Politica monetaria ed energetica, l’Europa è al bivio

di Demostenes Floros, tratto da Limes
Davvero a Bruxelles conviene copiare il Quantitative easing e seguire le indicazioni degli Usa su South Stream? È lecito coltivare qualche dubbio.

A giugno, il prezzo del petrolio Brent è aumentato di 4.5 dollari al barile ($/b, massimo 115 $/b in data 19 giugno), mentre quello del Wti è cresciuto di 5$/b (toccando i 106.8 $/b il 25 giugno).

Ciò sulla scia della guerra nel nord dell’Iraq – si stima comunque che il 70% circa della produzione nazionale, 3.5 milioni di barili al giorno [b/d], venga estratto dalle parti di Bassora, nel sud del paese – e delle continue interruzioni dell’offerta di greggio in Libia, passata da 1.6 mln b/d sotto Gheddafi agli attuali 270 mila b/d.

Lo Stato più colpito da questa situazione pare essere la Cina, che ad oggi è il principale investitore straniero nel settore petrolifero iracheno: Pechino infatti acquista poco più della metà della produzione totale di Baghdad e l’Iraq è il 5° fornitore della Cina.

Nel frattempo, l’euro si è mantenuto attorno a quota 1,36 sul dollaro, quindi senza dar seguito a quel deprezzamento tanto auspicato nell’Uem dopo le opzioni espansive annunciate il 5 giugno dalla Banca Centrale Europea. Francoforte ha modificato la propria struttura trilaterale dei tassi di interesse* e ha preannunciato l’acquisto di titoli Abs (Asset backed securities): il saggio di rifinanziamento principale è stato portato dallo 0,25% allo 0,15%, i depositi overnight dallo 0% al -0,1% (scelta mai adottata prima) e il tasso marginale di riferimento è calato dallo 0,75% allo 0,4%.

 La Bce ha accompagnato tali misure con la sterilizzazione dei titoli del piano 2010 Smp (Securities markets programme), che consisteva nell’acquisto di titoli di debito pubblico sul mercato secondario soprattutto a sostegno dei paesi periferici dell’Eurozona. Francoforte ha immesso nuova liquidità nel sistema per un ammontare pari a circa 170 mld di euro, cessando la vendita di titoli parallelamente e in misura equivalente all’ammontare dei titoli di Stato acquistati, onde diminuire lo spread tra i membri dell’Eurozona. 

La Bce è forse prossima al varo di un proprio piano di Quantitative easing sulla scia delle Banche centrali statunitense, giapponese e inglese, con l’obiettivo di riportare l’inflazione al 2% e scongiurare la deflazione nella zona euro? Se così fosse, quali sono stati, sino ad oggi, gli effetti delle politiche monetarie ultraespansive adottate dalle Banche centrali occidentali?

Negli Usa, dove la Fed ha mantenuto inalterati i tassi (18 giugno) e ridotto di ulteriori 10 miliardi di dollari la quantità di Treasury e Mortgage bonds acquistati (tapering), passando da 85 a 35 miliardi di dollari al mese, abbiamo assistito a un’ulteriore redistribuzione del reddito nella direzione della diseguaglianza. Il tasso di disoccupazione al 6,1% appare poco rappresentativo della situazione reale del mercato del lavoro (pil tendenziale del 1° trimestre 2014: -2,9%). 

In Giappone, dove il principale creditore della Stato è la Bank of Japan (20,1% del totale dei Japan government bonds, Jgb) e il debito è pari al 230% del pil (il 3° pil al mondo, circa 6 mila miliardi di dollari), i tentativi di svalutare lo yen per favorire le esportazioni hanno determinato un record negativo della bilancia commerciale (nel 2013: -10.860 mld di yen) con ripercussioni sul surplus delle partite correnti. A Londra, la bolla del mercato immobiliare rischia di scoppiare da un momento all’altro. 

La Bce è così certa di voler seguire – nella sostanza – questa strada? Oltre a ciò, l’Ue ritiene che si possa uscire dalla crisi facendo leva quasi esclusivamente sulla politica monetaria oltre che sull’ossimoro dell’“austerità espansiva”, oggi divenuta “precarietà espansiva”? Secondo il Telegraph sembrerebbe di no, visto che “lo stesso Qe potrebbe essere la causa della deflazione” (Keiser Report, Episode 613, 50’’).

L’8 giugno, il primo ministro della Bulgaria, Plamen Orecharski, dopo aver incontrato diversi rappresentanti americani (i senatori John McCain, Chris Murphy e Ron Johnson), ha “ordinato di fermare i lavori” del tratto bulgaro del gasdotto South Stream, la pipeline volta a trasportare gas naturale in Europa bypassando l’Ucraina, ufficialmente a causa di una procedura d’infrazione aperta da Bruxelles. 

Precedentemente, nell’ambito delle sanzioni imposte da Washington a Mosca a causa della crisi ucraina, l’ambasciatrice Usa a Sofia, Marcie Ries, aveva dichiarato: “Invitiamo gli uomini d’affari bulgari a evitare di lavorare con società soggette a sanzioni da parte degli Usa”. A ciò bisognerebbe aggiungere le pressioni fatte dagli Stati Uniti nei confronti della Slovenia. 

Intanto la Rada, il parlamento dell’Ucraina, sta discutendo un progetto di legge in merito alla concessione della rete dei gasdotti ucraini a una joint venture partecipata per il 49% da società straniere. “Se gli europei si uniscono all’impresa, la Russia non costruirà South Stream”, il commento del premier ucraino Arseniy Yatsenyuk, in aperta contraddizione con il nostro ministro dello Sviluppo, Federica Guidi, secondo la quale “South Stream resta un’opera strategica, un progetto interessante che auspichiamo possa riprendere con vigore nel rispetto delle norme europee”. 

Le parole di Guidi appaiono in continuità con quanto accaduto in Austria, visto l’accordo sancito (24 giugno) tra Gazprom e OMV per la realizzazione della sezione austriaca di South Stream, dall’Ungheria fino allo snodo di Baumgarter.

Che si tratti di politica monetaria o di energia, l’Unione europea è a un bivio. Onde superarlo – in piena autonomia – ci permettiamo di suggerirle di leggere con attenzione la lettera sulla sicurezza in e dell’Europa inviata dal sig. Jochen Scholz, tenente colonnello a riposo dell’Aviazione tedesca, al presidente russo Vladimir Putin lo scorso 28 marzo. 

Dopo tutto, anche l’ex segretario della Difesa Usa Robert Gates, in merito all’espansione a est della NATO, ha affermato che è stato un errore che “ha indebolito gli obiettivi dell’alleanza, e irresponsabilmente ignorato, quello che i russi credevano essere i loro interessi nazionali” (minuto 9’:49’’).

* Per la struttura trilaterale dei tassi d’interesse, cfr. la nota 1 di questo articolo.

Demostenes Floros è un analista geopolitico ed economico. Insegna presso il Master di 1° Livello in “Relazioni Internazionali di impresa: Italia-Russia” (Modulo: Energia) dell’Università di Bologna”.

(3/07/2014)

Facebook

YouTube