Autistici Inventati, il collettivo italiano paladino della privacy

Per oltre dieci anni hanno costruito una comunità online in modo schivo e discreto, lontano da riflettori di qualsiasi tipo. Hacker, attivisti, appassionati di informatica, persone del giro dei centri sociali o di indymedia. Alla base la volontà di fornire strumenti di comunicazione liberi, gratuiti e non commerciali. Ma anche l’idea che la privacy vada difesa dal saccheggio di dati da parte di governi e aziende. Era il 2001 quando è nato il collettivo A/I (che sta per autistici.org / inventati.org) ed è durato oltre un decennio malgrado l’organizzazione volontaristica e le difficoltà: già nel 2003 riceveva le prime richieste ufficiali da parte delle forze dell’ordine di dati anagrafici di utenti di caselle mail: dati che loro non conservano e quindi non hanno mai consegnato. Nel 2004 la polizia, dopo essersi impadronita delle loro chiavi SSL, e con l’appoggio del provider Aruba che ospitava il loro server, monitorò a loro insaputa il traffico di posta e https. Dopo che lo vennero a sapere, elaborarono una nuova strategia di difesa dei dati: è il Piano R, che consiste, semplificando, nel dislocare i server in vari Paesi del mondo. Il che permette di creare una rete più resiliente sia dal punto di vista tecnico che giudiziario. Nel frattempo sul web e dintorni c’era la grande sbornia della diffusione dei social media, delle app, della messaggistica, del cloud. Tutto gratuito, tutto facile da usare, tutti iperconnessi e felici. E loro, a degli occhi mainstream, sembravano nella migliore delle ipotesi un po’ demodé, nella peggiore dei nerd paranoici.

Ora invece, dopo il Datagate, le rivelazioni di Edward Snowden, la forzata chiusura di servizi di mail sicura come Lavabit o quello di Silent Circle, sono stati proiettati alla ribalta. Finiti sul sito internazionale di strumenti alternativi Prism-break.org, e poi citati dal Washington Post, il New York Times, da giornali tedeschi, polacchi. Riscoperti dal mondo come lungimiranti paladini della privacy, hanno assistito a un boom di iscrizioni ai loro servizi: caselle di posta, Vpn, instant messaging via Jabber, chat, hosting di siti web, servizi di blogging e mailing list.

Una impennata, specie sul fronte mail, con richieste decuplicate e punti di duecento iscrizioni in poche ore, che li ha obbligati prima a sospendere temporaneamente l’apertura di nuovi account; e poi a riattivare il servizio ma con una serie di caveat. E in particolare un appello rivolto agli utenti: “Non delegate, prendetevi la responsabilità della vostra sicurezza: scaricate e crittate i vostri messaggi”. Come dire: noi faremo la nostra parte, ma voi dovete fare la vostra. E quindi smettetela di comportarvi da consumatori che per di più regalano le loro informazioni personali a multinazionali e agenzie di intelligence, ma agite da cittadini consapevoli dei vostri diritti digitali e non solo.

Wired ha raggiunto via chat uno dei cofondatori del collettivo, nickname Bomboclat, per fare il punto della situazione.

Allora Bomboclat: il boom di richieste si è fermato o continua?

“Continua, in quanto è principalmente legato a Prism-break.org. Il caso Lavabit in qualche modo passa, ma quel sito rimane come riferimento per chiunque cerchi. E in effetti già prima c’era stato un aumento di richieste, di cui Lavabit ha rappresentato un momento di picco.”

E cosa vi chiedono? mail? Vpn? Altro?

“Principalmente l’email. In questo momento c’e’ un diffuso senso di violazione della privacy da parte della Nsa (l’Agenzia di sicurezza nazionale americana al centro del Datagate, ndr) e delle corporation che si sono dovute adeguare. Perciò oltre Lavabit la gente vuole lasciare Gmail, Outlook e simili, perché è stufa di pubblicità invasiva e per di più ora ha la ‘certezza’ di essere spiata. Poi attraverso la nostra mail si ottengono anche altri servizi, dalla Vpn a Jabber.”

Ora accettate tutte le richieste di iscrizione?

“Tutte è forse troppo. Diciamo che cerchiamo nei nostri limiti di capire se chi ci chiede la casella sa dove è finito, conosce i motivi che ci hanno spinto ad aprire il servizio. C’è chi viene e ci dice: ‘Mi serve una mail secondaria per iscrivermi ai social network”. In questo caso ci fermiamo a fare domande, perché se siamo la mail secondaria diventiamo anche il ricettacolo di tutto lo spam del mondo; e questo andrebbe a discapito di chi ha ‘bisogno’ di noi. Un tempo era più facile accettare tutti perché pescavamo tra gli attivisti, in primis in Italia. Negli ultimi anni abbiamo visto con piacere arrivare richieste dai Paesi che in questi anni hanno vissuto rivoluzioni, guerra o momenti di forte dissenso: Egitto, Siria, Turchia e molti altri.”

Cosa vi differenzia, dal punti di vista tecnico, da un servizio di mail commerciale di una multinazionale, oltre al dato macroscopico che siete una comunità di attivisti e che non collaborate con la Nsa e agenzie analoghe?

“Non teniamo informazioni sensibili nei log, perciò ogni connessione verso i nostri servizi risulta come effettuata da locale. I nostri dischi sono cifrati e dislocati in vari Paesi. Ma negli anni abbiamo più volte tenuto a precisare che noi non siamo la sicurezza garantita, perché questa va inquadrata in scenari e in comportamenti in Rete, e va assunta individualmente. Per altro cerchiamo di offrire anche documentazione all’uso dei servizi, e negli anni abbiamo girato la penisola per fare incontri e seminari sul tema. Diciamo che la nostra piattaforma è semmai un esempio di come ‘We build the Internet’ – un vecchio slogan della comunità hacker – possa andare oltre al significato storico. Anche Bruce Schneier (il noto esperto di security e privacy, ndr) in un articolo sul Guardian di qualche giorno fa cita quella frase, indirizzando un appello agli ingegneri per riaggiustare la Rete, dopo che i governi e le aziende l’hanno tradita trasformandola in una piattaforma di controllo. Ma per noi oggi quel ‘We’ non è solo chi crea l’infrastruttura, bensì anche tutti i netizens.”

Voi di A/I ora quanti siete? Di che mezzi disponete e quanti account e servizi gestite?

“Siamo un collettivo di circa 30 persone, di cui attivi una decina a rotazione. In questo momento abbiamo almeno 7 server in produzione, cioè con dati degli utenti. Poi ne abbiamo una marea, tra macchine virtuali e altro, per sperimentare soluzioni e fare prove. Dietro quello che dal punto di vista utente è un servizio tutto sommato stabile, c’è un continuo fare e disfare, tentare strade, provare e imparare. Attualmente gestiamo circa 13mila email, 2000 siti web, 2000 mailing list, 5000 blog, senza contare chi usa la Vpn.” (Bomboclat non lo sottolinea, ma A/I si paga le spese vive attraverso le donazioni. Prima del recente boom la sola infrastruttura costava 13mila euro all’anno, ma è probabile che i costi ora siano lievitati. Qui le indicazioni per dare un contributo, ndr)

Ma voi che cosa rischiate a livello individuale e collettivo? E potreste avere i problemi di Lavabit?

“Il presidente dell’associazione A/I è soggetto ai rischi legati ad azioni civili contro di noi; in quanto a Lavabit… Noi faremmo di tutto per rimanere aperti, coinvolgendo le persone che ci supportano, cosa che non è avvenuta per servizi commerciali come Lavabit. Noi siamo una comunità testarda, non dei fornitori di servizi, per questo vorremmo che gli utenti che usano la struttura A/I sappiano che le libertà e i diritti vanno saputi difendere tutti assieme e non si comprano da nessuno.”

Cosa pensi delle ultime notizie sulle potenziali capacità di crittoanalisi della Nsa, che sarebbe in grado, anche attraverso la compiacenza delle aziende, di decrittare parte del traffico e delle comunicazioni internet protette?

“Penso che siano la dimostrazione di come, se 10 anni fa ci potevamo ritenere detentori di mezzi sufficienti per ‘stare sicuri in Rete’, oggi le soluzioni prettamente tecniche siano destinate a venir smentite dall’evoluzione tecnologica. Mentre noi da sempre abbiamo sottolineato che di pari passo occorrono consapevolezza e traduzione politica della stessa. Se la Nsa è ora libera di agire è perché dal 2001 in avanti abbiamo vissuto nell’epoca del terrorismo e di uno spinto modello sicuritario. Finché le persone sono disposte a cedere libertà per più sicurezza sono destinate a non avere nessuna delle due.”

Tratto da: http://daily.wired.it/

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