Risposta alla domanda: che cos’è l’autonomia? La Convivialità di Ivan Illich, parte prima

Introduzione

L’autonomia è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi delle proprie capacità senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di capacità, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi delle proprie forze senza esser guidati da un altro. Do it yourself! Fallo con le tue mani – è dunque il motto dell’autonomia.

Chi, leggendo questo incipit, avesse una sensazione di de ja vu, non si sbaglia. Sono le parole con cui Kant inizia il suo saggio Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, con la sostituzione di poche parole, fra cui quella di cui si dà la definizione, e dello slogan latino Sapere aude! con uno in lingua inglese di ispirazione punk.

In questo articolo parleremo del libro di Ivan Illich La convivialità, uscito nel 1973 (in Italia è pubblicato dal 2005 da Red!). L’intento è quello di provare spostare l’asse dei riferimenti culturali di chi si rifà nella politica antagonista, l’unica che a noi interessa, al concetto di autonomia, verso discussioni più interessanti di quelle che circolano oggi.

A chi sembra strano il nostro riferimento iniziale a Kant, rispondo che si tratta forse del primo pensatore ad aver messo al centro della propria riflessione il tema dell’autonomia. E non solo nel senso della ben nota autonomia della ragione di cui va in cerca nella sue celeberrime Critiche. C’è quantomeno l’abbozzo di una concezione dell’autonomia in senso politico.

Per rendersene conto basta continuare a leggere le prime pagine del saggio a cui abbiamo rubato l’incipit:

La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo affrancati dall’etero-direzione (naturaliter maiorennes), tuttavia rimangono volentieri minorenni per l’intera vita e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. È tanto comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero per me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno dì pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione. (Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, pag. 2 del pdf scaricabile qui)

Il riferimento al medico è particolarmente interessante e ci permette di entrare immediatamente nel vivo del libro di Illich. Sono convinto che anche la maggior parte di coloro che oggi portano avanti lotte anticapitaliste, benché potrebbero trovarsi d’accordo sui libri e sui direttori spirituali, potrebbero avere qualche perplessità circa i medici.

Siamo abituati a credere che la medicina sia una disciplina tecnica, scientifica, e che quindi bisogna per forza di cose fare appello agli specialisti; in fondo c’è di mezzo la cosa più importante di tutte, ovvero la salute. È proprio questo ragionamento che Illich contesta, è proprio questo modo di pensare che ci dà la cifra del nostro assoggettamento e la nostra mancanza di autonomia.

In una prossima recensione ci occuperemo più diffusamente del tema della salute; lo stesso Illich vi ha dedicato un intero libro dal titolo eloquente: Nemesi medica. La mole bibliografica a cui fa riferimento quest’ultimo libro è impressionante e dimostra il processo di iatrogenesi delle malattie, ovvero quelle prodotte dalla illimitata espansione del sistema sanitario.

Per adesso basti questo esempio tratto da La convivialità:

Conosco una ragazza nera di 17 anni che di recente è stata processata, negli Stati Uniti, per aver curato 130 compagni di scuola affetti da sifilide primaria. Un dettaglio di ordine tecnico, fatto notare da un esperto, è valso a lei il proscioglimento e ha risparmiato all’Ordine dei medici un penoso imbarazzo: i risultati ottenuti dall’accusata erano statisticamente migliori di quelli del Servizio sanitario americano. […] Il progresso nell’efficacia di solito dipende da una maggiore indipendenza, non da un crescente controllo centrale. (pag. 59)

Ora invece ci concentreremo sulla questione generale, di cui la iatrogenesi è solo un caso particolare. Il ragionamento di fondo è il seguente: un eccesso di organizzazione burocratica e industriale, in qualsiasi campo, sia esso la salute, l’educazione o i trasporti, cessa prima di essere realmente utile per poi trasformarsi in un vero e proprio pericolo per l’umanità. Il pericolo è quello della perdita dell’autonomia e della capitalazione di ciò che ci rende umani, la capacità di scelta.

1. la minaccia all’autonomia umana: monopolio radicale, superprogrammazione e polarizzazione

La convivialità viene definito un testo di ecologia politica. Ciò significa che la questione ecologica in senso stretto, la minaccia che l’uomo distrugga una volta per tutte il proprio ambiente naturale e si condanni all’estinzione, è solo una parte del problema, anzi, è solo la punta dell’iceberg.

Infatti si potrebbe pensare che con maggiori controlli, con una maggiore razionalizzazione della produzione industriale, con una maggiore efficienza del sistema, potremmo risolvere il problema. Illich si oppone a questo genere di soluzioni, che definisce senza mezzi termini una apocalisse tecnocratica, nella quale l’uomo, benché continuerebbe a sopravvivere, si dissolverebbe, ovvero scomparirebbe la sua umanità, ciò che lo rende un uomo, ovvero la sua capacità di autodeterminarsi, la sua autonomia.

Il problema a monte è la società industriale, ovvero l’organizzazione industriale del dominio, e il modo in cui distrugge l’autonomia umana attraverso quello che Illich chiama il monopolio radicale.

Il monopolio commerciale è il predominio di una certa azienda su un’altra nella fornitura di un certo prodotto; ma entrambe le aziende saranno d’accordo sul fatto che la gente debba in generale sentire il bisogno di consumare tale prodotto. Quando tale prodotto sostituisce obbligatoriamente una attività che l’uomo può svolgere da solo, ecco che abbiamo il monopolio radicale. Esso arriva “…quando l’ambiente sociale viene trasformato in modo tale che i bisogni più elementari non possono più trovare la loro risposta fuori commercio.” (pag. 79)

Il monopolio radicale rompe una delle cinque dimensioni dell’equilibrio umano che Illich individua come neccessarie alla sua sopravvivenza nella libertà, e precisamente la dimensione dell’autonomia. In ciascuna di queste dimensioni violare l’equilibrio significa superare quella soglia aldilà della quale l’organizzazione sociale da utile si fa dannosa (un’altra delle dimensioni è quella strettamente ecologica che abbiamo indicato sopra). “L’espansione industriale che impone il consumo obbligatorio ha un limite nel bisogno umano di iniziativa autonoma.” (pag. 80)

Il monopolio radicale si esprime anche in due formulazioni particolarmente efficaci: la prima dice che il monopolio dell’industria sulle altre forme di produzione fornisce sempre più cose utili agli inutili. L’altra, ed è centrale, riguarda il concetto di strumento: nella attuale società industriale gli strumenti, più che aiutare gli uomini, tendono a sostituirli.

Esso fornisce all’uomo una quantità di beni preconfezionati che nella misura in cui lo alimentano, lo imprigionano. Come dicevano Horkeimer e Adorno, “[m]entre il singolo sparisce davanti all’apparato che serve, è rifornito da esso meglio di quanto non sia mai stato. Nello stato ingiusto l’impotenza e la dirigibilità della massa cresce con la quantità dei beni che le viene assegnata.” (Dialettica dell’illuminismo, Einaudi 1997, pag. 6-7)

Questa continua fornitura di beni e servizi, vanto dell’occidente industrializzato (e del Giappone), e invidia di tutti i paesi che non ce l’hanno e che cercano freneticamente di raggiungere, è precisamente ciò che dissolve l’uomo. “Annegare l’uomo nel benessere significa incatenarlo al monopolio radicale. […] Invischiato nella sua infelicità climatizzata, l’uomo è castrato: gli resta solo la rabbia, che lo porta a uccidere oppure a uccidersi.” (pag. 87)

Va fatta però una precisazione sul significato della parola industria: Illich la usa per definire la società che ha preso forma nella rivoluzione industriale e si è imposta a partire dal XIX secolo; quindi intende l’industria in senso moderno, non nel senso allargato utilizzato in una certa tradizione marxista (ad esempio la rivista n+1 in questo articolo). Fra le più importanti fonti di Illich c’è Lewis Mumford, che nel suo libro Il mito della macchina (pubblicato in Italia in due volumi, il secondo dei quali si intitola Il pentagono del potere) contesta attraverso la sua ricostruzione del paleolitico l’idea che l’homo sapiens sia stato sin dall’inizio un homo faber, un uomo fabbricante. La questione è spinosa e si situa in un campo come quello della paleontologia dove i dati sono pochi e le congetture fanno il resto. Prendere posizione su questo dibattito esula dagli scopi di questa recensione.

Bisogna però osservare che l’idea di molta tradizione marxista, che la tecnologia industriale, spogliata dalle sue dinamiche capitalistiche (dalla legge del valore), possa portare l’uomo ad un nuovo livello di civiltà, dev’essere profondamente rivista alla luce delle riflessioni che stiamo svolgendo analizzando il testo di Illich. E interpretare l’uomo come “industriale” fin dai primordi sembra una forzatura che oscura il problema e va nella direzione sbagliata. D’altra parte l’autore che stiamo considerando non è un primitivista o un luddista: la sua proposta di una società conviviale, che prenderemo in considerazione alla fine di questo articolo, non è un ritorno al passato, ad una società preindustriale, ma un salto in avanti verso un mondo postindustriale che conservi quanto di buono la modernità ha prodotto. Lo dichiara apertamente a pagina 29:

Ribaltare l’istituzione produttiva del 1975 non ha nulla a che fare con le proposte di J.J. Rousseau o di N. Ludd. Per effetto dell’inversione radicale di cui parliamo, la scienza e la tecnologia moderne non saranno annientate ma conferiranno all’attività umana un’efficacia senza precedenti. Da questa inversione l’industria e la burocrazia non saranno distrutte, ma eliminate nella misura in cui ostacolano l’autonomia [...].

Tornando alla questione delle cinque dimensioni dell’equilibrio, la terza che Illich prende in cosiderazione riguarda l’equilibrio del sapere. Esso è determinato da due variabili, due generi differenti di sapere: “Il primo tipo di sapere è l’effetto dei nodi di relazioni che si stabiliscono spontaneamente tra le persone, nell’impiego di strumenti conviviali. Il secondo sapere discende da un atteggiamento intenzionale e programmato. L’apprendimento della lingua materna rientra nella prima categoria, l’ingestione della matematica a scuola appartiene alla seconda.” (pag. 83)

Nella società industriale il secondo tipo di sapere prevale sul primo, distruggendo entrambi, e con essi l’intenzionalità umana, la capacità generica di capirci qualcosa del mondo. Illich chiama tale processo superprogrammazione, ed ha a che fare con la specializzazione e la polverizzazione dei saperi tecnici da una parte, e la divisione del lavoro dall’altra: “[...] la specializzazione dello strumento e la divisione del lavoro si incrementano reciprocamente e, al di là di un certo punto, richiedono una sovraprogrammazione tanto dell’operatore quanto del clente. Da questo momento, la maggior parte del sapere di ognuno è effetto del volere e del potere altrui.” (pag. 84)

Il cittadino dei paesi sviluppati è cosi in balia di dinamiche che non conosce, di cui non comprende il funzionamento, che lo irrorano di servizi confortevoli ma che lo privano della capacità di apprendere e di vivere in autonomia. “L’uomo di città è sempre meno in grado di farsi tanto le sue cose quanto le sue idee. Far da mangiare, far la corte o fare l’amore, tutto diventa materia di insegnamento. […] l’equilibrio del sapere si disgrega. Sappiamo ciò che ci è stato insegnato, ma non impariamo più da noi stessi. Sentiamo di aver bisogno di essere educati.” (pag. 85)

Qui entra in gioco un altro bersaglio polemico di Illich, quello dell’educazione scolastica, da lui trattato diffusamente in Descolarizzare la società. Il principale scopo dell’educazione e dei suoi vari livelli è quello di produrre soggetti addomesticati all’industria: “Gli intossicati di educazione sono buoni consumatori e buoni utenti. Vedono la loro crescita personale sotto forma di una accumulazione di beni e servizi prodotti dall’industria. Anziché fare le cose da se stessi, preferiscono riceverle bell’e pronte dall’istituzione.” (pag. 94)

A ciò si lega un tema che conosciamo fin tropo bene, quello dei tecnici e degli esperti: la superprogrammazione, privando l’uomo della sua capacità di comprensione, lo lascia in balia di chi “sa” le cose come stanno e di saperi “iniziatici” di cui non capisce nulla. Illich parla di idolatria della scienza.

Questo sapere obiettivo è considerato come un bene che può essere accumulato […] la più preziosa delle materie prime, l’elemento base del cosidetto decision making, di quella presa di decisione che a sua volta è concepita come un processo impersonale e tecnico. Sotto il nuovo regno del calcolatore […] il cittadino abdica a ogni potere in favore dell’esperto, unico competente. (pag.115)

In Italia ne abbiamo avuti abbastanza di governi tecnici per comprendere l’elemento squisitamente politico di questo argomento. Ciò ci porta alla quarta dimensione dell’equilibrio, quello del potere. In un certo senso è quello più banale e facile da capire. In questo caso la rottura dell’equilibrio porta alla polarizzazione, che potremmo definire anche come verticalizzazione dei processi decisionali.

La polarizzazione porta ad una distanza sempre maggiore fra chi ha più e chi ha meno, ma anche paradossalmente, ad una sempre maggiore vicinanza, poiché ad accomunarli è l’impotenza di fronte alla megamacchina industriale.

I sottoprivilegiati crescono di numero, mentre i privilegiati consumano sempre di più. Di conseguenza tra i più poveri aumenta la fame e tra i ricchi la paura. Guidato dal bisogno e dal sentimento di impotenza, il povero reclama un’industrializzazione accelerata; spinto dalla paura e dal desiderio di proteggere il suo stare meglio, il ricco si impegna in una difesa sempre più rabbiosa e rigida. Mentre il potere si polarizza, l’insoddisfazione si generalizza. La possibilità che pur ci è data di creare per tutti maggiore felicità con meno abbondanza, è relegata al punto cieco della visione sociale. […] Entrambi pagano sempre più caro un crescente essere meno.” (pagg. 94-95)

Qui è contenuto l’argomento chiave di tutta la proposta conviviale di Illich: il segreto per una vera giustizia sociale, per l’autonomia e, vedremo, l’eventuale realizzazione del socialismo, non è produrre di più, ma di meno. Ed è la lezione più difficile da assimilare di tutto il libro.

Per le classi sublterne, per chi ha di meno, può sembrare assurdo che la soluzione sia questa. Eppure ciò discende dagli argomenti precedenti: le diverse dimensioni dell’equilibrio si tengono l’un l’altra, così come i fattori che le destabilizzano. Il monopolio radicale dell’industria non può funzionare senza la superprogrammazione e la polarizzazione, ossia una fortissima centralizzazione delle decisioni e delle conoscenze. Nessuna trasformazione sociale che non spezzi questo meccanismo merita di essere definita rivoluzionaria. “Cambiare il gruppo dirigente non è una rivoluzione.” (pag. 99)

Così Illich è portato ad una dura critica della maggior parte dell’attivismo a lui contemporaneo, e siamo negli anni ’70, anni che, almeno in occidente, hanno visto le più grosse contestazioni all’ordine sociale esistente dal dopoguerra. Il suo bersaglio polemico principale è l’attivismo negli Stati Uniti, che potremmo definire un attivismo delle minoranze.

Di passaggio osservo che è strano parlare di minoranze quando si parla dei neri negli USA o delle donne, insiemi sociali che comprendono ben più di un piccolo sottoinsieme della popolazione complessiva come il termine sembra suggerire. Più che di una minoranza numerica si potrebbe pensare si tratti di una minorità come quella di cui parla Kant nel suo saggio sull’Illuminismo. Ma allora chiamarle minoranze è esso stesso uno strumento di segregazione nello stato di minorità. Tuttavia non voglio farne una colpa ad Illich, in questo caso si adegua all’uso linguistico per farsi capire. Sulle lotte di queste minoranze parla chiaro:

Cantano vittoria quando ottengono il riconoscimento del principio ‘a lavoro uguale, uguale salario’. Di qui il paradosso: da una parte questi movimenti rafforzano la credenza che i bisogni di una società ugualitaria non possano essere soddisfatti senza passare per un lavoro specializzato e una gerarchia burocratizzata; dall’altra accumulano favolosi quanta di frustrazione che la minima scintilla farà esplodere. […] le minoranze organizzate reclamano il diritto all’avere, così sostenendo lo status quo. (pag. 98)

Continua in Risposta alla domanda: che cos’è l’autonomia? La Convivialità di Ivan Illich, parte seconda

Leggi anche:

Podolinskij e Marx, una traccia teorica perduta?

Avviato il presidio contadino a Cuculia per far rinascere Mondeggi

A proposito dei test Invalsi

Il primato dei beni non esclusivi come chiave dello sviluppo umano pleromatico

La bolla scientifica e tecnologica

Politiche industriali di sinistra o lotta di classe?

La produzione peer to peer come alternativa al capitalismo

La classe non è acqua. Un’antologia sulla categoria di classe in Marx

ALLE ORIGINI DELLA CRISI: ovvero dell’insostenibilità del capitalismo

La forza delle mediazioni e il bisogno di organizzazione

Lo spazio-tempo capitalistico e il suo sviluppo tendenziale

La classe “fuzzy” del 99%

Facebook

YouTube