Morti di musica

Un’inchiesta di Redattore sociale denuncia le condizioni di lavoro di operai e facchini che lavorano nell’industria dei concerti. Turni fino a 14 ore, mansioni pericolose e paghe basse.


Il palco crollato prima del concerto di Jovanotti a Trieste, il 12 dicembre 2011. (Lapresse)

Lavorano abbarbicati su grandiose strutture in ferro che possono innalzarsi fino a trenta metri d’altezza o trasportano valigioni con centinaia di chili di materiale. Sopportano turni massacranti, che arrivano a 14 ore consecutive. Percorrono centinaia di chilometri al giorno e presto imparano a dormire quando capita, dove capita e se ce n’è il tempo. E quando le luci sul palco danno il via al boato del pubblico, loro già attendono, stremati, che tutto finisca per ricominciare a far guizzare muscoli e ingegno.

Benvenuti nel mondo dei lavoratori dello spettacolo. Un universo multiforme e scarsamente conosciuto, popolato da tecnici altamente specializzati come da facchini sottopagati, che sbarcano il lunario in attesa di una migliore occupazione. E che per anni si sono mossi in una zona grigia fatta di norme di sicurezza vaghe e poco rispettate, lavoro nero e scarsa rappresentanza sindacale.

C’è voluta una serie di incidenti mortali, tra il 2011 e il 2013, per accendere i riflettori sulla questione: da allora, tra blitz della finanza e controlli serrati dell’ispettorato al lavoro, qualcosa ha cominciato a muoversi. Ma non ovunque e non abbastanza in fretta, a quanto pare; visto che l’ultimo infortunio risale alla scorsa settimana, quando a Firenze un facchino è stato travolto dalla pila di casse acustiche che stava trasportando su un muletto.

Appena qualche giorno prima, a Milano, nove operai romeni avevano annunciato un’azione legale contro la Company service international, società che li aveva assunti per lavorare ai concerti di Bruce Springsteen, Lady Gaga, Shakira e Vasco Rossi. E che li avrebbe pagati quattro euro l’ora, invece delle 7,5 pattuite su un contratto che due di loro affermano di non avere neanche firmato, lavorando di fatto in nero.

“A questo proposito – spiega Enrico Massaro, delegato Slc-Cgil, il principale sindacato dei lavoratori dello spettacolo – va fatta una distinzione tra tecnici specializzati e facchini. Con i primi oggi non si può più sgarrare: i controlli sono frequenti e il lavoro nero è molto raro, specialmente in eventi di grandi dimensioni o che abbiano un risvolto mediatico. Attualmente sono in pochi ad agire ancora in questo modo, ed è gente che si occupa principalmente di piccoli eventi”.

La situazione, però, cambia radicalmente quando si parla facchini: “Su queste figure – continua Massaro – c’è una corsa al ribasso e allo sfruttamento che è davvero oscena. Stiamo parlando di operai che nel 2014 sono fuori da qualsiasi logica di rappresentanza o di contrattazione collettiva. Ben vengano, quindi, le cause legali come quella di Milano”.

Proprio il divario tra tecnici e facchini rende difficile fare una stima complessiva di quanti siano in Italia i lavoratori dello spettacolo: secondo Massaro, i primi sarebbero circa 30mila, “mentre è quasi impossibile quantificare i secondi”.

Anche i tecnici, comunque, sembrano avere i loro grattacapi: il tasto dolente, per loro, sembra sia soprattutto la sicurezza, come l’Italia ebbe a scoprire tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012.

“Questo lavoro ho iniziato a farlo sei anni fa – spiega Michele, 35 anni e una qualifica da rigger (il cui lavoro consiste nel montare e trasportare le parti superiori del palco, appeso a un’imbracatura) – e, soprattutto all’inizio, ne ho viste di tutti i colori. Ho iniziato nel sud Italia, dove l’improvvisazione, il lavoro nero e l’assenza di regole erano all’ordine del giorno.

Parlo di gente che svolgeva mansioni pericolose e specialistiche senza possedere brevetti o abilitazioni; di misure di sicurezza inesistenti o applicate con leggerezza, spesso per una paga da fame. Dopo un paio d’anni mi sono trasferito al nord, e qui le cose erano già molto diverse: il lavoro nero era quasi inesistente ed è stata proprio la cooperativa che mi ha assunto a obbligarmi a prendere il brevetto per i lavori in quota. Dopo gli incidenti, poi, le cose sono cambiate ulteriormente.

Oggi, negli spettacoli di grandi dimensioni, i controlli scattano quasi in automatico. Gli ispettori ci chiedono addirittura di mostrargli i numeri di matricola delle attrezzature di sicurezza, come scarponi, caschi e imbragature, per verificarne il ciclo di vita”.

Più sicurezza, dunque, ma non abbastanza: perché di musica c’è chi continua a morire. Il primo incidente a destare lo sdegno nazionale fu quello in cui perse la vita Francesco Pinna, triestino travolto, con altri sette operai, dalla struttura che di lì a qualche ora avrebbe dovuto ospitare il concerto di Jovanotti. Il 5 marzo del 2012, poi, un altro crollo si è portato via Matteo Armellini, tecnico calabrese rimasto ucciso mentre lavorava alla data reggina di Laura Pausini.

Un copione che, a dispetto di controlli ormai più frequenti e rigorosi, si è riproposto nel giugno scorso, quando Khaled Farouk Abdel Hamid, facchino 35enne di origine egiziana, è morto nel crollo del palcoscenico che aveva appena ospitato il concerto milanese dei Kiss. Dopo il quale, la comunità dei lavoratori dello spettacolo è insorta, cercando di unirsi per far pressione sul ministero del lavoro.

L’inchiesta sul sito di Redattore sociale.

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