Lezioni di stile e non solo dai Clash City Workers

L’estate scorsa ho avuto il piacere di partecipare alla prima assemblea nazionale del collettivo Clash city workers, dove si prendeva atto del passaggio dalla dimensione cittadina ad una più estesa sul territorio italiano. Il tema della classe e della produzione di valore furono al centro della discussione; posso quindi ragionevolmente dire di aver visto uno dei momenti in cui è nato il progetto del loro libro, edito da Casa Usher, Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi.

Il libro è decisamente all’altezza delle aspettative e conferma l’impressione positiva che mi fece allora questo gruppo di compagni. Apprezzo ora in questo libro, come apprezzai allora nell’assemblea nazionale, la loro serietà, la loro capacità di affrontare i temi con pazienza e costanza, senza cercare scorciatoie o soluzioni di comodo, dogmatiche (o “ideologiche” come direbbero loro); ma soprattutto, le qualità che più mi hanno colpito sono l’umiltà e la sobrietà del loro approccio, il non lasciarsi andare alla retorica o ai modi di esprimersi accattivanti, ammiccanti, che magari fanno anche delle concessioni ai linguagi del mainstream mediatico, a cui si oppongono invece la voglia di fornire uno strumento agli altri compagni e ai lavoratori e quindi il volersi mettere in qualche modo al servizio degli altri.

Il tratto dell’umiltà, forse il più notevole di tutti nel panorama politico antagonista, è presente nella stessa impostazione del collettivo, che si pone l’obiettivo, attraverso l’inchiesta, di essere uno strumento di visibilità delle lotte e di riconoscimento dei vari segmenti del soggetto di riferimento, la classe lavoratrice. Questo spirito di servizio è a mio avviso la cifra di una novità nell’approccio all’attività politica di questo collettivo, è l’inversione dell’atteggimento di superiorità, implicito o esplicito, con cui molti gruppi politici affrontano le tematiche, riscontrabile ad esempio nell’uso di un linguaggio per così dire esoterico, comprensibile solo a chi frequenta gli ambienti di movimento, una superiorità spesso sconfermata dall’isolamento e dalla scarsità della partecipazione.

Per quanto riguarda invece la sobrietà, in una delle numerose recensioni che stanno uscendo (di cui trovate qui un elenco) si dice che “…il libro dei CCW rifugge ogni postura apodittica, ogni velleità profetica, forse anche al costo di sacrificare – a questo scopo – la possibilità di una scrittura seduttiva, accattivante, più immediatamente capace di catturare e persuadere il destinatario.” Ecco, io credo che questo sia uno dei maggiori elementi di pregio di questo testo, che ne fa non l’ennesima sparata di un gruppetto di militanti su quale sia il modo giusto per fare la rivoluzione, che inevitabilmente precede il ritorno alla propria parrocchietta e alle proprie liturgie antagoniste, bensì uno strumento per tutti quelli che intendono seriamente mettersi nell’ottica di un superamento dello stato di cose presente. Tale prospettiva implica necessariamente il conoscere in cosa consiste “lo stato di cose presente”.

Il libro dei CCW merita senz’altro di essere considerato un lavoro di carattere scientifico. Che significa? Ho sentito spesso agitare dai militanti dei collettivi la prospettiva marxiana come “scientifica”, contro l’approccio “ideologico” degli economisti borghesi etc. Peccato che nella maggior parte dei casi la prestesa di scientificità del marxismo veniva posta in maniera altrettanto ideologica, o, come preferisco esprimermi, dogmatica.

Quindi colgo l’occasione per fare un minimo di chiarezza anche su questo punto. Come sa qualsiasi studente di epistemologia che abbia studiato la crisi dei modelli verificazionisti e falsificazionisti avvenuti fra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso, non esiste un criterio di demarcazione netto fra scienza e non scienza. Purtroppo questa è una consapevolezza ben poco presente nelle persone in generale e negli scienziati in particolare. Tuttavia ci sono alcuni caratteri notevoli di quel vasto e complesso fenomeno culturale detto “scienza”, che dai tempi dei greci ha attraversato in maniera carsica il medioevo per riemergere nella modernità, saldandosi alle mutate condizioni economiche e sociali che venivano a crearsi grazie all’ascesa della borghesia.

Il primo di questi, rilevato in primis da Kuhn nel suo fondamentale La struttura delle rivoluzioni scientifiche, è l’assunzione di un punto di vista, di un paradigma, grazie al quale avere una intelaiatura concettuale di fondo (uno schema concettuale) entro la quale sviluppare le successive ricerche. Solo con un preventivo accordo su determinati presupposti si può costituire una scienza.

Solo grazie all’assunzione di un punto di vista da parte di più soggetti è possibile ad esempio la raccolta di dati, poiché tali soggetti convengono sulle modalità di lettura e di raccolta dei dati stessi senza le quali la natura resta per così dire muta.

Sulla scia di questo fatto, è nato un uso epistemologico del termine “ideologia”, che si riferisce proprio al paradigma accettato da una determinata comunità scientifica. Ciò si riferisce anche al fatto che nella scelta dei paradigmi, per quanto generali essi siano, intervengono sempre, in modo più o meno maggiore, ragioni di tipo politico. L’affermarsi del vasto paradigma che oggi chiamiamo genericamente “scienza moderna”, che vede Galieo e Cartesio tra i suoi padri fondatori, e il suo sviluppo, è stato possibile saldandosi al processo di emancipazione della classe borghese e del prevalere del suo sistema politico e ideologico, la democrazia liberale.

Ma ciò non deve far pensare che ogni punto di vista possa essere difeso indefinitamente: in fisica come in politica, l’attrito con l’esperienza, con il corso della storia, può metere in tensione un paradigma affermato, fino a portare a delle vere e proprie crisi di esso. Ad una crisi seguono tipicamente tre tipi di scenario: la restaurazione, la disfatta (e il ritorno alle barbarie in politica o ad una situazione pre-scientifica di scontro di ideologie nella conoscenza), o la rivoluzione.

In epistemologia si parla di esperienze recalcitranti o di anomalie, nel linguaggio politico si parla di contraddizioni, ma sono sostanzialmente la stessa cosa, in quanto una anomalia è un risultato sperimentale che contraddice la globalità della teoria che lo ha reso possibile.

Quindi possiamo dire che, se una scienza ha bisogno necessariamente di una ideologia per esistere, può tuttavia esserci sempre il rischio di un uso dogmatico di quest’ultima, quando essa viene difesa a prescindere dall’esperienza e dagli argomenti messi in campo dalla visone opposta ma su un terreno comune ad entrambi (come una certa misurazione, che sia la posizione di un corpo celeste o la percentuale di lavoratori dipendenti in un paese o la forbice fra ricchi e poveri).

Tornando al libro dei CCW, possiamo dire che esso è almeno implicitamente consapevole che, anche se ci preme difendere un certo punto di vista, non possiamo farlo affidandoci semplicemente alle armi della retorica, soprattutto se vogliamo che la nostra prospettiva incida sulla realtà. Per poter trasformare la realtà, bisogna conoscerla, ma per conoscerla è necessario affidarsi ad una mole significativa di dati. E d’altra parte questi dati devono essere interpretati, soprattutto quando, come in questo caso, essi arrivano dagli organi della controparte.

Proprio tale lavoro critico sui dati ha permesso al collettivo di sfatare alcuni falsi miti che attraversano aree di movimento e mainstream, come la perdita di centralità dell’industria, la terziarizzazione dell’economia, la conseguente “scomparsa degli operai”, e di rimettere al centro del discorso politico il lavoro e in particolar modo la produzione. Proprio la distillazione di argomenti in favore di questa tesi apparentemente audace, basati sull’analisi delle statistiche sulla composizione sociale dell’Italia, mette in luce un altro aspetto della scientificità della ricerca svolta: l’andare dietro ai fenomeni senza per questo contraddirli, cercando spiegazioni unitarie per quanto controintuitive possano sembrarci.

In fondo è qualcosa di cui ci rendiamo conto tutte le volte che osserviamo un’alba o un tramonto, fenomeni che sembrano mostrare un moto di rivoluzione del Sole intorno alla Terra, quando invece la spiegazione migliore è la rotazione della Terra attorno al proprio asse, che a sua volta ruota attorno al Sole. Come ebbe a dire Marx, “ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero”.

Volendo passare ad una critica del testo, non ho alle spalle studi e competenze che mi permettano di fare io stesso una lettura critica dei dati, così, almeno per adesso li prendo per buoni. Per quanto riguarda invece la visione di fondo, c’è un passo che mi ha messo in allarme e che sottintende, a mio avviso, una pericolosa semplificazione del concetto di storia umana.

Nel capitolo dedicato ai lavoratori indipendenti, c’è un passaggio sui cosiddetti “forconi”, la cui prospettiva viene liquidata come reazionaria perché quelle istanze rappresentano un ceto piccolo borghese pesantemente colpito dalla crisi che rimpiange i tempi in cui gli affari andavano bene. In merito a tali proteste si osserva che la loro “connotazione reazionaria non derivava tanto dagli squallidi personaggi che l’hanno capeggiata o dai fascisti che l’hanno sostenuta, ma dalla pretesa stessa di voler far girare all’indietro la ruota della storia.” (pag. 159)

Ora, da una parte sono d’accordo sul fatto che il capitalismo muove tendenzialmente verso l’accentramento di capitali, e che quindi i pesci piccoli vengono via via falciati dall’avanzare di questo modo di produzione, e quindi ritengo assurde le pretese di chi vorrebbe una economia di mercato su misura per i padroncini e le fabbrichette così tipiche di questo paese.

Dall’altra credo anche che la storia non sia una ruota. Mi spiego meglio: io non credo che la storia umana sia una linea, né tanto meno una freccia. Essa non possiede un destino, una fine prestabilita da leggi immutabili, né un andamento di tipo lineare. Essa appare invece come una continua serie di ramificazioni, alcune delle quali si interrompono bruscamente per poi riprendere (come è successo alla scienza) o scomparire per sempre (come è successo ad innumerevoli civiltà), a volte senza quasi lasciare traccia.

Proprio l’esempio della scienza è quello trattato da Lucio Russo, fisico teorico, filologo e storico della scienza, in un articolo sul possibile tracollo della conoscenza scientifica e della conseguente catastrofe culturale:

La paleoantropologia, ad esempio, sembra avere appurato che l’evoluzione degli ominidi non ha seguito un andamento lineare, ma ha avuto una struttura ad albero, con più ominidi presenti contemporaneamente lungo quasi tutta l’evoluzione. L’idea che si potessero ordinare i vari ominidi in un’unica sequenza, classificandoli semplicemente sulla base della loro “distanza” da noi, che è stata così superata, aveva una chiara, anche se inconsapevole, origine ideologica: era basata sull’assunzione di un’evoluzione teleologica, rivolta verso di noi. Lo stesso pregiudizio ideologico ha giocato probabilmente un ruolo importante nella storia della cultura, facendo ritenere a molti storici che le civiltà del passato fossero classificabili anch’esse de-terminandone la distanza da noi. Uno dei massimi storici delle civiltà classiche del nostro secolo, Finley, ha sostenuto la primitività dell’economia antica e l’assenza di “razionalità economica” nella civiltà classica. Tra i tanti argomenti a sostegno della sua tesi ha portato anche quello che non è posibile tradurre il termine broker in greco antico o in latino. Se si pensa che tutte le civiltà sono incamminate sullo stesso percorso, allora l’effetto delle “catastrofi culturali” non può essere troppo grave: si tratta di rimanere fermi o indietreggiare per qualche secolo, ma poi si ritorna sempre allo stesso punto: si finirà sempre con il riavere i brokers (e i geometri differenziali). Se invece l’idea del percorso prestabilito è solo un nostro pregiudizio ideologico, allora la scomparsa definitiva di conquiste culturali diviene possibile.

Il punto è particolarmente importante quando ci si pone in un’ottica di trasformazione dell’esistente: se infatti la storia fosse una ruota che gira, basterebbe aspettare che facesse il suo corso. Ma ciò è assurdo, come pensare che, poniamo, per preparare un esame all’università o per trovarsi un lavoro basti aspettare. Invece c’è bisogno delle scelte degli uomini, di decisioni consapevoli, sia a livello individuale che collettivo.

Una prospettiva del genere pone sotto la giusta luce lo scarto incredibile fra le condizioni oggettive per una rivoluzione e quelle soggettive discusso nelle conclusioni del libro e ci permette di percepirne la drammaticità. Nel paragrafo dedicato al neocorporativismo si mette in rilievo che la classe è sempre più omogenea, per cui “si pone davanti a noi la possibilità materiale di fare la rivoluzione e instaurare un diverso modo di produzione.” (pag. 192) Una tesi giustamente definita scandalosa, incredibile.

E dove si trova la ragione di questo scandalo? Nel fatto che “se dal punto di vista materiale, motivi e risorse per fare la rivoluzione ce ne sarebbero a iosa, la coscienza di classe è ai minimi storici” (pag. 192) La conclusione del ragionamento conferma una cosa che dicevo anche nella già citata assemblea nazionale dei CCW dell’anno scorso: il problema non sono le condizioni materiali, oggettive, bensì quelle di natura soggettiva. È un problema di coscienza, un problema eminentemente sovrastrutturale.

E infatti le classi dominanti lavorano incessantemente sul piano sovrastrutturale con la strategia neocorporativa, imponendo un ordine del discorso che si rifà al “superiore interesse nazionale”, insomma, “fare i sacrifici per salvare il paese”, come se fossimo tutti sulla stessa barca, quando i dati sulla distribuzione della ricchezza dopo la crisi dimostra esattamente il contrario, confermando quella tendenza all’accentramento delle risorse tipica del capitalismo.

Dunque si dà la possibilità concreta di una rivoluzione, ma si tratta appunto di una possibilità, non di una realtà e tantomeno di una necessità.

Affinché una simile possibilità diventi realtà è necessaria una presa di coscienza, non individuale ma collettiva. E non è affatto detto che questa presa di coscienza avvenga. Per propiziarla bisogna che l’azione politica sia efficace nel trasmettere parole d’ordine chiare e dalla prospettiva lungimirante, ovvero che siano veramente generalizzabili e che non siano semplicemente funzionali alla riproduzione di un ceto politico militante. Bisogna insomma alzare lo sguardo, almeno ogni tanto, dal proprio lavoro politico quotidiano per guardare in che direzione stiamo andando, e nel caso, correggere la rotta.

Di questo i Clash City Workers si mostrano perfettamente consapevoli, per questo il loro è un contributo importante, e speriamo decisivo, per fare quel passo in avanti che viene auspicato nelle prime pagine del loro libro.

-Purple Pain

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