Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo 2

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Continua da Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo

22. Messico e Venezuela

La lotta per il controllo delle fonti energetiche non risparmiò il Sudamerica, anzi fu proprio in questa parte del mondo che il nazionalismo si scontrò per la prima volta con le Compagnie petrolifere.

Nel Messico il petrolio era stato scoperto nel 1903 e subito le Compagnie inglesi e americane si erano accomodate sotto l’ala protettrice del dittatore di turno. Inutile dire che la sicurezza degli impianti era inesistente e le condizioni di lavoro insopportabili. La prima grande catastrofe della storia del petrolio data al 1908, quando esplose un pozzo nei pressi del porto messicano di Tampico, lasciando una colonna di fuoco alta 500 metri che continuò a bruciare per 59 giorni e un numero imprecisato di morti.

Durante la guerra il Messico fu una fonte essenziale per i rifornimenti americani, fino a quando il nuovo presidente non aumentò le tasse delle Compagnie e nazionalizzò i pozzi. La risposta delle società statunitensi fu classica: riduzione della produzione e assassinio del presidente. Questo andrà a vantaggio del Venezuela il cui regime, per attrarre i capitali dall’estero, affiderà alla stessa Standard Oil (e alla Shell) l’incarico di scrivere la Legge petrolifera, prima di consegnare direttamente alle due Compagnie le chiavi della produzione. Negli anni Venti il Messico e il Venezuela diventeranno rispettivamente il secondo e il terzo produttore mondiale. Il Messico petrolifero fu sconvolto nel 1937 da un’ondata di scioperi generali per l’aumento dei salari, che coinvolgeva soprattutto gli impianti della Shell.

Ma nei precedenti dieci anni la quota di produzione petrolifera messicana era crollata dall’11 al 2,5% mondiale. Nel 1938, per cercare di arrestare questo declino, il governo messicano espropriò le Compagnie straniere e nazionalizzò il petrolio, rischiando per un pelo la guerra con la Gran Bretagna. Ma le Compagnie, con l’aiuto dei servizi segreti britannici, preferirono la strada del putsch, mettendo non poco in allarme il governo statunitense. Sottoposto all’embargo, il petrolio messicano non trovò più compratori. La produzione si dimezzò e lo Stato avrebbe rischiato il fallimento se non fossero intervenute le commesse tedesche, italiane e giapponesi. La Compagnia nazionale Pemex poté così sopravvivere fino allo scoppio della guerra, quando le si spalancò il mercato americano.

Ancora una volta dalle vicende messicane trarrà vantaggio il Venezuela. Questo paese, con una superficie superiore a quella del Texas e una popolazione di soli sei milioni di abitanti, diventerà durante la guerra il principale esportatore di greggio al mondo ed una risorsa vitale per le tre Compagnie che vi dettavano legge, Exxon, Shell e Gulf. La guerra in Europa, sebbene l’opinione pubblica non se ne renderà conto, dipenderà proprio dal petrolio del Venezuela. Grazie al petrolio, il Venezuela era diventato la nazione più ricca dell’America Latina e la sua capitale Caracas in vent’anni si era riempita di automobili e la popolazione raddoppiata.

Come già in Messico, i rapporti tra le Compagnie e i vari governi non furono mai semplici, a causa degli esorbitanti profitti intascati dalle società statunitensi e delle miserabili condizioni in cui vivevano i lavoratori dei campi petroliferi. Nel 1938 i venezuelani, dopo la caduta del dittatore Gomez, chiesero, in cambio del rinnovo delle concessioni, una revisione dei contratti, maggiori royalty e tasse. L’alternativa era la nazionalizzazione. Nonostante l’iniziale malumore delle Compagnie, su intervento del Dipartimento di Stato americano fu introdotta una nuova legge che, in cambio di più alte royalty, accordava alle Compagnie nuove concessioni e contratti di durata quarantennale. In breve tempo la produzione petrolifera raddoppiò.

Nel 1945 il partito radicale “Acciòn Democratica” prese il potere in Venezuela e nuovo ministro del petrolio diventò Perez Alfonso, un nazionalista cosmopolita che conosceva a fondo l’economia del settore essendosi formato negli Stati Uniti e che era destinato ad essere il futuro architetto dell’Opec. Nel 1948, approfittando dei durissimi scioperi scoppiati tra i lavoratori petroliferi, fece approvare una nuova legge che concedeva al governo venezuelano una partecipazione del 50% negli utili derivanti dal petrolio, ma soprattutto che le royalty fossero pagate in petrolio, che il governo avrebbe venduto direttamente, togliendo in questo modo alle Compagnie l’esclusiva “per diritto divino” della commercializzazione. Era nata la formula del fifty-fifty. Presto essa diventerà un’esigenza generale e attraverserà l’Atlantico.

23. La crisi del 1929

La Germania era vogliosa di rivincita dopo che alla fine della prima carneficina mondiale gli alleati, Gran Bretagna, Francia e Usa, per liberarsi di un pericoloso concorrente, le avevano strappato tutte le concessioni petrolifere e imposto durissime riparazioni di guerra. Le avevano cioè imposto di “riparare” i vincitori dei danni patiti in una guerra la cui responsabilità venne attribuita, dai vari Wilson, Lloyd George, Clemenceau, Orlando, esclusivamente alla Germania. L’articolo 231 del trattato di Versailles stabiliva che «la Germania riconosce di essere responsabile, per averli causati, di tutti i danni subiti dai governi Alleati ed Associati e dai loro cittadini in conseguenza di una guerra, che è stata loro imposta dalla sua aggressione». La Germania fu anche costretta ad una dichiarazione di “colpevolezza morale”!

Ma lo stesso trattato, che metteva a sacco la sua economia a vantaggio dei vincitori, poneva la Germania nell’impossibilità di rimettere in sesto la macchina produttiva sconquassata dalla guerra e quindi di far fronte agli impegni. Allora intervenne, deus ex-machina, il genio finanziario dei banchieri americani, che partorì l’idea che le riparazioni di guerra tedesche sarebbero state rimborsate grazie ai crediti concessi dalle stesse banche americane! Tu mi devi rimborsare un debito e non guadagni abbastanza per pagarmi? Niente paura: io ti anticipo una somma supplementare che ti servirà a sfruttare un maggior numero di operai e quindi ti permetterà di rimborsarmi col profitto ricavato il prestito antico e quello nuovo, oltre gli interessi su entrambi. In fondo, il grande banchiere attorniato da uno stuolo di scienziati dell’economia borghese non si comporta in modo molto diverso dal classico strozzino caro alla letteratura mondiale.

Così nel 1924 viene elaborato il Piano Dawes, dal nome del generale americano Charles P. Dawes, uomo di fiducia della finanza americana e abile speculatore egli stesso. La Commissione per le riparazioni, come nella migliore tradizione del capitalismo monopolista, era infarcita di banchieri che erano contemporaneamente industriali, non esclusi i rappresentanti tedeschi delle banche e del cartello dell’acciaio. Evidentemente, la grande finanza considerava le macerie del vecchio continente terreno ideale per incrementare i propri affari. La Commissione non fu infatti una riunione di benefattori: il capitale americano, in cambio del prestito di 800 milioni di marchi-oro per la ricostruzione economica del paese, mise un’ipoteca sui beni e sulle fabbriche tedesche. Il piano Dawes riduceva drasticamente la sovranità dello Stato e metteva nelle mani degli uomini di Wall Street la direzione economica del paese. I prestiti più cospicui furono concessi dalle banche internazionali per aiutare i maggiori cartelli tedesco-americani (Aeg/General Electric, Vereignite Stahlwerke/United Steel, IG Farben/American IG Chemical), nei cui consigli di amministrazione sedevano banchieri americani e rappresentanti della Standard Oil. Vera colonia della Borsa di New York, la Germania divenne il paradiso della finanza internazionale: nel 1928 era indebitata sull’estero per 25 miliardi! Di fatto i prestiti destinati alla ricostruzione della Germania più che a ristabilire la pace, ebbero il compito di gettare le basi della futura guerra mondiale!

Il piano Young, che prese il nome da un altro banchiere americano, fu varato poco prima che scoppiasse la crisi a Wall Street, nella primavera del 1929. Sostituiva il piano Dawes e si dava due obiettivi: arrivare ad una stima del debito dovuto dalla Germania per le riparazioni, rimasto fino ad allora indeterminato, e rimuovere i controlli stranieri sull’economia tedesca. L’intera somma fu ripartita in cinquantadue annualità, con una media di due miliardi di marchi l’anno. Parve che la Germania tornasse padrona di sé: le ferrovie e la Reichsbank tornarono nelle mani dello Stato, l’Intesa evacuò la Renania. In realtà, era più schiava che mai, essendo obbligata a versare le rate fino al 1988 (anno della lontana riunificazione!) e non potendosi sottrarre alla spoliazione perché la sua economia dipendeva totalmente dai prestiti anglosassoni.

Tanto è vero che, quando i finanziatori americani, colpiti dalla crisi, richiamarono i loro capitali, una tremenda catastrofe si abbatté sulla Germania. Le industrie si fermarono. Moltitudini di disoccupati riempirono le strade: tre milioni e mezzo nel 1929-30, sei milioni nel 1931. Quali circostanze avevano provocata la crisi negli Stati Uniti? Le stesse che avevano favorito il crescere abnorme della produzione americana, cioè gli stretti legami finanziari e commerciali stabilitisi tra l’Europa e l’America. Dopo la guerra, il capitalismo americano non si era arrestato nella sua folle corsa: in crescente aumento erano la produzione industriale, la produzione agricola, i profitti, gli investimenti, le vendite. Il paese rigurgitava di capitali che si offrivano in prestito. Nel 1928 la bilancia commerciale americana registrava un attivo straordinario: le esportazioni superavano le importazioni per un valore di 800 milioni di dollari. Nel 1929 la produzione annua dell’acciaio aveva toccato la quota di 50 milioni di tonnellate. Per le strade dell’Unione scorrazzavano 5 milioni di automobili. I prestiti all’estero raggiunsero la cifra straordinaria di 1,26 miliardi di dollari. Dollari 1928!

Fu proprio questa enorme massa di denaro a provocare la crisi. Mentre in America l’orgia delle vendite a rate, delle aperture di credito, della speculazione manteneva alti i costi di produzione provocando fenomeni inflazionistici, in Europa, grazie alla pioggia di dollari, le economie si riprendevano, la produzione superava i livelli d’anteguerra, il commercio estero riannodava i suoi fili. Senza però dimenticare che bisognava pagare gli interessi sui prestiti. Di qui la tendenza a ridurre le importazioni dall’America per non far crescere troppo il montante del debito. Inoltre contro le importazioni americane, che avrebbero finito alla lunga per danneggiare l’agricoltura e l’industria dei paesi europei, si lavorava ad erigere sbarramenti sul commercio estero. La grande fiumana delle esportazioni americane cominciava a rifluire. I prodotti agricoli furono i primi ad ammucchiarsi nei magazzini. Dalle campagne, tradizionalmente l’anello debole dell’economia capitalistica, la crisi si estese all’industria. Chiudevano le fabbriche di automobili, le acciaierie, i cantieri edili, le officine. La catastrofe esplose quando il morbo attaccò il cuore dell’economia americana: la finanza, le grandi banche private, gli enti di credito pubblico, la Borsa. Quando queste istituzioni decisero di coprirsi esigendo, all’interno del paese e all’estero, il rimborso dei crediti, la crisi si allargò al mondo intero.

Nel generale rifugiarsi dei governi dietro le trincee del protezionismo, due sono gli avvenimenti di estrema importanza che vengono a derivare dalla crisi economica mondiale e che plasmeranno la storia futura. Il primo è l’occupazione nell’estate del 1931 della Manciuria da parte del Giappone. Se il capitalismo nipponico si decise al gran passo, pur sapendo di attirarsi addosso l’ostilità delle potenze anglosassoni, ciò accadde perché la crisi aveva preso alla gola il commercio estero giapponese restringendo i mercati di sbocco. Il secondo avvenimento fu l’ascesa al potere del regime nazista in Germania dovuto a due condizioni obiettive: la disperazione delle moltitudini che la paralisi delle industrie gettava nella miseria e nella fame, e il tradimento dello stalinismo internazionale che rifiutò di chiamare le masse operaie all’azione rivoluzionaria.

24. Una Germania a secco

La politica europea negli anni Venti e Trenta era dettata dalle grandi banche di Londra e di New York e l’ascesa al potere di Hitler fu appoggiata dai grandi cartelli tedeschi, che vedevano in lui una carta su cui puntare per difendere i loro profitti.

Per la Germania, che alla fine della guerra era stata spogliata di tutte le concessioni petrolifere, la necessità di produrre petrolio autonomamente diventava una questione di vita o di morte. Dipendere da altri per il petrolio col rischio di trovarsi sotto il ricatto di un embargo non poteva non turbare i sogni di chi aveva in mano le sorti del paese. Anche se era stato sottoscritto con l’Unione Sovietica un accordo segreto per la fornitura di petrolio, si cercavano altre fonti di energia.

Presto si puntò sulla tecnologia chimica per la produzione di carburanti sintetici, di cui un brevetto era di proprietà della IG Farben (International Gesellschaft Farben Industrie). Questo cartello era nato nel 1925 dalla fusione di sei industrie chimiche tedesche e l’operazione era andata in porto grazie all’intervento di capitali americani, in particolare della Standard Oil-Exxon. Quest’ultima acquistò i diritti del brevetto di idrogenazione del carbone fuori della Germania in cambio della cessione alla IG Farben del 2% del suo capitale, concordando un piano di collaborazione che andrà avanti fino al 1941 e che costerà alla Standard l’accusa di tradimento da parte del presidente Truman.

Ma, a parte la solita ipocrisia puritana, la reindustrializzazione tedesca, come già era accaduto durante la guerra mondiale, non sarebbe stata possibile senza l’aiuto delle grandi aziende statunitensi favorevoli, nonostante i nazisti, ai buoni affari. I due monopoli tedesco e americano creeranno una filiale comune negli Stati Uniti specializzata in ricerche petrolchimiche: il settore sviluppato dalla IG Farben, su brevetto americano, sarà quello della gomma sintetica, un prodotto importante per l’industria bellica. Hitler si era impegnato a sostenere il progetto di idrogenazione del carbone della IG Farben fin dal 1932 e divenuto cancelliere lanciò la motorizzazione e la costruzione della rete autostradale tedesca. Il regime nazista impegnò lo Stato nella costruzione delle strutture necessarie al progetto dell’autonomia energetica, dal cui raggiungimento sarebbero dipese le sorti del futuro ineluttabile conflitto.

La Germania aveva bisogno di piombo tetraetile per produrre benzina ad alto indice di ottano per far volare gli aerei e aumentare l’efficacia dei motori a terra. La Standard e la General Motors crearono la società Ethyl Gasoline Corporation per commercializzare questo prodotto di cui detenevano il brevetto (en passant: il piombo tetraetile nella benzina verrà proibito, a causa della sua tossicità, nel 1985 negli Usa e solo nel 2001 in Europa). Nel 1935 questa tecnologia fu trasferita in Germania dove furono costruite fabbriche apposite, che permetteranno ai tedeschi di produrre piombo tetraetile durante la guerra. Senza l’etile la Luftwaffe non avrebbe mai potuto decollare. Alla vigilia dell’invasione della Polonia, nel settembre 1939, erano in funzione nel territorio tedesco quattordici impianti di idrogenazione e altri sei erano in costruzione. Tra il 1937 e il 1938, per la sua importanza strategica, la IG Farben passò sotto il controllo dello Stato. Vantava quote di partecipazione in 380 altre industrie tedesche e in 500 imprese estere più oltre duemila accordi di cartello con la Standard Oil, con la Dupont de Nemours, con la General Motors, ecc. L’impero IG Farben possedeva proprie miniere di carbone, centrali elettriche, altiforni, banche, centri di ricerca, una propria rete commerciale. Oltre alla gomma e al petrolio sintetici, produceva gas mortali, tra cui il tristemente celebre Zyklon B. Inoltre, grazie al sistema di interdipendenza tecnica e finanziaria con l’industria americana, la IG Farben e il cartello dell’acciaio fabbricavano il 95% degli esplosivi tedeschi. I due grandi produttori di carri d’assalto tedeschi furono la Opel, di proprietà della General Motors (anch’essa controllata da una delle banche americane creditrici della Germania), e la Ford AG, succursale tedesca della fabbrica di Detroit (Henry Ford verrà decorato dai nazisti per i servizi resi alla Germania).

Ma, nonostante i grandi passi compiuti nella produzione dei carburanti sintetici, il petrolio era sempre in cima alle preoccupazioni di Hitler. Il 23 agosto 1939 la Germania sottoscrisse un piano di non aggressione con l’Urss: Mosca, oltre a mettere a disposizione le proprie fabbriche per la produzione di armamenti, nel biennio 1939-41 rifornì la Germania di 65 milioni di barili di petrolio, che andarono ad aggiungersi agli enormi stock già accumulati. Senza i rifornimenti russi e americani (questi ultimi arrivavano segretamente in Germania attraverso paesi “neutrali” quali la Svezia e la Spagna) i panzer tedeschi non avrebbero potuto invadere l’Europa.

Alla formulazione del concetto strategico di “guerra lampo” non fu sicuramente estranea la mancanza di produzione petrolifera interna. Si rendevano necessarie battaglie di breve durata, con l’uso concentrato di forze motorizzate e vittorie decisive prima che potessero sorgere problemi di carburante. All’inizio la strategia funzionò: nel 1939 con la Polonia e nel 1940 con l’invasione della Norvegia, dei Paesi Bassi e della Francia. L’aviazione tedesca rase al suolo gli impianti petroliferi del porto di Rotterdam e le installazioni francesi a nord della Loira, compresa la raffineria di Port Jerome, la più grande d’Europa. Molti impianti furono smantellati e trasportati in Germania, mentre il sequestro dei depositi di petrolio migliorò temporaneamente la situazione energetica tedesca.

Quali che fossero i piani strategici generali della Germania, la cui analisi esula dagli scopi di questo lavoro, per i tedeschi era di vitale importanza proiettarsi verso il petrolio dei paesi dell’Est e del Medio Oriente. In particolare il controllo dei giacimenti petroliferi del Caucaso, tra i più importanti al mondo, era una motivazione prioritaria non tanto per il mantenimento dello status quo, ma in vista di una lunga durata del conflitto e di un suo probabile imminente allargamento.

Il fatto che nel giugno 1940 Stalin avesse occupato gran parte della Romania nord-orientale e spinto le truppe a ridosso dei giacimenti petroliferi di Ploiesti, aveva allarmato non poco i borghesi tedeschi, dal momento che il petrolio rumeno copriva oltre la metà del loro fabbisogno. Il 22 gennaio 1941 Hitler, nonostante il patto di amicizia stretto con Stalin, iniziò la preparazione della invasione della Russia. Il piano prevedeva un attacco a tenaglia per impadronirsi contemporaneamente del petrolio del Caucaso e di quello del Medio Oriente: una prima offensiva si sarebbe dispiegata sull’asse Rostov-Stalingrado-Baku, mentre l’Afrikakorp guidato da Rommel, partendo dalla Libia, avrebbe invaso l’Egitto e attraverso la Palestina, l’Iraq e l’Iran si sarebbe ricongiunto alle truppe tedesche che combattevano nel Caucaso. In questo modo, l’Inghilterra sarebbe stata tagliata fuori dai rifornimenti di petrolio.

I tedeschi pensavano che sarebbe stata una ripetizione delle altre offensive-lampo già viste in Europa. Ma non sarà così. L’attacco alla Russia ebbe inizio il 22 giugno 1941, il giorno prima dell’anniversario dell’inizio dell’invasione napoleonica del 1812. Il passo si dimostrerà altrettanto fatale per Hitler quanto lo era stato per il celebre predecessore, anche se la fine non sarà altrettanto rapida: Napoleone si ritirò dalla Russia prima della fine dell’anno, Hitler resistette fino all’inizio del 1943, quando le truppe tedesche furono costrette a ritirarsi dal Caucaso e l’armata di Von Paulus, ridotta allo stremo, si arrese a Stalingrado. Un’altra disfatta, altrettanto decisiva, i tedeschi la subirono in Africa settentrionale, al confine tra la Libia e l’Egitto. L’andamento della guerra dipendeva ormai dalle forze meccanizzate, e per l’esercito germanico, sconfitto ad El Alamein, fu drammaticamente determinante la penuria di petrolio.

25. Iran crocevia dello scontro tra imperialismi

Già prima della guerra, l’Iran si era aperto all’influenza tedesca: Reza Pahlevi la migliorò per emancipare il paese dal dominio economico e politico dei russi e soprattutto degli inglesi. La quota della Germania nel commercio estero iraniano era passata dall’8% nel 1932 al 45% nel 1941. Imprese tedesche avevano costruito ferrovie e fabbriche, comprese quelle di armamenti, e l’80% del macchinario importato proveniva dalla Germania. Più di tremila tedeschi risiedevano in Iran con una quinta colonna molto attiva. Gli inglesi temevano per le loro linee di comunicazione e per lo sfruttamento petrolifero dell’Anglo-Persian. Il problema di assicurare la sicurezza delle vie di accesso si acuì per gli alleati dopo l’attacco della Germania alla Russia, perché per l’Iran passavano i rifornimenti all’armata rossa nel Caucaso.

Nell’agosto del 1941 i governi russo e inglese, di comune accordo, reclamarono dallo Scià l’espulsione dei tedeschi. Al suo rifiuto, motivato dalla neutralità dell’Iran, entrarono nel paese affermando, con notevole spudoratezza, di non voler attentare alla sua integrità territoriale né indipendenza. Inglesi e russi pretesero dal governo facilitazioni per il trasporto del materiale bellico attraverso il paese e la consegna dei cittadini tedeschi alle autorità militari alleate. Reza Scià pensava di poter mantenere il trono, a dispetto dei suoi sentimenti filo-tedeschi, ingannato in questo dalla risposta amichevole di Roosevelt a cui aveva chiesto i buoni uffici nei negoziati tra l’Iran e gli occupanti. Ma il 16 settembre, in seguito a una violenta propaganda inglese e russa diretta contro di lui, fu costretto ad abdicare in favore del figlio. L’indomani stesso le truppe britanniche e russe entrarono a Teheran. L’ex sovrano fu deportato prima nelle isole Mauritius e poi in Sudafrica, dove morirà tre anni dopo.

Il nuovo governo accettò, obtorto collo, di divenire alleato delle potenze occupanti e fu costretto a barcamenarsi di fronte alla nuova situazione di sovranità limitata, in cui il ruolo delle sue truppe sarebbe stato “limitato al mantenimento della sicurezza interna” (accordo del 29 gennaio 1942). Nel settembre 1943 lo Scià dovette umiliarsi fino a dichiarare, sebbene solo nominalmente, guerra alla Germania. Nel novembre 1943 i “tre Grandi”, Churchill, Roosevelt e Stalin, scelsero proprio Teheran come sede del loro primo incontro, nel corso del quale ribadirono l’impegno dell’assistenza all’Iran contro il nemico comune e riaffermarono il desiderio di mantenere l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale del paese. Ma ben presto il problema del petrolio farà venire a galla gli interessi contrastanti delle grandi potenze, perché la geografia collocava l’Iran all’incrocio delle loro zone d’influenza.

da http://www.international-communist-party.org/

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