L’Africa e la Cina

Cina_AfricaIl 21 febbraio, a Pechino, c’è stato l’incontro tra il premier cinese Li Keqiang e il presidente del Senegal Macky Sall al termine del quale la parte cinese si è ufficialmente impegnata ad ampliare i propri investimenti commerciali in Senegal e a realizzare nuove infrastrutture nel paese.

Mentre la Francia che cerca,disperatamente,di affermare la propria sovranità sulle sue “ex” colonie (vedi gli ultimi interventi militari in Costa d’avorio, Mali e Repubblica Centrafricana) e gli USA che vedono i loro alleati “storici” nel continente (Uganda e Kenya) guardare sempre più spesso a oriente; la Cina diventa il “partner” commerciale di numerosi stati africani.

Nel 2006 mentre l’allora ministro degli esteri cinese Li Zhaoxing era in viaggio in alcuni paesi del continente africano, Pechino pubblicò un documento programmatico ufficiale in cui rese nota “la politica della cina in Africa”.

A inizio novembre 2006 si tiene nella capitale cinese il vertice Cina-Africa che vede l’arrivo di 48 capi di stato africani.

Il documento conclusivo del vertice richiama nel prologo i rapporti “tradizionalmente amichevoli” tra Cina e Africa, sottolineando come tutti i paesi, sia da una parte che dall’altra, siano da catalogare come paesi in via di sviluppo. Agli occhi di Pechino, i temi della cooperazione Sud-Sud sono ancora attuali, quantomeno per un uso meramente propagandistico e strumentale.

La parola,in realtà, è lasciata al denaro con cui le concessioni estrattive vengono pagate,oppure ai prestiti con tassi di interesse quasi inesistenti per paesi così indebitati da non esser presi in considerazione dalle istituzioni internazionali o dai paesi donatori riuniti nel club di Parigi.

E’ stato nel vertice Cina-Africa che la strategia cinese ottenne la sua consacrazione: cinque le mosse previste, da realizzare entro il prossimo vertice sino-africano, previsto per ilnovembre 2009 al Cairo: raddoppiare gli aiuti dati all’Africa nel 2006; offrire 3 miliardi di dollari in prestiti preferenziali e altri 2 miliardi in crediti all’esportazione; creare un fondo di sviluppo Cina-Africa di 5 miliardi di dollari per incoraggiare le compagnie cinesi a investire in Africa; cancellare il debito dei paesi altamente indebitati e/o meno sviluppati; portare a 440, dalle 190 attuali decise nel precedente summit di Addis Abeba del 2003, le merci africane che possono entrare in Cina senza dazi; creare dalle tre alle cinque “zone di cooperazione commerciale ed economica” in Africa; e addestrare 15mila professionisti africani nei settori agricolo, culturale e medico, con una particolare attenzione alla lotta alla malaria.

Mentre l’Europa continuava a rimandare il summit Ue-Africa (previsto per il 2003 e tenutosi a Lisbona nel 2012) nel 2014 gli scambi commerciali tra Cina e Africa hanno superato i 200 miliardi di dollari un volume venti volte maggiore rispetto al 2000, anno in cui il governo cinese ha formalmente istituito il Forum on China-Africa Cooperation (Focac), un organismo sovranazionale creato per riunire i leader politici di entrambe le parti.

Le motivazioni che spingono Pechino a espandersi nel continente africano sono sia di tipo economico che politico,una crescita economica costante del settore industriale cinese ha fatto si che il paese sia oggi il principale importatore netto di petrolio al mondo infatti la percentuale odierna di energia richiesta dal paese asiatico è oggi superiore al 15% della domanda globale.

E’ quindi fondamentale per Pechino accappararsi riserve sicure e stabili di energia impegnandosi in campo politico e diplomatico incoraggiando l’utilizzo di capitali statali e privati nei paesi africani ricchi di idrocarburi per poter sviluppare un’industria estrattiva e costruire le infrastrutture necessarie per poter portare le materie prime in patria e sul mercato.

Un esempio della politica estera cinese in Africa è rappresentato dall’ Angola: quando,nel 2002, il paese uscì da una guerra civile che durò 27 anni Pechino, all epoca, concesse al paese finanziamenti per 2 miliardi di dollari garantiti dall’esportazione di petrolio.

Oggi, a distanza di 12 anni, il 13% del petrolio cinese proviene dall’Angola e viene raffinato a Lobito, in una raffineria costruita con capitali prevalentemente cinesi grazie a un consorzio tra la compagnia statale angolana Sonangol oil e la cinese Sinopec.

Nel frattempo aziende cinesi,traferitesi nel paese africano, hanno realizzato le infrastrutture necessarie al trasporto, l’esportazione e lo stoccaggio del greggio oltre alla recente costruzione di un intera città: Nova Cidade de Kalimba che sorge alla periferia di Luanda, il 30% del petrolio cinese proviene oggi da Angola, Nigeria e Sud Sudan.

Ma non è solo il petrolio a muovere gli interessi cinesi in Africa, il governo cinese ha erogato un prestito di 9 miliardi di dollari alla Repubblica Democratica del Congo per costruire infrastrutture ferroviarie e dighe,gli appalti per la realizzazione sono stati affidati a due aziende cinesi (China Railway Group e Sinohydro Corp ) mentre il prestito è stato gestito dalla Export-Import Bank of China, in cambio Pechino ha ottenuto le concessioni per lo sfruttamento delle miniere di cobalto e rame.

Anche la necessità di avere manodopera a basso costo ha portato molte aziende cinesi in numerosi paesi africani, la Huajian Group, un’azienda cinese che produce scarpe per gruppi come Guess e Tommy Hilfiger, a aperto una sua filiale a sud di Addis Abeba, in Etiopia che impiega circa mille lavoratori locali e 500 lavoratori cinesi, in cambio Pechino si è impegnata a costruire l’autostrada che collega Addis Abeba alle principali città del paese,anche in Kenya, Lesotho e Madagascar operano le maggiori aziende cinesi nel campo tessile.

Se da un lato la Cina ha bisogno di materie prime fondamentali per la sua economia,come il petrolio, dall’altro c’è anche la ricerca di nuovi mercati come nel caso dei due colossi della telefonia cinese: la Huawei e la Zte che si sono inserite nei mercati africani fin dagli anni 90.

Il volume di affari della sola Huawei,in Africa, si aggira sui 3,42 miliardi di dollari diventando, attraverso 18 paesi africani, uno dei principali network di telefonia.

In Etiopia la Huawei si è aggiudicata la costruzione del network di telefonia nazionale,per un valore di 700 milioni di dollari, nel frattempo la Zte gestisce, dal 2008, l’intero settore della telefonia mobile angolana.

Anche Zambia e Nigeria hanno recentemente stretto accordi con la Huawei per la realizzazione delle infrastrutture internet e mobile nei rispettivi pesi (il 14 maggio 2013 venne lanciato il satellite che copre le telecomunicazioni nigeriane) intanto l’Uganda ha appaltato all’azienda cinese l’informatizzazione della sua amministrazione pubblica.

Materie prime, manodopera a basso costo e sbocco per nuovi mercati: queste sono le motivazioni dell’interesse che il governo cinese nutre verso l’Africa.

Tuttavia l’approccio cinese all’Africa non è ispirato da una visione politica globale, la sua attenzione verso il continente africano è dovuta alla necessità di assicurare un ambiente favorevole allo sviluppo interno.

Un elemento fondamentale delle relazione tra Cina e paesi africani è il pragmatismo economico: nessuna condizione per “elargire” capitali ma solo cotratti da firmare.

E’ a suon di dollari che la potenza asiatica raccoglie oggi un consenso diffuso tra le elites politiche africane, mantendo rapporti diplomatici ed economici con 50 stati su 54 del continente africano.

E’ in questo contesto che si può meglio comprendere quanto sta avvenendo oggi in alcuni paesi africani, basti pensare all”appoggio militare francese al golpe che rovesciò Gabgo in Costa d’Avorio, appoggio dato dopo che quest’ultimo dichiarò di voler aprire il ricco mercato ivoriano alle imprese cinesi.

Oppure, sempre per restare in tema di “Franciafrica” ai recenti avvenimenti nella Repubblica Centrafricana, dove Hollande si è affrettato a mandare le sue truppe per difendere i giacimenti di uranio dalle mire asiatiche.

Anche gli Stati Uniti non intendono stare a guardare continuando a mantenere il loro piccolo contingente militare in Uganda, ufficialmente per “dare la caccia a Joseph Kony” chissà che non ci sia anche la preoccupazione che il petrolio del lago Albert non finisca direttamente a Pechino.

di Dodo S. su infoaut

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