiche” di molti: i cori da stadio col razzismo hanno ben poco a che fare. Chiunque frequenti o abbia frequentato le curve sa benissimo che parole come “negro”, “ebreo”, “puttana”, “spastico” ecc. sono all’ordine del giorno (indipendentemente dalla presenza o meno di gruppi neofascisti purtroppo presenti in molte curve) e scandalizzarsi di questo è un puro esercizio moralistico. Lo stadio è un luogo dove, piaccia o non piaccia, ogni modo di offendere e deridere l’avversario è la norma. Ci sarebbe piuttosto da chiedersi come mai tali parole rappresentino un’offesa (allo stadio come fuori).

La pretesa delle istituzioni (sportive e non) di risolvere il problema “razzismo” (o meglio, dei cori razzisti) attraverso campagne moralistiche condotte dai media e da un inasprimento di controllo e repressione da parte delle forze dell’ordine è palesemente strumentale ad altri fini.

Che il “sistema calcio” sia marcio e corrotto ormai lo sanno anche i sassi, ma che questi signori tentino di rifarsi una faccia pulita sfruttando una battaglia sacrosanta come quella antirazzista è un insulto all’intelligenza. Sembra che un ragazzotto milionario sia la prima vittima del razzismo in Italia, e tutto questo per qualche coro!

Il calcio è un’industria e le squadre sono aziende e la legge che regolamenta il loro comportamento è quella del profitto, non certo l’etica (vero Galliani?). La necessità di darsi un’immagine “buona” è pura strategia di marketing, il loro antirazzismo è di pari grado a quello della pubblicità dei biscotti Ringo.

Perché non dicono qualcosa sulla tratta dei giovani calciatori africani, sfruttati e illusi da procuratori senza scrupoli? Forse l’antirazzismo vale solo per chi è “arrivato”, per chi guadagna 6 milioni di euro l’anno ed è il centravanti della nazionale?

Ricordiamo che dopo tanto sbraitare su problemi inesistenti e surreali quale quello del rischio di “eversione nera” nelle curve, il “socialista” e “democratico” ministro Giuliano Amato nel 2007 varò un decreto di stampo autoritario, introducendo addirittura la censura preventiva sugli striscioni, il cui contenuto va tutt’ora dichiarato in Questura prima di essere esposto.

La censura preventiva nella storia d’Italia l’abbiamo avuto solo per vent’anni, indovinate quali?

Bisogna prendere atto che l’antirazzismo e l’antifascismo di stato non sono che trappole atte e rilegittimare e rafforzare quei poteri che, al di là delle chiacchiere, non si vergognano di utilizzare strumenti repressivi e legislativi che forzano le stesse “garanzie liberali” che dicono di voler difendere. Lo “stato di diritto” è, per sua natura, revocabile qualora si individui una presunta “emergenza”: ricordiamo la “legge Reale” del 1975, ricordiamo Genova 2001, ricordiamo gli sproloqui di Di Pietro dopo il 15 Ottobre 2011.

Non possiamo continuare a delegare la soluzione dei problemi a quelle stesse istituzioni che sono esse stesse un problema.
E non c’è niente di “ideologico” in questo discorso che, al contrario, è ben incuneato nell’esperienza concreta.


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