Il giovane di Campogalera e la montagna

Città

In città quasi nessuno parlava mai dell’esistenza della montagna. Per lo meno non ne parlavano scuole e televisioni. Certo qualcuno dei vecchi magari l’aveva notata, qualcuno addirittura poteva averla scalata in gioventù, ma questo contribuiva a rendere il segreto della montagna un segreto di pulcinella, quel tipo di segreto che meglio sopravvive alle insidie del tempo. Un tempo nei bar si sentiva spesso dire “La grandine la mattina e i fulmini la sera. Li lanciano dalla montagna per schiacciar Campogalera”. Oggi si sentiva solo “La grandine la mattina e i fulmini la sera”, e nemmeno tanto spesso, perché la gente parlava poco e i bar erano tutti chiusi, tranne il Bar Grande che, semivuoto, sembrava quel dinosauro che, ultimo della sua specie, si lascia morire di noia senza troppe pretese ai piedi di una montagna. Ma il Bar Grande non guardava la montagna, tutte le sue finestre davano all’interno della città. Nella mia famiglia discorsi sulla montagna, nel bene o nel male non ne avevo mai sentiti. Non avevo neppure mai aperto quel vecchio libro sull’urbanistica di Campogalera che raccontava come i quartieri periferici dove abitavo fossero stati costruiti proprio da montanari stabilitisi a Campogalera un secolo prima, quando ancora la città non si chiamava così. Ma non ero un gran lettore, eppoi la biblioteca ormai era chiusa da un pezzo, i libri ammucchiati in polverosi scatoloni.

Un giorno – era il giorno dell’apertura dello zoo a Campogalera, mi è rimasto ben impresso perché quello zoo sarebbe stato l’unica attrattiva per molti dei mesi successivi – mi capitò di passare dal Bar Grande. Non andavo quasi mai al bar, come tutti, ma quel giorno, dopo aver vomitato tutta la notte la cena della sera prima, necessitavo con urgenza un emmedrink caldo. Al centro della grande sala (una postazione solitamente lasciata vuota) stavano due uomini dallo sguardo sveglio e dai modi bruschi. La mia attenzione si posò su di loro per via di quei vestiti tanto sgargianti quanto scomodi che costringevano i due in una posizione goffa. Devono essere proprio dei tipi egocentrici questi qua, pensai con biasimo, e quando mi accorsi che li stavo fissando ormai da parecchi secondi voltai lo sguardo veloce sperando che nessuno notasse me o il mio viso che arrossiva. Tuttavia la bestemmia urlata da uno dei due avventori attirò nuovamente la mia attenzione verso il tavolo al centro. I due tipi guardarono con disgusto l’emmedrink che ancora riempiva i loro bicchieri e se ne andarono tossendo. Nessuno in città aveva mai criticato l’emmedrink; tutta Campogalera andava fiera di questa bevanda, che per la verità non è poi così saporita, che veniva prodotta nei dintorni della città e che aveva dato lavoro ai nostri genitori e costruito le scuole per istruire noi ragazzi.

Le grida del proprietario del bar mi risvegliarono dal mio stupore: “Maledetti sparafulmini! Se ne vanno senza pagare i bastardi. Che gente…CHE GENTE! Sono stati loro a lanciarci la grandine stamani sai! Ma ormai se ne sono andati, chi li ripesca più a quelli….”.Sì i due se ne erano andati, e non avevano perso un minuto a spiegarmi che quegli abiti erano utilissimi per proteggersi dal rigido inverno che stava scendendo sulla montagna e su tutta Campogalera. Né mi avevano spiegato che quell’emmedrink tanto venerato ricordava l’odore del piscio per chi era abituato al saporito aroma dei succhi di montagna. Non l’avevano detto a nessuno, e per tanti ragazzi la storia dell’incontro con i montanari sarebbe potuta finire in un modo all’incirca così. Ma per me il destino aveva in serbo qualcos’altro.

Era passato un anno da quell’inverno, però per me poco era cambiato da allora. Gli stessi emmedrink, la stessa famiglia, la stessa solitudine, la stessa vita. La stessa strada, ma stavolta in fondo potevo vedere distintamente il profilo di F., un mio vecchio amico che non rivedevo dai tempi delle elementari. Avevamo deciso di passare la giornata assieme, correndo per la città come quando eravamo bambini, lasciati senza una meta precisa da un presente di disoccupazione. E corremmo, perdendo ogni concezione del tempo e dello spazio, tornando bambini senza più nulla da perdere. Finché F. non si fermò, il fiatone rimbombante e le ginocchia che tremavano. Mi guardai intorno, il prato, i fiori, i grandi alberi e i sentieri sterrati. Stavo per chiedere all’amico dove fossimo finiti, ma temevo di sapere la risposta. Temevo che F. sapesse la risposta. E non volevo che venisse detta. Senza proferire parola F. intanto aveva ripreso a muoversi, percorrendo la strada in salita. Esitai un attimo, poi seguii l’amico.

Continuammo a camminare in salita per diversi minuti, forse ore, con lo sguardo dritto, la mente congelata e la bocca chiusa. Quell’innaturale silenzio fu rotto dalla voce di un uomo occhialuto sulla trentina, con i capelli lunghi legati, un morbido piumino e la voce da ragazzino gentile: “Ciao ragazzi, anche voi di risalita eh? Se avete bisogno di una mano chiedete pure, la strada della montagna è ancora bella lunga!”. A queste parole F. si fermò mentre io, senza vederlo, proseguii per un’altra ventina di metri, poi mi accorsi della sua assenza e voltandomi indietro chiesi “Beh? Ancora lì stai, forza, che la strada è lunga, no?”. F. aveva lo sguardo basso, e un’espressione seria che mi colse in contropiede. Anche il mio sorriso svanì, tornai indietro porgendogli la mano, dicendo un po’ ingenuamente “Guarda che se ti serve una mano ci sono qua io”. “No, senti è che tardi, devo tornare indietro…” “Ma dai che non c’è nulla per cui ritornare laggiù –indicai il paese, in basso – Andiamo che c’è tanta gente che sta salendo con noi” Effettivamente, anche se non me ne ero accorto prima, bastava un piccolo sforzo di concentrazione per vedere qua e là nel bosco tante persone che camminavano. Ma F. mi colse di nuovo alla sprovvista, stavolta per via del tono basso e cupo: “È pericoloso, io me ne vado”. Sorrisi, poi siccome lui restava cupo, imperterrito, assunsi anch’io un’espressione seria, cercai di guardarlo negli occhi, poggiando le mani sulle sue spalle con delicatezza. F. mi colse per la terza volta impreparato, reagendo con violenza. Una spinta sullo stomaco mi fece perdere l’equilibrio, e in un attimo mi ritrovai disteso nella neve. Con la coda dell’occhio vidi il mio amico che mi dava le spalle, scendendo giù dal sentiero, mentre la sua voce rotta da un pianto isterico urlava: “Sei un coglione, perché cazzo mi hai portato quaggiù in mezzo alla neve che non c’abbiamo nemmeno dei guanti. E ora com’è che torno a casa io eh?” Poi, ormai lontano, gridò di nuovo: “Non sai neanche dove stai andando!”. Le parole di F. mi sono rimaste scolpite nella testa, anche se lì per lì non mi soffermai neppure un istante sul loro significato. Feci una culata indietro, ai piedi di un grosso albero, appoggiai la schiena al tronco e mi girai una canna. Dietro il fumo che usciva dalla mia bocca vedevo i fiocchi di neve che cadevano e, ancora dietro, il sole che tramontava. Mi addormentai così.

Sentiero

Del mio percorso per i sentieri della montagna mi ricordo molti dei discorsi con V., compagna di viaggio per vari mesi, con cui strinsi legami di amicizia, affetto e complicità di una profondità che non avevo mai conosciuto, dato che a Campogalera ne esisteva solo un vago riflesso sbiadito. Incontrai V. la prima mattinata di montagna, al risveglio dopo la nevicata.

V: Ci sei? Non dovresti addormentarti tutto solo sulla montagna… Hai freddo? Stai bene? Su svegliati!

Io: Dove sono? Cosa…

V: Siamo per un sentiero dormiglione! Fortuna che passavamo di qui, così ti abbiamo lasciato una coperta

Io: Chi siete?

V: Oh scusami, io sono V. Loro sono G. e A. Scaliamo la montagna, ormai da qualche mese, così siamo diventati abbastanza abili con le coperte. Eravamo in gruppo con un’altra decina di ragazzi, ma loro si sono fermati al rifugio qua sotto…se sei da solo comunque puoi unirti a noi. Se ti va…

Io: Beh, sì, certo…ma voi in che direzione andate?

V: [Rise e alzò l'indice al cielo] Tranquillo, quando si scala la montagna si va tutti nella stessa direzione. Ora seguici pigrone, che il bello di scalare la montagna è scalarla inseme.

Io: [Mi alzai, ripiegai con cura la coperta porgendola a V. per restituirla, ma lei con un gesto delle mani mi fece capire che potevo tenerla] Grazie, non so proprio come avrei fatto senza di voi. In realtà non so proprio cosa mi sia preso, io non sono uno scalatore, non avrei dovuto venire quassù al freddo…

V: Sai, a me sembri proprio uno scalatore. E di quelli buoni, che non si arrende di fronte a nessuna tempesta. E in tutte le città e rifugi da cui sono passata il freddo l’ho sempre trovato, almeno qui lo possiamo affrontare insieme.

V. aveva ragione, il freddo, la paura, i problemi esistevano ovunque, forse prima o poi li avremmo superati, o forse ce ne saremmo fatti una ragione, ma scalare la montagna aiutava enormemente a mettere ben a fuoco le avversità per poi affrontarle insieme. Nei giorni successivi feci conoscenza del resto del gruppo, in verità era spesso V. – con cui intrattenevo lunghissime conversazioni – a raccontarmi ogni cosa in dettaglio.

Io: Senti, c’è una cosa che non sono mai riuscito a chiederti… voi perché scalate la montagna? [Rise] Ecco lo sapevo era una domanda stupida, non…

V: No, no, non è affatto una domanda stupida. Anzi. Beh forse sarebbe più facile capire come mai ci siamo messi in viaggio [annuii per farle capire che la cosa mi interessava]. Per G. è facile, lui viene da una famiglia di scalatori, credo un suo parente sia anche morto in una bufera, comunque sono molto colpita dalla dedizione che ci mette, sai uno potrebbe reagire al lutto anche in modo diametralmente opposto… A. invece non aveva molto da perdere al suo paese, e la montagna è stata la strada obbligata per trovare un paese migliore. Inutile dire che non l’ha trovato, e quindi cerca ancora. Io salii i primi sentieri seguendo mio fratello, lui si è fermato prima, al rifugio, io ho proseguito. Ma no, non è per questo che salgo, e nemmeno per inerzia penso. È il motivo per cui in fondo saliamo tutti. Vedere cosa c’è di là dalla cima.

Io: Cosa c’è di là dalla cima?

V: [Rise] no tranquillo, non sono domande stupide, è che… beh penso non lo sappia nessuno con certezza. Se lo chiedi a cento scalatori diversi, otterrai cento sfumature diverse, ma il bello è che siamo comunque tutti assieme a salire questa montagna. E poi guarda [e si volse, spalle a monte, indicando la vallata], da quassù riesci a vedere molto meglio sia come si muove la città sia cosa ci aspetta sulla cima.

Un’intera giornata la passammo a parlare di quelli che lei chiamava «rinoceronti»

V: Hai visto quello che è passato lassù? Ecco quello è uno di quei rinoceronti di cui ti parlavo.

Io: Lui? E perché?

V: Li distingui da come si muovono. E dalla faccia. Si vede che sono rinoceronti perché non riescono più a far trapelare l’entusiasmo che invece si vede nella faccia di tanti, nella tua… Si muovono veloci e parlano poco. Non cambiano mai il sentiero su cui camminano, e non si fermano a guardarsi attorno, giusto dove mettono i piedi. Spesso li trovi a lavorare nei rifugi o ad improvvisarsi guide per gli esploratori più giovani, ma poi finisce sempre che quando corrono, corrono da soli. Sono quelli che fanno i conti col sopravvivere con l’esistente…

Io [interrompendola]: Sai forse ho capito il tipo, giusto l’opposto di noi. Corrano pure, se non sanno quello che si perdono nella scalata non sapranno trovare chissacché di là, mentre noi…

V: Ehi guarda che non hai proprio capito [mi interruppe a sua volta, con un'espressione severa che mi fece sentire terribilmente in colpa]. Tu non li conosci, non sai quante ne hanno passate, tutti noi se viviamo in una bolla dove non si vede il mondo fuori, prima o poi, quando la bolla scoppia, dovremo tornare con la coda fra le gambe in città. Loro sono così perché queste strade le percorrono da anni, le conoscono molto meglio di noi e non vogliono abbandonarle. Non hai idea di quante bufere abbiano dovuto superare né quanti amici abbiano perso. Confondere quell’aria aspra e assieme ironica con cattiveria o egoismo è proprio un errore da ingenuo. [Cambiò tono, tornando di nuovo a sorridere] Comunque è vero che preferisco te, la tua spensieratezza e il tuo entusiasmo, finché riusciremo ad essere così. È prezioso.

Una mattina, alcuni mesi dopo, fui svegliato bruscamente da V.

V: Ehi, alzati, è successa una cosa bruttissima: A. e G. hanno leticato, A. se ne è andato

Io: Cosa? A. se ne è andato? Dove? Perché?

V: Penso sia tornato in giù, verso un paese, avresti dovuto vederlo, non rispondeva di sé, era incazzatissimo e con G. è finita a manate. A me mi hanno svegliata le loro urla, ma quando ho provato a calmarli per capirci qualcosa A. ha preso e se né andato. Così, senza una spiegazione.

Io: Sai quella notte quando mi hai trovato? Anch’io avevo un amico che così, di colpo, si è incazzato e mi ha voltato le spalle, ma non ho mai capito…

G [interrompendomi, con un occhio nero e le lacrime sul volto]: ve lo dico io perché se n’è andato quel codardo, è la legge nuova, tutto il resto erano solo scuse.

V: Sì, non so se lo sai ma hanno fatto questa nuova legge, cioè ci avevano già provato anni fa, ma ora l’hanno ritirata fuori, comunque in poche parole dice che andare per la montagna è illegale, perché tanto se uno lo fa è solo perché vuole lanciare la grandine e i fulmini, non riescono proprio a capirci niente quelli dei paesi. Poi come se potessero arrestarci a tutti. [Rise, mentre G. restava serio]

G: Ora sì che la grandine e i fulmini glieli diamo noi.

I giorni passarono, e noi tre proseguimmo, a volte soli altre con vari compagni di viaggio. Il discorso che mi è rimasto più impresso di V. nacque all’improvviso, in una sera autunnale.

V: Stamani ho pensato una cosa. Forse dovremmo smetterla di salire la montagna.

Io [confuso]: vuoi tornare in città? Perché?

V: No, no, non dico questo. Forse dovremmo tipo imparare a volare, così arriveremmo prima.

Io: Ma tu non sai volare!

V: Già…beh, allora forse dovrei imparare. Non è che stai diventando anche tu un po’ rinoceronte, eh? Non so, è come se ci stessimo concentrando troppo sul sentiero e poco su cosa c’è oltre la montagna. So che un rinoceronte non approverebbe, ma noi tutte le nostre capacità le dobbiamo usare per arrivare di là. E non mi importa se dobbiamo salire o passare di lato.

Io: D’accordo, allora ora ci riposiamo e domani passiamo di lato, quello lo sappiamo fare giusto?

V: Sono così insicura. So solo che voglio arrivare di là, costi quel che costi, e non ridurmi a una che sale la montagna sperando solo di riuscire un giorno a buttare qualche chicco di neve all’in giù. Questa è una parodia e noi sembriamo delle caricature vogliose più di camminare che di arrivare davvero a qualcosa di nuovo. Comunque no, non andremo di lato domani, non possiamo rischiare in nessun modo di buttare a mare tutta questa strada. Con nessuna scusa, a meno che stanotte tu non capisca se davvero non c’è un’altra strada, facile o difficile, diversa da quella che siamo abituati ad immaginare, per arrivare di là. Sennò, costi quel che costi, saliremo questo sentiero ma stanotte, ti prego, certa di trovare la risposta ai miei dubbi.

Invece la notte portò solo una tempesta. La più forte che abbia mai visto, violenta quanto inaspettata. Ci colse in pieno sonno, scaraventandoci in mille direzioni diverse, e probabilmente devo la mia vita all’esperienza di chi abitava in un vicino rifugio e alle mie urla accorse per salvarmi. Non rividi mai più V.

Rifugio

Il rifugio non guardava la montagna, tutte le sue finestre davano all’interno, verso la città. D’altronde io arrivai convinto che sarei rimasto là solo pochi giorni, lo stretto indispensabile per ritrovare V. e G. Non li avrei mai trovati, e non ho mai potuto sapere se lei sia morta o se, sconfitta, sia tornata alle apparenti certezze urbane; o ancora se abbia imparato a volare, e sia arrivata di là.

Alcuni abitanti del rifugio ridevano dei miei sforzi, tanto più grandi quanto più palesemente vani, altri sembravano aiutarmi, con sufficienza, anche se scoprii poi con mia grande frustrazione, che non avevano nessuna fiducia nel ritrovamento di V. e che si davano briga solo di apparire ai miei occhi come sensibilmente disponibili a venirmi incontro. Ad altri cittadini, di ieri o di domani, il destino farà ritrovare V. e insieme raggiungeranno la cima del monte, a me, beffardo e crudele, ha lasciato solo questo rifugio.

Non sapevo molto della storia del posto, di chi l’avesse costruito o per farvi cosa ma, tutto sommato, non aspiravo a nulla di più di quello che mi veniva offerto al rifugio. Lì potevo stare sicuro e in compagnia tanto, e forse più, che in città; l’odiata città da cui ero fuggito e che guardavamo con disprezzo dalle ampie vetrate, compiacendomi per essere riuscito a sottrarmi alle sue grinfie, dimostrando così che un’alternativa alla sua misera quotidianità era possibile. Grazie agli incarichi che volta volta mi venivano affidati dall’amministratore guadagnavo abbastanza per mangiare e bere, e potevo pure dilettarmi in vari passatempi. I volti inizialmente ostili – tanto da farmeli confondere con quelli dei rinoceronti – si distesero pian piano, certamente contribuì il mio aprirmi alla nuova famiglia, facendo apprezzare le mie doti – pur rudimentali – apprese da quando avevo lasciato la città. Potevo anche dare una mano a chi riusciva ad arrivare fin quassù dalla città. Le tempeste a questa altezza erano frequenti e il mio aiuto fu provvidenziale per più di una persona. Considero queste occasioni una fortuna che mi ha consentito di sdebitarmi moralmente con chi tanto aveva fatto per salvarmi ed accogliermi; purtroppo non tutti sono stati abbastanza saggi da seguire il mio esempio ed unirsi a noi per dare una mano all’interno del rifugio. È capitato chi, dopo brevi pernottamenti, ha preferito ridiscendere in altri rifugi o addirittura in città, ritenendoli luoghi più sicuri, incurante e irrispettoso di chi rischiava e si spendeva per tenere in piedi la baracca. Ancor più rabbia l’attirava però chi, incosciente, non appena si rimetteva riprendeva la sua spericolata marcia all’insù, mettendo a rischio se stesso e gli altri.

Gli anni sono passati velocemente quassù e il posto è cambiato tanto che quasi non ricordo più com’era al mio arrivo. Come ho detto ho contribuito in prima persona, vedendo i miei meriti sempre più riconosciuti. La mia abilità nel cucinare piatti di montagna o nel cucire estrose vesti trasmessami dai miei primi compagni di viaggio servì a dar lustro al rifugio. Un giorno mi riferirono, con non poca soddisfazione, che la voce di questo posto si è diffusa fin in certi angoli di Campogalera. Quello fu uno stimolo nuovo per me e per tutto il rifugio, significava dover attrezzare ancora più e meglio il posto, così da poter offrire a una nuova generazione di miei concittadini un’alternativa alla città, alla vita toccata a me. La piena ricompensa dei nostri sforzi arrivò con un piccolo gruppo di cittadini di Campogalera, attirati proprio dall’apertura del Bar Nuovo. Qualcuno dei nuovi arrivati mi ha detto che l’emmedrink che autoproduciamo qua è persino meglio di quello originale, e che fosse per lui sposterebbe quassù famiglia e attività (è il titolare dello zoo), l’unico dubbio che ancora lo trattiene è la violenza tempestosa delle bufere invernali. Gli altri del rifugio, seduti attorno a noi annuivano pensosi, e qualcuno disse: “La grandine al mattina e i fulmini quando fa buio. Li lanciano dalla montagna per schiacciare il mio rifugio”.

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