Perché le proteste e le lotte nelle galere non si sviluppano?

Considerazioni sulla mobilitazione del “coordinamento dei detenuti”                   dal 5 al 20 aprile 2014 

[vedi qui  per la cronaca delle proteste dentro le carceri e le mobilitazioni fuori]

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Non è stata una mobilitazione estesa e nemmeno coinvolgente. Eppure i problemi in carcere sono tanti: il sovraffollamento ha raggiunto livelli invivibili, il vitto è schifoso, quei pochi lavori interni al carcere che permettono ai alcuni detenuti di avere qualche euro a fine mese (la mercede) sono diminuiti, a questo si aggiunge la mancanza di igiene, di spazi di socialità, perfino le docce sono insufficienti. Insomma in carcere la situazione è drammatica… eppure la popolazione prigioniera non protesta come ci si aspetterebbe. O meglio, come alcuni si aspetterebbero.

Difatti la mobilitazione del “coordinamento dei detenuti” dal 5 al 20 aprile 2014, non ha visto una grande partecipazione. Cerchiamo di capire perché?

Il carcere non è poi tanto dissimile dalle situazioni disagevoli di quelli che stanno “in libertà”. Quelli che vedono diminuire il proprio salario a fronte delle necessità crescenti di quelli cui devono badare; quelli che il padrone licenzia e sanno che non sarà facile trovarne un altro lavoro, quelli messi in Cassa integrazione che sanno che quando questa finirà saranno guai seri; quelli che un lavoro non l’hanno mai avuto e si arrabattano con “lavoretti” di qualche ora da una parte e qualche ora da un’altra, tutti disinvoltamente al nero; quelli che consumano il proprio tempo e le scarpe nel girovagare per la città in cerca di un lavoro che non troveranno; quelli che sono costretti ad accettare paghe miserabili perché altro non si trova…

Anche di questi e queste si dice: perché non protestano, perché non lottano. Probabilmente siamo noi che non vediamo. Tutti e tutte lottano, altroché se lottano! Lottano ciascuno e ciascuna nel proprio microcosmo, invisibili e ininfluenti, ristretti nel proprio ambiente, scegliendo, di volta in volta, l’avversario contro cui scagliare la propria rabbia. Il più delle volte scegliendo avversari sbagliati, ossia quelli che non hanno alcun potere per modificare la condizione di chi protesta.

Il punto non è, dunque, che le persone che vivono un profondo malessere non protestano. protest-3A modo loro protestano. Sia dentro le galere, sia fuori. Ciò che manca è la protesta e la lotta organizzata e consapevole, che si realizzi intorno ad alcuni obiettivi forti, incisivi e condivisi da tutti: consapevolezza e determinazione gli ingredienti essenziali, quelli che mancano.

Ciò che è assente è una lotta ben articolata, in cui tutte e tutti siano consapevoli che non si raggiungerà l’obiettivo d’un colpo, ma sarà necessario un percorso nel quale dopo ogni iniziativa si dovranno tirare le somme, fare gli aggiustamento necessari, rinsaldare la coesione tra chi ha partecipato e ampliare la partecipazione ad altri soggetti per le scadenze successive.

ciò che serve è una lotta “vera” in grado di modificare l’esistente, nella quale bisogna saper calibrare le scadenze in base alle proprie forze, ma anche in base alla valutazione sullo stato dell’avversario, le sue contraddizioni e i contrasti al proprio interno (padroni o multinazionali, governo o ministri, ecc.), ed anche in base all’obiettivo che si persegue.

Una consapevolezza questa che deve essere di tutte e tutti, non di qualche “capetto” o “dirigente”.

La popolazione prigioniera oggi, evidentemente, non è convinta che con le proteste e le lotte collettive si possano raggiungere conquiste valide, non credono che si possa modificare in meglio la propria condizione. Allo stesso modo non ne è convinta la popolazione “libera”, così ciascuno cerca di cavarsi dagli impicci per conto proprio, individualmente, ma nessuno ci riesce, e la situazione peggiora per tutte e tutti.

protest-2E allora domandiamoci: perché questa sfiducia?  Perché tanto disorientamento e incertezza che con la lotta si possa cambiare, migliorandola, la propria condizione?

Per tanti motivi: le sconfitte subite recentemente; il martellamento dei giornali e della Tv che continuano a dire che è inutile la lotta collettiva, è molto meglio “arrangiarsi” individualmente; le grandi organizzazioni sindacali e partitiche che non riscuotono più, con ragione, la fiducia di lavoratori, disoccupati, proletari perché hanno rinunciato a difendeli; inoltre c’è lo strombazzare di politici, giornali e Tv sul fatto che c’è la crisi e non ci sono margini, che c’è il “debito” e baggianate simili, ecc., ecc.

Ma c’è un altro motivo, di grande importanza: queste popolazioni proletarie, in carcere e fuori, non sentono intorno a se una forte solidarietà. Non sentono quel di più di solidarietà a parole, non sentono quella solidarietà effettiva, concreta, non sentono la condivisione. È proprio quello che manca, ciò che è in grado di creare l’ambiente favorevole alla lotta collettiva. Un sostegno materiale alle condizioni di esistenza e alle iniziative necessarie a far si che la lotta raggiunga il risultato.

E così torniamo al punto di partenza. Dove è possibile cominciare a costruire questa solidarietà concreta, questa condivisione? Ovviamente dai territori dai quali proviene la gran parte della popolazione prigioniera e dove torna dopo aver “scontato la condanna”; ciascuno cercando un lavoro che non troverà, quindi arrangiandosi con i “lavoretti” possibili, molti dei quali ai margini della “legalità”, assai diffusi, che purtroppo e assai spesso lo riporta in prigione.

Per interrompere questo circuito devastante e perdente vanno costruiti dei punti di forza: aggregazioni nei territori in grado di sostenere chiunque venga colpito dalla repressione; dal momento dell’arresto, alla permanenza in carcere, a quando esce di prigione. Un sostegno che sia di carattere economico, per sopperire alle spese e alla perdita del salario, sia di sostegno morale e che rappresenti un aggregato, un punti di forza su cui poter contare per le lotte in carcere, per le lotte sul posto di lavoro, per quelle sul territorio per riappropriarsi di quanto necessita per vivere. E andare avanti!

Una sorta di “comitati di solidarietà territoriale” (chiamiamoli così provvisoriamente) nei quali si organizzino tutte e tutti quelli che non hanno la vita facile, quelle e quelli che sono costretti a lavorare alle condizioni dettate da altri (al nero, precario, illegale…), ossia i proletari e le proletarie, e che hanno questa sola possibilità per non soccombere in carcere e fuori. Un’organizzazione territoriale orizzontale, autogestita.

Dei “comitati” di persone come te che non ti lasciano mai “solo”. Che ti aiutano nel non andare in galera, e se ci vai ti sostengono materialmente e ti aiutano a organizzare la protesta e a diffonderla, a collegare le proteste in carcere a quelle nei quartieri, a quelle nei posti di lavoro.

Dei “comitati” di persone che quando qualcuna o qualcuno esce di galera gli sono vicini, lo festeggiano e lo sostengono nel trovare il proprio posto di vita e di lotta nel suo ambiente.

Chi sta in prigione deve poter contare non solo sulla solidarietà di singole persone ma su strutture organizzate e visibili, presenti nel territorio con cui il detenuto può stabilire rapporti concreti, di cui diventa parte viva. E una volta fuori si attiverà, insieme ad altri, nel sostenere tutti quelli che ne hanno bisogno, dentro il carcere e fuori.

È questo il lavoro da fare!

da http://contromaelstrom.com/

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