Un posto dove posare il capo: inchiesta sugli sfratti nella piana fiorentina

La casa. Il lavoro. La salute. L’istruzione. Sono beni primari; sono beni senza in quali la condizione di cittadino e di membro della comunità si appanna e svanisce. Chi non ha questi beni non è un cittadino come gli altri. Senza lavoro non partecipa alla crescita della comunità, entrando in rapporto con gli altri; senza istruzione, non sa nemmeno quali sono i propri diritti e i propri doveri. E senza casa, non ha nemmeno quello che hanno le volpi e gli uccelli del cielo: un posto dove posare il capo. E’ in questi beni primari che la crisi economica affonda e che fa sì che la comunità stessa soffra e si decomponga quando non riesce più a garantire ai propri membri una piena partecipazione. Quindi la crisi degli sfratti non è la crisi di pochi, è la crisi di tutti, che ora coinvolge i più piccoli e i più deboli tra noi; ma che alla fine saremo chiamati tutti a pagare. Lasciare indietro questi significa perdere noi stessi; salvarli, salvare la nostra comunità. E per convincervi di ciò, eccovi un po’ di dati.

IL DATO NAZIONALE

Secondo i numeri forniti dal ministero dell’interno, gli sfratti per morosità, dal 2007 (ultimo anno pre-crisi) ad oggi sono quasi raddoppiati. Nel 2007 su scala nazionale erano 33.959; sono passati nel 2011 a 55.543. Il fenomeno riguarda anche la Toscana, che per la medesima categoria di sfratto passa dai 3.637 del 2007 ai 4.879 del 2001, e la provincia di Firenze, giunta ai 622 del 2011 (ma nel 2010 erano stati 733) a partire dai 485 del 2007. 622 è un dato ben alto. Significa 1 famiglia su 101. Questo dato va incrociato con l’ altro dato, quello dell’aumento degli affitti; secondo la Fondazione Michelucci, dalla liberalizzazione del mercato degli affitti (1995) al 2003 il prezzo degli affitti è aumentato del 50%. Eppure non si registra in Italia carenza di alloggi: per il citato ministero, gli alloggi non occupati in Italia sono, al 2011, 4.994.274 (su un patrimonio abitativo complessivo di 29.074.722); quindi il 17,1% delle case non sono occupate. Per avere un quadro completo, tuttavia, occorrono altri due dati; ancora nel 2010, il 22,8% delle famiglie viveva in una casa in affitto; e di questa fetta, il 39,3% erano lavoratori dipendenti e il 10,01% da pensionati.
Si comincia quindi ad avere un quadro della situazione; la percentuale di famiglie che vivono in affitto diminuisce nel corso del tempo, mentre la parte del reddito necessaria per provvedere alle spese dell’alloggio sale; secondo la Fondazione Michelucci, ha ormai superato il 30% del reddito. Un terzo delle entrate delle famiglie se ne va per le spese della casa. Com’è ovvio, la tipologia delle famiglie che vivono in affitto non è perfettamente omogenea; diversa è la situazione del lavoratore dipendenti single (45,7%) da quello del lavoratore coniugato (37,0%), così com’è diversa la situazione di chi cerca un affitto per motivazione di tipo professionale (37,3%) da coloro che invece lo fanno per motivi di studio (11,5%). Dietro ci sono storie diverse, e anche possibilità economiche diverse. Ma in generale si può concludere che più della metà della platea dei locatari sta nella categoria delle persone a reddito fisso: lavoratori dipendenti e pensionati. Converrà tenerlo a mente.
L’ultimo dato che serve per avere un panorama completo, è quello delle politiche abitative; fin dagli anni novanta, sull’onda dell’entusiasmo per le politiche neo-liberiste, si è sempre più puntato verso una società dei proprietari regolata dalle dinamiche del mercato. Secondo il Censis, laddove nel 1981 gli italiani che vivevano in una casa di proprietà erano il 64%, nel 2011 erano già saliti all’81% (71% in Toscana). Di pari passo sono andate le riduzioni nel sistema welfare della casa; una società di proprietari e benestante non ha certo bisogno di sostegni statali… Di qui la spinta verso la vendita ai privati del patrimonio abitativo pubblico (le due cartolarizzazioni SCIP e SCIP1 del 2001 volute da Tremonti, in parte fallite); l’abolizione del prelievo fiscale GESCAL destinato a finanziare l’edilizia sociale pubblica; la Legge 431/98, con la quale fu abolito ogni calmiere nel mercato degli affitti; la riduzione progressiva e inarrestabile delle sovvenzioni pubbliche nella costruzioni di abitazioni. Secondo l’ANCI, nel 1984, la pubblica amministrazione finanziava l’8% delle iniziative immobiliari. Nel 2004, questa quota si era ridotta a meno dell’1%. Una società di proprietari benestanti, insomma, poteva fare da sé e farcela a sostenere i costi di mercato senza che lo stato avesse più un ruolo (anzi, era meglio che lo stato non intervenisse più). Questo era il miracolo della modernizzazione dell’Italia, ormai diventata un paese all’avanguardia e ricco, la quinta potenza economica del pianeta. La crisi del 2008 si sarebbe incaricata di fare polpette di questa illusione.

ARRIVA LA CRISI

Se l’Italia è diventata una nazione di proprietari, come si spiega l’incidenza altissima del problema sfratti? La spiegazione nasce dal rifondersi di due problemi distinti: da un lato quello di chi, sull’onda della crisi e della politica di contenimento dei redditi da lavoro dipendente (si è visto che il reddito fisso forma la maggior parte del mercato degli affitti), non riesce più a permettersi la spesa dell’affitto; dall’altro, anche i proprietari vedono aumentare sempre più i costi di gestione della casa, il cui onere pesa sempre di più sul sostentamento e sullo stile di vita. Due problemi si fondono: chi non può più permettersi l’affitto, e chi non può più permettersi il mutuo o comunque le spese di manutenzione e gestione. E’ evidente che la categoria degli affittuari, anche tenendo conto della totale libertà in cui ha potuto operare il mercato in questi anni, è quello più in sofferenza; ma anche i proprietari non si salvano, perché o non riescono più a pagare le rate del mutuo, oppure smettono di fare manutenzione e in questo modo il valore del bene diminuisce e in tal modo anche costoro si avviano verso un impoverimento. L’illusione delle politiche neo-liberiste che volevano che la distinzione tra proprietari e affittuari (questi ultimi come categoria residuale) fosse un punto di non-ritorno è smascherata dalla crisi, dove locatari e proprietari si ritrovano accomunati in un percorso comune che finisce con l’insostenibilità delle spese abitative rispetto alla propria situazione economica. Sono due gli elementi che costituiscono il fulcro del problema della casa: le spese abitative e il reddito. E se il reddito fisso è fermo a causa delle politiche nazionali (sull’onda degli slogan “L’Europa ce lo chiede” e “Occorre fare così per uscire dalla crisi”), le spese abitative ormai dipendono interamente dall’andamento del mercato. Lo stato si è provato, in questi anni, di tutti gli strumenti per intervenire, sulla scorta dell’ideologia che il mercato avrebbe condotto tutti nella migliore situazione possibile. Quindi il disagio abitativo che emerge dia numeri che abbiamo ricordato non è il fallimento dei singoli cittadini che hanno voluto intraprendere stili di vita che non si potevano permettere (come invece va di moda dire ora) ma il fallimento, totale e micidiale, delle politiche intraprese in questi anni da tutti i governi che si sono succeduti, nessuno escluso; e di cui le forze che si dicevano popolari portano una maggiore responsabilità.

Risultato di queste politiche: in Toscana il 29% dei giovani compresi tra i 30 e i 34 anni , secondo l’IRPET, vive ancora con i genitori; come potrebbero permettersi un affitto con i lavori precari che hanno, se li hanno? Le famiglie in affitto in condizioni di povertà assoluta sono 520.000 (l’11,3% del totale); e il 26% delle famiglie in affitto (si parla di 1,3 milioni di famiglie) si trova in situazione di disagio. Sono dati Nomisma. Le conclusioni sono facili: sono più colpite le famiglie a basso reddito (quindi i giovani e i pensionati), che non hanno a disposizione una rete familiare di assistenza, e che hanno difficoltà ad accedere all’accensione di un mutuo o che, non disponendo di risparmi personali, non riescono poi a sostenerlo alla prima difficoltà imprevista. Ecco l’identikit del futuro sfrattato.

LAND OF HOPE AND GLORY

Una certa retorica vuole che, quando le cose vanno male in Italia, la Toscana sia in qualche modo una terra felice. Secondo l’IRPET, ad esempio, i dati più recenti confermano che i toscani hanno un’adeguata disponibilità di case, di superficie media piuttosto ampia, con una sufficiente dotazione di servizi e in buone condizioni di manutenzione. Ma non è così. Perché, altrimenti, secondo il SUNIA (poi ripreso dal sindaco di Impruneta Boneforti) vi sono 60-70 esecuzioni di sfratti mensili nel solo comune di Firenze, e 15 in quello di Campi? Anzi, secondo dati citati dall’assessore Mengozzi dalla metà di maggio fino a luglio p.v sono previsti a Campi 26 sfratti esecutivi, che coinvolgono un totale di 93 persone ( di cui 38 minori). Che risponde il comune? Risponde lo stesso assessore: “Non ci sono risposte perché abbiamo fatto tutto quello che potevamo… Quello che il comune ha deciso di stanziare per i contributi affitti è servito a pagare completamente la fascia A e gran parte della fascia B. Ma non basta”. Si tratta di contributi che, a detta di Mengozzi, vanno da 700 a 3.100 euro l’anno. Poiché l’affitto medio pagato nel 2010 su scala nazionale secondo la Fondazione Michelucci era di euro 4.393 annue (ma le medie toscane sono più alte), chiaro che non basta. Quindi il comune si chiama fuori; e infatti Mengozzi chiede di rivolgersi al prefetto.
Ma che strumenti ha un comune per far fronte a questa emergenza? C’è ovviamente il bando per gli alloggi di Edilizia residenziale Pubblica (ERP), emanato in base alla Legge Regionale 96/1996 ogni 4 anni (è già stato emanato nel 2006 e nel 2010 e a novembre 2012 si è chiuso il termine per le presentazione delle nuove domande). Qui era presente una “riserva sfrattati” che è stata cancellata; lo sfratto permane come punteggio aggiuntivo purchè sia dimostrata la morosità “incolpevole”, ossia il mancato pagamento dell’affitto per perdita di lavoro o per malattia. Anche qui, si tratta di uno strumento insufficiente, che non abbraccia tutte le branche del disagio abitativo. Come fare, infatti, per dimostrare la perdita di lavoro in caso di lavoratori autonomi o professionisti il cui lavoro si sia, semplicemente, ridotto? Vi è poi il bando ordinario per il contributo affitto, che è invece annuale, e che è istituito in base alla legge 431/98, art. 11, e che ogni anno viene rifinanziato dallo stato. Ma anche qui, le risorse sono sempre più magre; il fondo statale, integrato dalla regione Toscana, è calato dai 1.831.599 euro del 2006 a 871.955 euro del 2012; e poiché i fondi sono a esaurimento, ecco spiegato perché l’assessore Mengozzi annuncia che la fascia B non è stata coperta. Semplicemente, i fondi non sono bastati per tutti. Ciò non accade solo a Campi; il comune di Firenze non eroga più i contributi alla fascia B dal 2005.
Vi è infine un terzo elemento: la delibera regionale 1088/2011 ha promosso una misura straordinaria e sperimentale per la prevenzione dell’esecutività degli sfratti per morosità. Si tratta di una misura a supporto degli inquilini che si trovano in difficoltà economica temporanea a causa della perdita o della diminuzione del reddito e quindi in stato di morosità “incolpevole”. Quindi esiste un riconoscimento ufficiale del fatto che il disagio abitativo è una situazione oggettiva; e anche a Campi il comune ha emanato, con delibera di giunta 84/2012, un avviso pubblico per avvisare i cittadini di questa possibilità in modo che potessero avanzare richiesta. I fondi assegnati a Campi ammontavano a 46.479 euro soltanto, di cui il 2,5% va agli enti gestori (Casa SpA) a titolo di rimborso spese. L’avviso pubblico non deve avere tano ben funzionato; poiché alla scadenza dei termini soltanto due domande erano pervenute, l’amministrazione ha poi deciso di prorogare i termini temporali (delibera 239/2012). Essendo la misura sperimentale, la regione si attende dai comuni una relazione, da ultimare entro il 31 dicembre 2012, sugli esiti della sperimentazione. Non è stata possibile reperirla. L’assessore, che lamenta che “nei programmi dei candidati sindaco e dei vari gruppi politici per le prossime elezioni a Campi non c’è una riga indirizzata alla questione casa”, non ha reso noti questi dati.

E ADESSO, IO?

Dai dati che abbiamo raccolto, ci sembra di poter trarre due conclusioni: 1) il disagio abitativo, frutto della crisi, è destinato a permanere ancora molto a lungo; sia perché l’attuale depressione economica è destinata a permanere a lungo (anzi può darsi che sia un elemento strutturale dell’economia dei prossimi decenni, come già avvenne in Giappone alla fine del secolo scorso), sia perché le misure volte a penalizzare il lavoro a reddito fisso permarranno anche oltre l’eventuale risoluzione della crisi. Per eliminare questo problema sarebbero necessarie politiche di tipo diverso; ma poiché le attuali forze politiche che governano il paese sono incapaci di politiche diverse e hanno stretto un patto per escludere dal governo forze nuove potenzialmente capaci di politiche diverse, fino al ponte di stringere alleanze innaturali (che però, a ben vedere, sono poi molto naturali), non c’è motivo di ritenere che da questo punto di vista arrivino soluzioni. 2) i comuni non sanno che pesci pigliare. Stretti tra la riduzione dei fondi statali e i magri fondi regionali che arrivano, si arrabattano come possono. Forse è vero che sono meno colpevoli di altri di questa situazione. La responsabilità però resta; sia perché, almeno nella piana, le amministrazioni hanno sempre fatto capo a un partito che ha attuato le politiche che abbiamo detto; e quindi non hanno mai neppure nemmeno pensato a politiche di tipo diverso, che sono state al di fuori del loro orizzonte. Quand’è arrivata la crisi, che ha dimostrato il fallimento di tali politiche, si sono barcamenate con la gestione delle emergenze, senza mai indicare una via d’uscita. Non indicando mai soluzioni, sono diventate parte del problema.
Non spetta a un comitato di cittadini indicare soluzioni, visto che non esercita ruoli di rappresentanza; tuttavia è evidente che il disagio abitativo diventerà sempre più pressante via via che la crisi si acuirà; e che il comune, se non altro perché è a contatto diretto con i cittadini, è la prima linea di difesa della comunità rispetto alla crisi di cui diciamo. E’ il comune, ossia la comunità in cui vivono i cittadini che vanno in disagio, a doversene prendere cura per primo. L’amministrazione che vincerà le elezioni dovrebbe quindi per prima cosa effettuare una severa revisione della spesa, eliminando le spese inutili, voluttuarie, dovute all’inefficienza della macchina comunale, e recuperare risorse per curare questo disagio. Dovrebbe avviare un’azione conoscitiva sugli alloggi vuoti a disposizione nel territorio, sia di proprietà pubblica sia privata sia nella disponibilità delle banche a mezzo recupero da mutuatari insolventi, in modo da sapere esattamente quali siano le risorse a disposizione per affrontare il problema. Dovrebbe mobilitare tutte le risorse della società civile, in primo luogo le associazioni di volontariato, per assistere chi si trovi in stato di disagio; se la comunità non si stringe intorno ai suoi membri più bisognosi, è una comunità solo di nome ma ha già avviato quel disfacimento interno che segna la fine prossima del vivere civile. E soprattutto, la futura amministrazione dovrebbe cercare di fare quanto in suo potere per ridarsi forza e strumenti, in primo luogo risolvendo quel problema di grave carenza finanziaria e di liquidità che segna il vero ceppo al collo delle iniziative comunali su questo tema; ma il tema del dissesto finanziario ed economico del comune è un argomento che ci porterebbe troppo lontano e che affronteremo in un’altra sede.

Tratto dal blog: Mentelocale della Piana

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