Cina – Se quarantamila operai in sciopero a Dongguan vi sembran pochi

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Per gli studiosi e gli attivisti che si occupano del mondo del lavoro in Cina quello appena concluso è stato – nel settore privato – uno degli scioperi più significativi dalla fine degli anni Settanta, dal varo della stagione di “Riforme e apertura” a opera di Deng Xiaoping. Decine di migliaia di operai (tra 40.000 e 50.000, a seconda delle fonti) della fabbrica di scarpe Yue Yuen a Dongguan, nella provincia del Guangdong, sono entrati in agitazione il 5 aprile scorso e, a partire dal 14 aprile, hanno incrociato le braccia per una decina di giorni reclamando il versamento di tutti i contributi arretrati.

La notizia della protesta è stata censurata dai media cinesi – che pure nei mesi scorsi avevano riportato manifestazioni simili – ma le immagini riprese dai partecipanti e i commenti dei loro sostenitori hanno potuto viaggiare per un po’ su internet. Lin Dong, avvocato del lavoro e tra i protagonisti dello sciopero, ha diffuso informazioni tramite il suo account di QQ: per questo è stato imprigionato e incriminato in base a una nuova legge per aver “promosso disordini via internet”. Prima che la proprietà cedesse alle richieste dei dipendenti, ci sono stati scontri (soprattutto nei primi giorni) e arresti. Adidas è stata costretta a dirottare parte dei suoi ordini su altri fornitori, mentre Yue Yuen ha subito – secondo quanto comunicato dall’azienda stessa – danni per circa 27 milioni di dollari.

Nel commentare la lotta alla Yue Yuen (il maggior produttore mondiale di calzature sportive – a cui brand come Nike, Puma, Asics, New balance, Reebok, tra gli altri – hanno esternalizzato parte della loro produzione), sui social network e nelle mailing list internazionali si è parlato di “lotta di classe”, “acutizzazione della crisi capitalistica”…

Dalla campagna alla fabbrica, senza diritti. I lavoratori non ci stanno più

“Questo sciopero – sostiene Geoffrey Crothall – è stato importante soprattutto per le sue dimensioni, avendo coinvolto decine di migliaia di lavoratori invece delle solite poche centinaia o poche migliaia”. “La questione che ha fatto scattare la protesta, quella del mancato versamento dei contributi, è sempre più importante – continua l’analista di China labour bulletin -, perché la maggior parte dei lavoratori che migra dalle campagne, si ritrova nei centri industriali priva di diritti. Ma ora incominciano a chiedere: perché questa discriminazione? Ritengo che questo problema in futuro diventerà via via più centrale nei conflitti sul lavoro”.

Il delta del Fiume delle perle è una delle aree del sud della Cina su cui, a partire dagli anni Novanta, il governo ha convogliato gli investimenti esteri, indirizzandoli verso produzioni ad alta intensità di lavoro, soprattutto assemblaggio e finitura di prodotti (abbigliamento, giocattoli, elettronica) destinati all’esportazione. Da anni la Yue Yuen – azienda a capitale taiwanese quotata alla borsa di Hong Kong – non versava se non in minima parte i contributi pensionistici e quelli per l’alloggio. Una pratica piuttosto comune: le autorità locali (a cui spetta di far rispettare le leggi in materia) chiudono un occhio (a volte in cambio di bustarelle) e mantengono le fabbriche sul loro territorio, le aziende aumentano la competitività sui mercati internazionali tagliando in questo modo (illegale) il costo del lavoro. Il sindacato governativo ACFTU (l’unico ammesso) – denunciano gli attivisti – fa finta di nulla.

Una situazione, dicevamo, considerata finora “normale”. Ma a causa sia delle dinamiche demografiche in atto (la popolazione della Repubblica popolare sta invecchiando) e poiché molti giovani cinesi non sono più disposti a svolgere mansioni ripetitive e sottopagate, gli appaltatori di produzioni ad alta intensità di lavoro e basso valore aggiunto stanno spostando parte degli impianti in altri paesi asiatici. E i lavoratori migranti – molti dei quali non più giovanissimi – che restano in fabbrica sono pronti a difendere i loro diritti.

Il dietrofront del governo, che teme l’inizio di una nuova stagione di lotte

“La forza lavoro in Cina si sta riducendo e, parallelamente, l’industria manifatturiera sta attraversando un periodo di contrazione – prosegue Crothall -. Le retribuzioni, che fino a poco tempo fa aumentavano rapidamente, quest’anno sono rimaste più stabili, anche se ci sono stati aumenti dei salari minimi in alcune città”. Il ricercatore di Clb sottolinea che “Da qualche anno ormai le produzioni a basso valore aggiunto vengono spostate in Cambogia, Vietnam, Bangladesh etc. e la base manifatturiera cinese sta attraversando un periodo di transizione che causa tensione e incertezza: per questo stiamo assistendo a una maggiore determinazione da parte dei lavoratori nel difendere i loro diritti e interessi”.

Dieci giorni dopo l’esplosione dello sciopero (che si stava allargando ad alcuni impianti nella confinante regione del Jianxi), un portavoce del ministero del lavoro ha ammesso che Yue Yuen aveva mancato di versare (in molti casi per anni) i contributi dei lavoratori. “Il dipartimento incaricato ha già ordinato alla fabbrica di rettificare le violazioni – ha dichiarato Li Zhong -. Il nostro ministero continuerà a seguire da vicino gli sviluppi della questione”. Decisiva sarebbe stata la mediazione del governo locale che avrebbe spinto l’azienda a promettere di pagare tutti gli arretrati.

“Negli ultimissimi anni, gli scioperi nel settore manifatturiero – ci spiega Crothall – erano stati causati soprattutto da chiusure di fabbriche, cambiamenti di proprietà, rilocalizzazioni. I lavoratori si sono battuti per compensazioni decenti e salari e contributi arretrati”. “Inoltre – continua il portavoce della ong con sede a Hong Kong – tassisti e autisti di autobus hanno scioperato contro salari bassi e abusi da parte dei padroni. Gli insegnanti si sono battuti per aumenti di stipendio, così come altri lavoratori dei servizi e del settore edilizio che devono ancora ottenere arretrati”.

L’inizio dell’era di Xi Jinping sembrava caratterizzata da una diminuzione delle proteste, cresciute alla fine del precedente governo Hu Jintao-Wen Jabao. E invece, dopo un primo anno di “assestamento”, sono riprese: 202 nel primo trimestre 2014 (+31% rispetto all’anno precedente). “Non credo che il passaggio di leadership abbia un grosso impatto sulle lotte dei lavoratori - conclude Crothall -. La forza che muove il recente aumento degli scioperi poggia su tre fattori: cambiamenti nell’industria manifatturiera; diminuzione della forza lavoro, che è più consapevole dei suoi diritti e più sicura della sua capacità di organizzarsi; e lo sviluppo dei social media che hanno reso gli scioperi più visibili ed efficaci”.

da http://www.cinaforum.net/

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