Manifattura, il ritorno del Made in Usa

di Valeria Cipollone, da Limes
Complice lo shale gas e il costo crescente della manodopera cinese, le industrie statunitensi riportano in patria la produzione. Un’inversione di tendenza che ha dei precedenti. Qualità, formazione e flessibilità sono le chiavi del successo.


[Operai in un impianto dell'Alabama; fonte: hmmausa.com]

Rinascita, resurrezione o, semplicemente, ripresa della produzione manifatturiera. Se, in America, della portata del fenomeno si sta ancora discutendo – non solo a livello lessicale -, il consenso attorno alla crescita è ormai consolidato. Il settore, già provato all’inizio del decennio scorso dalla concorrenza cinese, ha scontato pesantemente gli effetti della recente crisi finanziaria. I numeri lo confermano.

Dal 2000 a oggi, la manifattura statunitense ha perso il 30% dei posti di lavoro e il 23% (fino al 2011) del valore aggiunto. Questi valori si iscrivono all’interno di un trend negativo del settore che risale a molto prima. Secondo quanto pubblicato in un rapporto di Citi (qui un articolo estratto), la quota della manifattura nel valore aggiunto prodotto dal settore privato è passata dal 33% della metà degli anni Sessanta a circa il 15% attuale.

Negli ultimi tre decenni, il settore manifatturiero ha dovuto affrontare, ciclicamente, minacce esterne, superate sempre con successo.

In principio fu il Giappone. Durante gli anni Settanta, il paese del Sol Levante conquistava spazio nel mercato mondiale grazie a una produzione snella e sostenuta da forti incentivi statali. Tecnologie avanzate permettevano esportazioni a prezzi competitivi, contribuendo in maniera determinate alla crescita dell’economia. Gli Stati Uniti, in un primo momento spiazzati, risposero con la Silicon Valley, cuore pulsante dell’evoluzione tecnologica e digitale dagli anni Ottanta in poi.

Quella di Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan negli anni Novanta sembrò una miscela vincente: una manifattura dai ritmi sostenuti produceva prodotti altamente standardizzati con una buona dose di copiacarbone, accompagnandosi a un comparto finanziario che cresceva all’interno di una bolla, destinata a scoppiare qualche anno dopo.

Alcuni giganti sono sopravvissuti (LG, Samsung), ma la maggior parte delle aziende si è fermata al livello intermedio, specializzandosi nella fornitura di semilavorati. La qualità, la ricerca e la capacità di disegnare o modificare il prodotto a seconda delle necessità del cliente hanno rappresentato in questo caso la chiave di volta – o meglio, di svolta – degli Stati Uniti. Il valore aggiunto del Made in Usa derivava proprio da questi elementi, inclusi in un processo di produzione piuttosto articolato, di cui i semilavorati asiatici erano solo una componente.

Infine la Cina, all’inizio degli anni Duemila, ha concentrato ed espresso larga parte di tutto quello che l’Asia aveva ancora da dire. Questa volta la sfida era esponenzialmente complicata: lavoro a bassissimo costo, un mercato interno in vertiginosa espansione, un regime dittatoriale e una moneta dal corso controllato. Proprio mentre gli Stati Uniti prendevano le misure dell’emigrazione di massa delle imprese oltreoceano, sopraggiungeva la crisi – per la prima volta una minaccia interna – che rischiava di determinare il tracollo definitivo della manifattura nel paese.

Stando agli ultimi dati (Bloomberg) la fine del manifatturiero Made in Usa appare ancora lontana. Si comincia a tracciare un’inversione di tendenza, cui contribuiscono elementi diversi. Il primo riguarda certamente il possibile rientro in patria di numerose aziende, che dieci anni fa avevano iniziato a investire massicciamente in Cina.

Termine centrale di questo discorso è il costo del lavoro. Come rivela il rapporto del Boston Consulting Group (Bcg), nel 2000 il salario medio cinese era pari a 0.72$ l’ora, 22 volte inferiore rispetto a quello americano. Con l’espansione iperbolica della produzione e del mercato nell’ultima decade, questa cifra è salita rapidamente ed è previsto che arrivi nel 2015 a circa 6.31$/h (quello americano a 24.81$/h). In termini assoluti può sembrare ancora un valore conveniente, ma bisogna considerare un altro fattore chiave.

La produttività cinese nel 2000 era nettamente inferiore a quella statunitense e, anche se destinata a crescere, nel 2015 resterà comunque al di sotto del corrispettivo americano (cresciuto a un ritmo maggiore che in precedenza negli ultimi dieci anni – Citi 2013). Ora, nel 2000 lo scarto salariale giustificava maggiori assunzioni a compensare la differenza di produttività. In poche parole, pur impiegando più lavoratori cinesi per realizzare lo stesso lavoro, il risparmio generato era comunque consistente, dati i bassi costi. Tuttavia, una volta che i salari cominciano a salire, i benefici di mantenere la produzione a livello locale diventano sempre più importanti e l’ago della bilancia pende meno verso l’espansione a est.

Tenere o riportare parte della produzione in America comporta infatti una serie di benefici. In primo luogo, la catena del valore – che rappresenta la struttura delle diverse parti di un’azienda – diventa geograficamente più circoscritta, quindi più semplice da gestire e potenzialmente più economica. I costi logistici e di trasporto si riducono, il che determina un risparmio notevole, visto il prezzo crescente dei carburanti.

Allo stesso tempo, gestire la produzione all’interno del proprio territorio significa da un lato avere maggior controllo sulle varie fasi della realizzazione del prodotto e dall’altro avere la possibilità di creare un prodotto che risponda velocemente alle variazioni di gusto dei consumatori finali. Infine, le aziende saprebbero sicuramente muoversi meglio all’interno del quadro normativo nazionale e federale.

Secondo un sondaggio del Bcg, i numeri di questo rientro sarebbero promettenti. Delle oltre 200 aziende intervistate, il 54% – il 3% in più rispetto al 2012 – di quelle con un fatturato superiore a 1 miliardo di dollari starebbe pianificando di riportare la produzione negli Stati Uniti. La compagnia di consulting ha poi individuato 7 settori per i quali, a partire dai prossimi anni, potrebbe essere conveniente produrre in America: computer ed elettronica, componenti elettriche, macchinari, mobili, metalli, prodotti di plastica e di gomma, produzione legata al settore dei trasporti.

Ci sono dei caveat importanti. Il ritorno della manifattura negli Stati Uniti è da considerarsi graduale (Bloomberg) e non rappresenta in alcun modo la fine dell’epoca della globalizzazione. La dimensione globale rimane essenziale e, in questo contesto, la Cina resta un punto di partenza interessante, sia in termini di investimenti in ricerca e sviluppo, sia per la vicinanza con gli utenti finali di un mercato destinato a ospitare un numero sempre maggiore di clienti. Inoltre, le aziende che hanno puntato sul mercato asiatico dovranno comunque aspettare un numero congruo di anni per poter ammortizzare gli investimenti già fatti.

E se dopo la Cina ci fosse il Bangladesh? Il costo del lavoro in Myanmar è ancora molto basso e le imprese potrebbero decidere di dirottare lì i propri investimenti. A ben vedere, questa ipotesi appare remota, almeno per il momento. Oltre al costo contenuto del lavoro infatti, il valore aggiunto della Cina è stato determinato dalla presenza di infrastrutture di qualità e dalla forte spinta espansiva del paese, che ha favorito gli investimenti esteri. Per ora, negli altri paesi asiatici non si intravede un equivalente.

Al di là del rapporto con la Cina, bisogna considerare ancora due elementi cruciali per il destino della manifattura statunitense. In primo luogo, la questione energetica. Negli ultimi anni, gli Stati Uniti sono stati in grado di produrre ingenti quantità di energia (shale o tight oiloutlook) che hanno bilanciato la diminuzione delle risorse tradizionali. Per i settori che richiedono un uso intenso di energia (come l’alluminio) diventa allora conveniente localizzare la produzione negli Stati Uniti, dove il prezzo dell’elettricità è piuttosto competitivo.

Infine, l’avanzamento tecnologico (stampa in 3D) prevede una progressiva meccanizzazione dei processi di produzione, che nel prossimo futuro richiederanno quindi un minor numero di lavoratori, sempre più specializzati. Diventa allora cruciale il discorso di produttività e qualificazione dei lavoratori, che favorisce ancora una volta il mercato statunitense rispetto a quello asiatico.

A creare un clima favorevole alla produzione interna contribuirà anche l’impegno dell’amministrazione Obama, che a febbraio ha lanciato un programma di incentivi per la manifattura. Quattro i punti sull’agenda: la creazione di una rete di istituti per il rilancio e l’avanzamento della tecnologia manifatturiera, incentivi per rendere il settore più competitivo, attraverso una riforma fiscale, la protezione del mercato statunitense da pratiche di concorrenza sleale.

Il presidente può già vantare di aver generato oltre 500 mila nuovi posti di lavoro negli ultimi tre anni (o forse più?), ma la strada da percorerre è ancora lunga. Se la storia insegna qualcosa, possiamo aspettarci che, anche questa volta, gli Stati Uniti saranno capaci di rilanciare le proprie strutture produttive per affrontare un mercato in costante evoluzione, non senza una buona dose di fierezza e di orgoglio verso quell’etichetta che dice Made in Usa.

(21/10/2013)

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