Inchiesta tra i lavoratori della logistica delle cooperative emiliane

100035904-61865ee7-5f07-458c-ac3b-74dc955d2de1«Stavo aspettando i cinque anni di lavoro per prendere la carta di soggiorno e andare in un altro paese. Qui noi stranieri siamo molto sfruttati. La busta paga non è mai in regola e la Cgil dice che non si può fare niente. Pensavo di raggiungere la mia ragazza in Svizzera. Poi ho sentito che i lavoratori di altre cooperative hanno vinto la lotta per migliori condizioni di lavoro. Ci siamo iscritti al Si Cobas che le aveva organizzate e iniziato la battaglia per il riconoscimento del Ccnl. Adesso ho la carta di soggiorno ma voglio rimanere a Bologna. Nella lotta ho trovato tanti fratelli». Hassan, marocchino, ha 31 anni ed è in Italia dal 2007. È tra i più attivi nella vertenza aperta contro il consorzio di cooperative Sgb, uno dei gruppi che concentra gli appalti del settore abbassando i costi di produzione in un perverso meccanismo di concorrenza al ribasso.
All’inizio di maggio, 41 lavoratori dei magazzini bolognesi Cogefrin all’interporto e Ctl presso Granarolo sono stati licenziati dopo aver scioperato contro un taglio sul salario del 35 per cento per «stato di crisi» e per il riconoscimento del Contratto collettivo nazionale (altri 10 sono stati sospesi a tempo indeterminato). Ne è nato un braccio di ferro tra lavoratori e Sgb che ha coinvolto Granarolo e Cogefrin come committenti e Legacoop, che delle cooperative è l’associazione di rappresentanza. La lotta è andata avanti per oltre settanta giorni con blocchi e picchetti ai due stabilimenti, cariche della polizia, iniziative di boicottaggio, un corteo a Bologna e quattro incontri con il prefetto intervenuto per mediare tra le parti. Il 18 luglio è stato stipulato l’accordo. I lavoratori non sono del tutto soddisfatti ma sottolineano il risultato raggiunto: «Saranno risarciti i mesi di licenziamento. Vuol dire che pagano i mesi di lotta» evidenzia Karim, 25 anni, marocchino, studente universitario di statistica. Karim lavora in un magazzino dell’interporto e ha partecipato attivamente alla mobilitazione.
L’accordo prevede il reintegro di 23 lavoratori e si impegna a ricollocare i restanti entro il 30 settembre, per tutti c’è la cassa integrazione in deroga dal 1 luglio. È una vittoria solo parziale, ma rappresenta un grosso passo avanti rispetto alla prima proposta: data certa sui reintegri, nessuna periodo di prova, cade la limitazione al recupero del pregresso (circa 20 mila euro a lavoratore) e sparisce la nota che criminalizzava la protesta. «Un buon posizionamento sul terreno dello scontro» dichiara il Si Cobas in un comunicato: il campo di battaglia resta aperto. «Abbiamo firmato sotto il ricatto della scadenza del termine per presentare domanda di cassa integrazione. Ma se non saranno reintegrati tutti entro settembre torneremo a Granarolo con tutta la forza che abbiamo già espresso» afferma dal profilo facebook Bharat, ventisettenne pakistano, altra figura di riferimento della lotta.

Nei magazzini

Nonostante ciò che afferma Legacoop, secondo la quale il lavoro deifacchini non è quello di spostare merci ma di lavorare al computer, committenti come Ctl e Cogefrin creano profitti dallo sfruttamento del lavoro migrante e non investendo in tecnologie e sistemi informatici come in altri paesi. Nello stesso tempo, la gestione da parte delle cooperative vuol dire perlopiù deroga al contratto collettivo nazionale mentre la concorrenza tra committenti taglia pesantemente il costo del lavoro. Il magazzino Ctl di Granarolo, oggi è interamente gestito da Sgb ma, racconta Bharat: «Due anni fa ho cominciato con Coopser che applica il contratto nazionale. Quando però la cooperativa ha proposto di avanzarci al quarto livello, Ctl non ha rinnovato l’appalto perché preferisce lavoratori che costano meno. Così sono stato riassunti da Sgb con un pesante peggioramento delle condizioni di lavoro».
Nel magazzino Ctl si lavorano freschi: latte, mozzarelle, yogurt. Il lavoro è pura fatica. «Lavoriamo a 4 gradi spostando pesi. Gli indumenti2215522-protesta che fornisce la cooperativa sono di cattiva qualità. A queste condizioni si può lavorare al massimo due anni. Il fisico si usura», sottolinea Janesh, ventottenne originario del Bangladesh. Il magazzino smista quotidianamente merci destinate in Italia, Germania e Russia impiegando 80 persone. Per ogni turno circa 20 carrellisti e 50 addetti al picking: la raccolta dei colli da spedire. «Ognuno ha la sua pistola con la missione: quali colli per ogni bancale e la porta in cui lasciarli», spiega Aadil, marocchino, 31 anni, oggi delegato sindacale. «Finisci di lavorare quando hai completato la missione. In genere lavoriamo dalle 14 fino alle 20, 21. Ma a fine mese la maggior parte non raggiunge le 168 ore e lo stipendio non è mai pieno, anche se ci sono alcuni che fanno straordinari». «Nel magazzino il responsabile di Sgb ha stabilito un clima di paura», aggiunge Bharat, «se non fai più di 200 colli all’ora ti mette in ferie, nonostante per contratto i colli siano 180».
Le cose non vanno meglio a Cogefrin, che gestisce l’import-export di materie plastiche dai paesi arabi destinate al resto d’Europa. Come in altri magazzini, le gerarchie sul terreno della razza sono dispositivi materiali di organizzazione del lavoro. «Ci sono circa 30 operatori», racconta Hassan, «gli stranieri lavorano all’aperto. Pioggia, neve, sole siamo lì, con un orario di lavoro più lungo: dalle 7.30 alle 22. Carichiamo e scarichiamo materiale che arriva sfuso nei container oppure in sacchi. Io per fortuna ho imparato ad usare le macchine e scarico i container che è comunque un lavoro pericoloso. Gli altri lavorano con sacchi da 25 kg da scaricare manualmente nelle cisterne con l’aiuto di un nastro scorrevole. Ogni cisterna contiene 20 bancali da 55 sacchi. Si caricano sette cisterne al giorno, circa 200 tonnellate di merce giornalmente mosse da quattro persone».
Accelerazioni del processo produttivo e sfruttamento del lavoro razzializzato, è questo il terreno dell’accumulazione nel settore della logistica in Italia. Sullo sfondo il sistema delle cooperative che, persa la connotazione mutualistica delle origini, si fa terreno di deregolamentazione del lavoro. La condizione di socio lavoratore si rivela la vera trappola, con lavoratori costretti a versare quote di capitale sociale come quota di partecipazione al proprio sfruttamento: mille euro a Sgb (50 per mese). Per i facchini la qualifica di socio prevale su quella di lavoratore, privandoli del diritto a una piena indennità di disoccupazione. In quanto soci si fanno anche carico di eventuali danni. Inoltre le assemblee dei soci non sono mai realmente tali. Quando Sgb ha decretato lo stato di crisi introducendo la trattenuta del 35 per cento, «a Ctl il responsabile del magazzino ha chiesto di firmare dei fogli per un’assemblea senza spiegarci che stavamo delegando altri a partecipare al nostro posto», «a Cogefrin hanno fissato l’assemblea di sabato quando lavorano solo 4 persone e il venerdì hanno chiesto di firmare le deleghe così non perdevamo il giorno di riposo».
A quel punto, i lavoratori hanno messo in piedi una rete tra magazzini e iniziato la lotta.

Colpire dove il danno è maggiore

«Abbiamo iniziato la scorsa estate», racconta Bharat di Ctl, «in tre abbiamo parlato con gli altri e deciso di rivolgerci alla Cgil. Ci sono stati due incontri, una visita al magazzino. Poi abbiamo capito che si erano accordati con Sgb ed è finita lì». Altri si sono rivolti all’Ugl, che dopo 4 mesi ha firmato il taglio del 35 per cento. «Alla fine siamo entrati in contatto con altri facchini di Sda iscritti al Si Cobas – prosegue – e abbiamo cominciato: quinto livello dal primo marzo e conformità con il contratto nazionale. Il 18 marzo sciopero». L’adesione è stata del 100 per cento, con blocco totale del magazzino. «Ma nella busta paga di marzo – continua – non c’era quello che avevamo richiesto ed era stato anche inserito un taglio del 35 per cento per “stato di crisi”». È stato convocato un altro sciopero per il 29 e 30 aprile. Poi «il 2 maggio, al rientro, siamo stati sospesi. Era chiaro che i ragazzi erano pronti a scioperare se le cose non fossero cambiate e per questo ci hanno buttato fuori». 14 lavoratori sono stati sospesi a Cogefrin e 37 a Ctl.
Inizialmente lo sciopero è stato indetto negli orari del turno di lavoro. Poi la strategia è cambiata, non solo perché la sospensione rendeva tecnicamente impossibile scioperare. A Granarolo i lavoratori hanno deciso di «bloccare tutti i magazzini dello stabilimento quando c’era più merce in uscita. Era questo il modo per fargli più male», ribadisce Aadil avvalendosi di una precisa conoscenza del processo produttivo. È nato così lo sciopero del cappuccino: il blocco sin dall’alba di circa 40 camioncini che distribuiscono il latte in bar e piccoli esercizi commerciali. I picchetti si sono ripetuti a singhiozzo per tutto il mese di maggio, giugno e luglio, raccogliendo solidarietà da lavoratori di altri magazzini anche fuori Bologna, dentro una rete costruita attraverso gli scioperi generali del settore del 22 marzo, 15 maggio e 8 luglio.
Puntando a bloccare le consegne dal mattino, i picchetti hanno prodotto un danno enorme: ogni quattro ore 2/300 mila euro. Parallelamente si è diffusa una campagna di boicottaggio, con attività di subvertising e irruzione nei supermercati che si è riprodotta in molte città, colpendo anche nell’immagine il colosso del caseario italiano. Alla lotta hanno partecipato anche precari, studenti e militanti dei centri sociali, non come semplice atto di solidarietà ma con la consapevolezza di condividere, nelle differenze, medesime forme di vita e sfruttamento. «All’inizio mi ha stupito che degli italiani partecipassero alla nostra lotta, non immaginavo che tra studenti e lavoratori della logistica potessero esserci delle cose in comune. Poi abbiamo capito che il problema de diritti sul lavoro tocca tutti», afferma Hassan. «In questa lotta abbiamo capito cos’è la politica», continua Aadil, «lottare per cambiare le cose sul nostro posto di lavoro ma anche per combattere un sistema complessivo di sfruttamento».

Uno spazio politico

C’è dell’altro. La lotta ha messo in discussione le divisioni tra lavoratori. «Tra pachistani e marocchini – evidenzia Aadil – ci sono sempre casini. Non immaginavo una lotta comune. Ma adesso sappiamo di tutti essere sfruttai e soprattutto che sono i padroni a metterci uno contro l’altro». «Nei giorni della lotta abbiamo passato molto tempo insieme – aggiunge Hassan. Abbiamo fatto picchetti e resistito alle cariche della polizia. Adesso siamo tutti uniti». Dove il capitale separa, dunque, le lotte aprono alla produzione del comune, superano barriere razziali e nazionali, producono soggettivazione resistente e vincono. Più complessivamente si è aperto un potente processo di soggettivazione politica. La lotta per la dignità sul lavoro è anche e insieme resistenza e liberazione dello sfruttamento. Così sottolineava un lavoratore durante un’assemblea: in arabo la parola dignità ha la stessa radice di resistenza, insurrezione, rivolta.
Nei mesi sono emersi quadri militanti capaci di elaborazione politica e gestione della piazza. Nello stesso tempo si sono determinate forme di vita e momenti di socialità che hanno prodotto un radicale salto di qualità nella vita di questi giovani lavoratori migranti. In barba a tutte le retoriche posticce sull’integrazione, nella lotta sono state costruite relazioni, pratiche e linguaggi comuni tra differenti figure sociali e del lavoro a cui nessuno vuole più rinunciare. Ed è anche per questo che sono tutti pronti a riprendere la lotta se gli accordi non saranno rispettati.

La lezione che arriva dall’Emilia “rossa”.

Riportare la vittoria nell’agenda politica. È questa la lezione che viene dal ciclo di lotte apertosi nel settore dalla logistica in questi ultimi anni. Da Milano a Piacenza, da Verona a Padova e poi Bologna, Torino, Roma molte aziende e cooperative del settore sono state interessate da battaglie per il riconoscimento del contratto collettivo nazionale. La lotta dei facchini del consorzio Sgb non è stata dunque una vertenza isolata. E la vittoria dei lavoratori, per quanto parziale, si inserisce in un trend che sta mettendo in discussione l’intero sistema di organizzazione del lavoro nel settore.

Nel processo di outsourcing che interessa la logistica, il sistema delle cooperative gioca un ruolo fondamentale. Permette la gestione della forza lavoro ad un costo minimo e con un elevato livello di flessibilità. «Ci spremono come limoni e quando non serviamo più ci buttano via» sintetizzano i lavoratori. Abbandonato il terreno mutualistico e i principi etici delle origini, il modello cooperativo si è fatto a tutti gli effetti dispositivo di precarizzazione, rispondendo prevalentemente a un calcolo costi-benefici e di convenienza degli investimenti. Inoltre, che circa il 98% degli addetti siano migranti resi vulnerabili da una legge che lega il permesso di soggiorno al contratto di lavoro ha permesso un ulteriore giro di vite su diritti e garanzie aprendo il settore a processi spinti di razzializzazione del lavoro.
Flessibilità, precarizzazione, gerarchie sul terreno della razza: queste le coordinate del lavoro e dello sfruttamento nelle cooperative della logistica. Un sistema fatto di caporalato, straordinari non pagati, trattenute illegittime, scarsa sicurezza. Mentre il settore, fiore all’occhiello del made in Italy risente meno di altri della crisi e politica e sindacati non indagano in ragione dell’enorme fatturato.
La questione non riguarda solo i grandi capitali nazionali e internazionali: Ikea, Tnt, Sda, Artoni. Interessa anche il modello cooperativo in sé. E questo nonostante i distinguo posti da Legacoop, tra coop virtuose e coop che inquinano il mercato agendo senza permessi di intermediazione di lavoro e senza rispettare il Ccnl. Quella di operare dei distinguo, d’altra parte, è una precisa strategia messa in campo con la costituzione dell’Alleanza delle cooperative italiane che unisce le coop rosse di Legacoop, quelle bianche della Confcooperative e quelle verdi (ex repubblicane) dell’Agci. Il nuovo soggetto con cui le lotte della logistica avranno a che fare da qui in avanti.
È per questo che la recente vertenza bolognese ha una specificità forte. Arriva al cuore del sistema delle cooperative nell’Emilia “rossa” che proprio intorno a questo modello ha costruito il suo potere economico e politico: oltre 500 mila addetti e un giro d’affari costantemente in crescita, con le cooperative agroalimentari, tra cui Granarolo e Coop Adriatica (al centro di un’altra lotta tra dicembre e gennaio scorsi) che mostrano i risultati migliori. La vertenza ha dunque assunto un carattere a tratti paradigmatico e la reazione padronale è stata dura come mai in precedenza. Insieme ai licenziamenti e alle cariche della polizia che già si erano viste all’Ikea di Piacenza, la risposta alle proteste dei lavoratori è arrivata dalla commissione di garanzia sullo sciopero: latte e derivati sono da considerare beni di prima necessità. Bloccarne la circolazione vuol dire interrompere un servizio di pubblica utilità. È la prima volta che la legge 146 sulle limitazioni del diritto di sciopero interessa il settore della logistica, colpendo peraltro l’arma forte di queste lotte: gli scioperi selvaggi che bloccano la circolazione delle merci, oggi spazio privilegiato della valorizzazione capitalista. I lavoratori non si sono fatti intimidire e hanno continuato con blocchi e picchetti. La posta in palio è grossa: riguarda l’organizzazione del lavoro in un settore in crescita nonostante la crisi. A giudicare degli umori di entrambe le parti all’indomani della sigla dell’accordo, la partita è tutt’altro che conclusa.

Di Eleonora Bortolato, Anna Curcio

da IlManifesto

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