La logistica italiana è diventata un campo di battaglia


Il picchetto dei lavoratori Si Cobas a Cadriano. Via.

“Stavo manifestando, sono entrato sotto un camion ed è venuto un poliziotto che mi diceva: ‘Io ti aiuto, dai, girati a parlare con me.’ Quando mi sono girato una sua collega mi ha spruzzato il gas in faccia e hanno provato a tirarmi, spaccandomi tutti i vestiti. Io ho manifestato qua solo per chiedere un diritto, per avere un lavoro, nient’altro.” Il facchino straniero che parla è scosso, ha gli occhi arrossati. È il 23 gennaio 2014 e fuori dai cancelli della Granarolo a Cadriano [provincia di Bologna] si è appena concluso l’ennesimo picchetto dei lavoratori aderenti al sindacato Si Cobas e sostenuti dal centro sociale bolognese Crash.

Il blocco dei camion era partito verso mezzogiorno. Poliziotti e carabinieri in tenuta antisommossa avevano sgomberato con decisione il presidio, allontanando i manifestanti dai cancelli con ripetute cariche. Due facchini che si erano distesi sotto un camion per bloccarlo, riporta il sito Infoaut, “sono stati ripetutamente gassati con le bombolette spray dei celerini.” Durante l’ultima carica sono volati anche cazzotti, come dimostra questo video. Alla fine della giornata due facchini vengono arrestati “con l’accusa di aver reagito con violenza all’intervento delle forze dell’ordine”; entrambi verranno rilasciati nella serata di domenica 26 gennaio.

Per la Granarolo la situazione è ormai diventata “molto grave”: “Ancora una volta la produzione è andata persa perché il latte dei nostri allevatori è rimasto nelle cisterne. Ai bolognesi diciamo che la nostra azienda non è in nessuna vertenza sindacale. Nessuno dei nostri lavoratori sta scioperando. Quelle persone davanti ai cancelli non hanno niente a che fare con noi.”

La linea difensiva tenuta dall’azienda è la stessa da diversi mesi: noi non c’entriamo nulla. La mobilitazione davanti ai cancelli della Granarolo è iniziata alla fine dell’aprile 2013, quando una settantina di facchini impiegati dal consorzio di cooperative Sgb—che a sua volta ha ricevuto in appalto alcune attività nel magazzino gestito dalla Ctl (un altro consorzio)—avevano bloccato per due giorni di fila il magazzino e l’entrata/uscita dei tir. I motivi della protesta erano la detrazione del 35 percento del salario “causa crisi” e gli stipendi dei lavoratori, definiti dai delegati del Si Cobas “da fame”—700 euro per “quaranta ore settimanali.”

Blocchi e scioperi erano continuati anche nei giorni successivi. Il 7 maggio 2013 due facchini erano stati investiti da un tir che cercava di forzare il picchetto. La Sgb, intanto, aveva recapitato una lettera di sospensione a 41 facchini per alcune dichiarazioni fatte davanti alle telecamere, tra cui l’accusa di “offerte di soldi in nero per chiudere la trattativa sindacale.”

L’estate scorsa si era trovato un accordo per reintegrare i 41 facchini licenziati dal consorzio Sgb. Aldo Milani, coordinatore nazionale del Si Cobas, aveva detto: “Grazie a un confronto telefonico con il Prefetto siamo arrivati a una proposta che prevede l’inserimento di 23 operai in diversi magazzini a tempo indeterminato” e “un impegno concreto” per gli altri 28. La tregua, tuttavia, era durata poco. A novembre 2013 i facchini erano tornati in piazza a Bologna, denunciando il mancato rispetto dell’accordo. “Sono passati sei mesi,” spiega un altro delegato del sindacato di base, “ma solo nove lavoratori sono stati reintegrati, la metà dei quali con un contratto di soli tre mesi. Degli altri non si è nemmeno discusso.” Di qui la ripresa dello stato di agitazione, culminato negli scontri del 23 gennaio, che in questi mesi ha fatto accumulare ai lavoratori ben 179 denunce.


Manifestazione dei facchini Si Cobas a Bologna, giugno 2013. Foto via Flickr - Radio Città del Capo.

La tensione costante alla Granarolo non è un fatto isolato, e s’intreccia con diverse vertenze nel settore della logistica. Le rivendicazioni contrattuali e lavorative dei facchini, partite nel 2008 contro la Bennet di Origgio, si sono estese a tutta Italia, passando per i centri della GDO (grande distribuzione organizzata) localizzati in prevalenza nel triangolo Lombardia-Veneto-Emilia Romagna.

Il settore della logistica italiana è esploso (un po’ in ritardo rispetto al resto d’Europa) alla fine degli anni Novanta, e da allora la crescita non è stata fermata nemmeno dalla crisi. Secondo Confetra (sigla di Confindustria che raccoglie le imprese del settore) oggi la logistica italiana vale 200 miliardi di euro (il 13 percento del Pil) e nel 2012 ha dato lavoro a 460mila persone. Questa vertiginosa espansione economica si scontra però con la misera realtà quotidiana delle condizioni di lavoro nei magazzini. I sindacati, infatti, definiscono il comparto “una giungla” in cui le aziende “si affrontano sul terreno del costo del lavoro, scaricando quindi tutta la competizione sulle spalle di facchini e corrieri,” per la stragrande maggioranza migranti.

Uno dei problemi maggiori è la presenza ormai sistemica di false cooperative o “cooperative spurie”, ossia “società che attraverso escamotage diversi e variegati perseguono una serie di obiettivi illeciti, come l’evasione fiscale e contributiva, l’applicazione di contratti pirata, l’illecita somministrazione di mano d’opera e il caporalato.” Il fenomeno, specialmente in Emilia Romagna, sta facendo “marcire a partire dalle fondamenta” l’intero sistema cooperativo, ormai lontanissimo dall’originario spirito mutualistico e sempre più calato all’interno di una logica di concorrenza spietata.

Svariate inchieste della magistratura hanno portato alla luce l’infiltrazione mafiosa nel settore. Nel settembre del 2013 Cinzia Mangano ed Enrico di Grusa, figlia e genero di Vittorio Mangano (il leggendario “stalliere di Arcore”), sono stati arrestati con l’accusa di “essersi serviti di una rete di cooperative che, mediante false fatturazioni e sfruttamento dei lavoratori, realizzavano profitti in nero per sostenere detenuti e latitanti.” Nel 2011 l’operazione “Redux-Caposaldo” aveva portato al commissariamento di sei filiali della TNT, i cui servizi erano gestiti da cooperative legate alla ‘ndrangheta. Nel 2009 l’operazione “Isola” aveva fatto finire in carcere Marcello Paparo, imprenditore calabrese accusato dagli inquirenti di essere un boss della ‘ndrangheta (lo scorso ottobre la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza di condanna per associazione mafiosa) e di aver ordinato il pestaggio del sindacalista Nicola Padulano, impiegato in una cooperativa del consorzio Ytaka riconducibile a Paparo.

Il mondo della logistica, come dimostra la vicenda di Padulano, non è immune da episodi di violenza. Il 30 marzo 2012, dieci lavoratori di una cooperativa che offre il servizio alla Mtn di Padova erano finiti al pronto soccorso. In occasione di una protesta infatti un gruppo di 30 persone non ha esitato a usare “pugni, manate, colpi con bottigliette spray, rotoli di nylon usati a mo’ di bastone” e a minacciare il sindacalista Marco Zanotto (Adl Cobas) con un taglierino. “È stata un’aggressione di stile mafioso,” ha detto Zanotto al Corriere del Veneto, “non ci hanno dato neanche il tempo di dire una parola.”

Pochi giorni fa un altro sindacalista, Fabio Zerbini dei Si Cobas, è stato brutalmente pestato da due persone che l’avevano attirato a un appuntamento con un tipico escamotage da agguato mafioso. Prima di finire “l’opera”—un’arcata sopraccigliare e il labbro spaccati, 15 giorni di prognosi—uno dei due picchiatori l’ha anche minacciato di conseguenze ben peggiori: “Se i lavoratori continuano a scioperare e a rompere i coglioni, tu fai una brutta fine.”

Insomma, non è un caso se le contraddizioni del comparto stiano deflagrando piuttosto fragorosamente, travolgendo i grandi poli logistici italiani uno dopo l’altro..

Poco prima della Granarolo, la protesta aveva coinvolto la Cooperativa Centrale Adriatica. Nel febbraio del 2013 Astercoop, che gestisce il magazzino di Centrale Adriatica, aveva escluso (cioè licenziato) tre soci lavoratori. La situazione era già tesa dopo il cambio di appalto del dicembre 2012, quando alcuni facchini si erano visti decurtare le buste paga tra “i 100 e i 200 euro lordi.” Il licenziamento in tronco aveva scatenato proteste, presidi e picchetti che hanno costretto l’azienda a ritornare sui suoi passi riassumendo i tre lavoratori. Ma non era finita qui.

Il 22 marzo 2013, nella giornata di sciopero generale della logistica, un centinaio di manifestanti tra lavoratori, sindacalisti Si Cobas (che è emerso in questi anni come il sindacato più vicino alle lotte nella logistica) e attivisti dei centri sociali aveva bloccato il traffico di fronte al magazzino di Centrale Adriatica e anche l’interporto bolognese, che muove qualcosa come 9 milioni di tonnellate di merci ogni anno. La polizia era intervenuta con cariche e manganellate per sgombrare il presidio, con tanto d’inseguimenti sulla trafficatissima via Emilia. Un facchino, caduto dopo essersi aggrappato alla fiancata di un tir in movimento, si era ferito gravemente ed era stato portato d’urgenza in ospedale.

Gli scontri del 22 marzo 2013.

I blocchi al magazzino di Coop Centrale Adriatica erano tornati all’inizio di maggio a causa della decisione di Astercoop di sospendere 16 facchini per “contestazioni disciplinari”—o “motivi politici”, come ha denunciato il Si Cobas. Tra questi facchini c’era anche Norezine Rachid, sospeso per aver creato “disordini e dissidi” all’interno del magazzino. “Sono tornato il 16 aprile in azienda [dopo un periodo in malattia] e il giorno stesso mi hanno consegnato la lettera di sospensione,” spiega Rachid al Fatto Quotidiano. “La verità è che non gli piaccio perché ho la tessera dei Si Cobas”.

Un’altra protesta clamorosa svoltasi in Emilia è quella che ha coinvolto il polo Ikea di Piacenza. La città emiliana ha un polo logistico immenso—2 milioni e 450mila metri quadri, senza contare gli altri centri sorti in provincia—nel quale lavorano 6400 addetti. Nell’ottobre del 2012 era iniziato un braccio di ferro tra Ikea e il consorzio di cooperative Consorzio Gestione Servizi da una parte, e sindacati e facchini dall’altra. Le ragioni del dissidio: “contratti irregolari”, “mancanza di relazioni sindacali”, “pagamenti irregolari”, “straordinari mai pagati” e assurde disparità di trattamento tra i lavoratori. Il 24 ottobre si erano verificati degli scontri fuori dai cancelli Ikea tra agenti in assetto antisommossa e una sessantina di lavoratori che avevano organizzato un blocco.

La situazione si era infiammata il 2 novembre 2012 a seguito dell’esclusione di 12 lavoratori iscritti al Si Cobas. Il picchetto iniziato alle sei di mattina di fronte al magazzino Ikea aveva retto per ore alle cariche della polizia, che cercavano di sgomberare l’ingresso per far entrare i tir. Alla fine della giornata di “guerriglia” il bilancio è stato di cinque persone portate via in ambulanza e diversi manifestanti contusi e feriti.

Gli scontri a Piacenza.

La protesta, nel frattempo, era cresciuta d’intensità e aveva raggiunto anche molti centri Ikea in Italia (tra cui quello di Bologna, bloccato per alcune ore da lavoratori e attivisti dei centri sociali); la multinazionale svedese aveva addirittura “prospettato almeno un centinaio di licenziamenti a causa della riduzione del lavoro.” La risoluzione della controversia era stata raggiunta la notte del 7 gennaio 2013—dopo una “riunione fiume” in Comune tra azienda, istituzioni locali, sindacati confederali e Si Cobas—attraverso il reintegro dei lavoratori esclusi dal deposito Ikea e l’apertura di un tavolo di trattativa con il consorzio Cgs “per discutere della piattaforma sindacale.”

Nell’estate del 2012 un’altra vertenza, quella della Gartico di Basiano (Milano), un polo di smistamento merci per diversi supermercati, era sfociata in scontri particolarmente pesanti. L’azienda aveva deciso di interrompere il rapporto di lavoro con la cooperativa Alma Group, che a sua volta aveva licenziato 89 dipendenti per “l’impossibilità di ricollocare gli esuberi in altre attività” del gruppo. Per due giorni interi i facchini, quasi tutti egiziani e pachistani, avevano allestito un presidio permanente davanti ai cancelli dell’azienda.

La mattina dell’11 giugno i lavoratori (insieme a sindacalisti e centri sociali) avevano cercato di impedire l’accesso al pullman che trasportava i loro sostituti. Gli scontri con le forze dell’ordine hanno causato 26 feriti, fra cui alcuni carabinieri. Il 7 dicembre 2013 il Tribunale di Milano ha assolto uno degli egiziani arrestati, rinviando gli atti alla Procura “perché vengano valutate eventuali ipotesi di reato a carico delle forze dell’ordine.”

Fuori dai cancelli di questi enormi piazzali avvolti dalla nebbia non ci sono solo gli scontri con la polizia. Come ha scritto il giornalista Antonello Mangano ne La rosarnizzazione del lavoro, i “blocchi alle cinque del mattino” stanno forgiando “una nuova generazione di sindacalisti.” I nomi più noti, emersi nel corso di durissime vertenze, sono quelli di Luis Seclan e Mohamed Arafat.

Il primo, di origine peruviana (in gioventù aveva partecipato alle manifestazioni contro il regime militare), è l’uomo che ha guidato il “primo sciopero multiculturale dell’Italia in crisi”, quello contro l’Esselunga di Bernardo Caprotti—uno degli uomini più ricchi e potenti d’Italia—e le cooperative che gestiscono in subappalto i magazzini di Pioltello (Milano).

La scintilla che aveva fatto scoppiare la protesta è stata l’aggressione fisica e verbale di un caporeparto ai danni di un lavoratore straniero. È l’inizio del 2012, e per mesi 200 lavoratori (tra cui sudamericani, africani, pakistani, ecc.) picchettano il magazzino, scioperano, bloccano la produzione, impediscono ai camion di uscire dai cancelli e costringono la controparte a trattare, il tutto in una situazione difficilissima, contrassegnata da 25 “licenziamenti punitivi”, la pressione costante della polizia e il rischio di rimanere senza lavoro e senza permesso di soggiorno. Seclan stesso subisce “ritorsioni, sospensioni disciplinari, ferie obbligate.” “Non lo abbiamo fatto per avere più soldi, ma per la nostra dignità,” racconta il lavoratore peruviano a Mangano. “Con 1.200-1.400 al mese non stavamo malissimo.”

Mohamed Arafat invece è egiziano. Laureato in servizi sociali, da più di sei anni lavora alla TNT ed è una “figura di riferimento nel polo logistico piacentino.” Prima di arrivare a Piacenza ha lavorato in una fabbrica di arance in Sicilia.

Le prime agitazioni in azienda sono iniziate nell’estate del 2011. In un’intervista, Arafat racconta le condizioni di lavoro in cui si trovavano gli operai prima di iniziare i blocchi: “Il lavoro di 500 lo facevano in 200, così risparmiavano i costi di 300 persone. La TNT ha avuto il miglior risultato di produttività in Italia per cinque anni, ma nessuno è mai andato a vedere a quali condizioni. I padroni hanno avuto alti profitti e i lavoratori solo cattivi trattamenti e malattie. É un metodo schiavistico.”

Il lavoratore egiziano spiega che, almeno inizialmente, non si erano rivolti ai sindacati (“hanno dimenticato la lotta”). Nel luglio 2011 c’è stato l’incontro con i Si Cobas e l’inizio dei blocchi, che ha portato alla vittoria della vertenza: sono arrivati il riconoscimento del contratto nazionale, aumenti salariali (prima la paga era di sei euro all’ora), tredicesima, quattordicesima e permessi.

Sempre nella stessa intervista, il lavoratore egiziano dice: “Al sud ho conosciuto lo sfruttamento brutale e la fame, il padrone fa quello che vuole. Non è diverso al nord, come alla TNT. […] Non è l’Europa che avevamo pensato di incontrare rischiando nell’uscire dal nostro paese.”

In effetti, Arafat e gli altri “facchini” sono capitati in un settore—in Europa e nell’Occidente più in generale—economicamente florido e tecnologicamente all’avanguardia, ma che per mantenere questi ritmi ha un assoluto bisogno di manodopera a basso costo. Per fare ciò, le aziende usano senza scrupoli una forma di outsourcing sempre più simile al caporalato utilizzato nell’agricoltura.

Il risultato, che le battaglie dei facchini davanti ai cancelli hanno il merito di sventolare in faccia a tutti quanti, è che i progressi sociali acquisiti a carissimo prezzo stanno per essere spazzati via senza troppi complimenti, mentre il diritto del lavoro è sul punto di essere rispedito a calci fino al Diciannovesimo secolo.

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Thumbnail via Flickr – Radio Città del Capo.

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