Viaggio nelle miniere del Sud Africa, dove gli scioperi sono senza fine

Astrid Pannullo

Viaggio nelle miniere del Sud Africa, dove gli scioperi sono senza fine
Il più lungo sciopero del paese coinvolge il comparto minerario di Rustenburg. La richiesta dei minatori è uno stipendio di 800 euro al mese. Decine di morti finora. Il difficile rapporto con i sindacati
MARIKANA – L’aria è calda nonostante sia inverno. Le strade, perfettamente asfaltate, sono vuote. La miniera di platino della Lonmin di Marikana nel Sudafrica nord-occidentale offre uno scenario desolante. L’attività è ferma: da quattro mesi i lavoratori sono in sciopero. Scomparse le file di autoarticolati e di convogli di treni con dieci, quindici vagoni, che partivano una volta al giorno – in tempi normali le miniere di Marikana hanno un giro d’affari di due miliardi l’anno secondo le stime ufficiali.

Ora invece nessuno è al lavoro. E nessuno vuole parlare con un bianco, almeno pubblicamente: gli occhi che ti seguono sono diffidenti.

“Non parleranno: pensano che siate spie del governo o delle compagnie”, mi spiega Padre Nel, un religioso locale. Lo sciopero che coinvolge il comparto minerario di Rustenburg, Sudafrica, è il più lungo della storia democratica del paese. I minatori vogliono uno stipendio che gli permetta una reale capacità di sostentamento e chiedono la cifra di 12.500 rand al mese (pari a 800 euro) come salario minimo e uguale per tutti. Per questo obiettivo già dal 2012 si sono susseguiti scioperi e proteste che, nell’estate di due anni fa, avevano portato alla morte di 34 persone in una sparatoria scatenatasi al termine di un corteo spontaneo durante lo sciopero selvaggio voluto dall’Amcu, Association of mineworkers and Construction Union, il sindacato radicale che sta guidando la protesta. Dopo il massacro era stata aperta un’inchiesta, ancora in corso, per stabilire le responsabilità. Il lavoro era ripreso. Ora, dopo altri due anni di inedia e piccoli soprusi che li hanno portati all’esasperazione, i minatori sono tornati in sciopero.

Mai nessuno prima d’ora aveva resistito per quattro mesi senza stipendio e le famiglie sono alla fame. Non c’è cibo e anche mandare i ragazzi a scuola è un problema. La messa domenicale è sempre più affollata proprio perché al termine viene offerto un pasto gratuito. Nella cucina della parrocchia si alternano le donne: “mio marito non va più al lavoro e noi ci arrangiamo vendendo piccoli oggetti”, mi dice Anna, 43 anni, tre figli in età scolastica. “Non riusciamo più a pagare neppure la retta scolastica”. Qui molti servizi vengono forniti dalle compagnie minerarie, previa una cospicua detrazione dallo stipendio, ma l’istruzione non è tra questi. La retta mensile è pari ad 800 rand, circa 55€, a cui si aggiungono il costo dei libri, delle divise e delle spese extra. Troppo per chi percepiva, al netto delle trattenute, circa 4000 rand, 225€.

“Si fa un gran parlare dei nostri stipendi”, sbuffa Leah. “Come se gli 8000 rand lordi al mese potessero bastare. Cosa ne sanno di quanto disponiamo davvero al mese? Dobbiamo pagare le tasse, le spese fisse sanitarie e l’affitto per la casa.”

La casa è un tema caldo a Marikana, come in tutte le zone minerarie. Se solo per la Lonmin, una delle tre maggiori compagnie d’estrazione, lavorano 8000 persone per ogni turno, di 8 ore, si può facilmente intuire la moltitudine di famiglie che abitano l’altopiano tra le miniere. Quello dell’abitazione è un business fiorente. Se lavori in un comparto di alto livello devi richiedere a un assistente del Chief, un capo locale – figura derivata dalla consuetudine – un appezzamento di terra su cui dovrai provvedere a edificare. Sono quartieri riconoscibili: abitazioni di circa 200mq, su un unico livello, ma con un bel giardino antistante, spesso fiorito. L’acqua non è un problema: la fornisce la compagnia. I materiali sono reperibili in un magazzino locale, ma non ci è dato capirne la provenienza. Ovviamente c’è una lista d’attesa.

Se invece sei un mero manovale puoi trovare provvisoriamente spazio in un dormitorio, ma poi devi dare un indirizzo di riferimento. Qualcuno, tra i più fortunati, riesce a ottenere una sistemazione in uno dei pochi complessi di prefabbricati a schiera vicino alla propria miniera. Gli altri si arrangiano con soluzioni di fortuna, ma di lunga durata: roulotte o costruzioni tirate su riciclando materiali, che troppo spesso mancano dei servizi essenziali, acqua, luce, gas. Ma i più emarginati sono sicuramente i lavoratori illegali, uomini entrati in Sudafrica alla ricerca di un impiego che qui possono trovare anche senza i documenti.

“Scioperare è giusto”, dice Charlie, che viene dal Lesotho ed è un trivellatore. “Le condizioni di lavoro sono terribili. Turni di 8 ore con il continuo rischio dei crolli: tutto può succedere in un attimo” e a nulla valgono i training. Il peso psicologico di questa consapevolezza non ti abbandona mai a 3000 piedi di profondità, quando sei laggiù, al terzo livello, nel cuore della miniera. La pressione alla quale sono esposti i lavoratori non è solo psicofisica. “Servono concentrazione, forza fisica, forza d’animo. Sono qualità fondamentali per l’estrazione. È questo che rende le persone preziose”.

Non la pensano così gli azionisti di queste miniere, quotate sul mercato internazionale, che propongono un aumento progressivo del 10 per cento in vista di un 2017 in cui le compagnie dichiarano di voler arrivare alla cifra ad oggi richiesta dai sindacati, quei 12.500 rand pari ad 860€ per i quali si continua a morire (solo nelle ultime due settimane sono state uccisi altri tre minatori che avevano provato a recarsi al lavoro, non reggendo più le privazioni dello sciopero).

“Il 10 per cento non è una cifra” dice Andrew, padre di 3 figli che lavora nel comparto sicurezza e che scende in miniera solo quando si sono verificati dei cedimenti per controllare la tenuta delle pareti. “Noi siamo con il sindacato”. E l’Amcu – il sindacato radicale – non retrocede di un solo passo. Neppure nei colloqui con gli altri sindacati: il Num – National Union of Mineworkers –, sindacato vicino all’Anc, ormai percepito come un sindacato governativo, che vorrebbe una soluzione (anche perché, dicono i critici, è negli interessi di alcuni membri di governo come Cyril Ramaphosa, probabile nuovo vice-presidente del paese, già azionista delle miniere) e il Uasa, United Association of South Africa. Alla domanda su quale differenza di posizione ci sia tra i vari sindacati, questi lavoratori rispondono con sguardo sornione: “Per iscriversi al sindacato bisogna pagare una quota: l’Amcu e il Num, e i nostri [dei lavoratori neri] accettano il pagamento con una trattenuta sullo stipendio dell’1 per cento, mentre il sindacato dei bianchi richiede una quota fissa, che nessuno di noi potrebbe permettersi”.

“Ma guarda che siamo noi lavoratori a volere lo sciopero, non il sindacato” ribadisce Charlie. il più agguerrito. Forse perché ogni giorno gli si rinfresca quella paura strisciante mentre l’ascensore, the cage, lo porta fino ai livelli più bassi facendolo precipitare per due, tre, quattro, minuti tra lo sferragliare metallico di cui mi imita il suono. “Là sotto devo trapanare la roccia, fare fori a distanza ravvicinata e piazzare le cariche. Poi, con la mia squadra, raccogliamo le micce e le leghiamo. È allora che interviene l’altro gruppo, per farle esplodere.” Cammina ogni giorno in corridoi che solo qualche volta sono larghi, ma ci sono giorni in cui per diverse ore deve rimanere piegato. “Ogni cosa pesa: i passi, anche il fiato”. Mi spiegano che il turno più pericoloso è quello della mattina, durante il quale si realizzano le esplosioni. Nei due turni a seguire si fa la cernita dei materiali, perché questa zona, oltre al platino, produce anche il cromo.

C’è un’unica strada che attraversa Marikana e ovunque troneggiano i manifesti multicolore della campagna elettorale del 7 aprile. La faccia del presidente, rieletto, Jacob Zuma sembra in minoranza rispetto a quella di Hellen Zille, candidato della Da, Democratic Alliance, che molto ha insistito sulla questione dello sciopero dei minatori. “Chi è venuto qui a fare campagna? Quando è stata l’ultima volta che avete visto i commissari dell’inchiesta aperta dal governo dopo la strage del 2012?” Mi rispondono che da quelle parti non si è visto nessuno, e che di certo, in due anni di indagini della stessa commissione d’inchiesta, nessuno ha mai fatto domande ai minatori. “Vi sentite abbandonati da Zuma?” li provoco. “L’Anc è il partito che ci ha dato la libertà. Sono gli unici da votare” sostiene Andrew. “Già, ma il vicepresidente è anche invischiato nei nostri problemi: è un’azionista delle miniere. Io non lo voto”, dice secco Charlie. Non c’è tentennamento. “Sono troppo corrotti”. Ma quest’anno ricorre il ventennale della democrazia e per la prima volta votano i “nati liberi”. Come Adam, figlio appena maggiorenne di Tito. Lui la pensa diversamente: “Io non voto. Tanto sono tutti uguali. Pensano solo ad arricchirsi, e qui noi non abbiamo lavoro, o veniamo sfruttati. Lo sai quanto guadagnano in un mese i proprietari delle miniere?”. Molti giovani condividono la sua disaffezione.

da http://www.pagina99.it/index.html

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