Firenze: dopo i racconti di uno Stradivari del 1704… uno spettro si aggira per la Leopolda

Un direttore russo che in omaggio al proprio paese sceglie tre compositori compatrioti: l’Overture de Il Principe Igor di Borodin, il Concerto per violino e orchestra di Tchaikovsky, la Sinfonia n. 10 di Shostakovich. Quando scopri che l’orchestra del Maggio ha in programma un concerto come quello di giovedì scorso puoi solo correre a comprare il biglietto: sguaino la mia Maggio Card, e a metà del prezzo prendo un biglietto da signori, in platea.

La struttura tanto criticata del nuovo teatro non è poi così male, e con la platea in discesa si vedono anche gli orchestrali, cosa impossibile nel vecchio teatro comunale, della cui atmosfera si ha comunque nostalgia. Certo è che i concerti di musica classica attirano tutta una categoria di fiorentini non-troppo-giovani difficili da sopportare. Appena entrato in sala un commento sulla mancanza di eleganza nell’abbigliamento non me lo leva nessuno: “Certo che con i suonatori vestiti così bene… È proprio mancanza di rispetto” borbotta la sessantenne alle mie spalle, forse, chissà, alludendo alla mia maglietta, unica nota di colore tra le giacche e le cravatte che mi circondano. Fatto sta che la suddetta non ce la fa proprio a chetarsi quando inizia il concerto e le prime note di Borodin sono accompagnate dagli ultimi importantissimi discorsi sui nipoti che vanno a scuola.


Aleksandr Porfir’evič Borodin, Ouverture da Il principe Igor’
Pëtr Il’ič Čajkovskij, Concerto in re maggiore op. 35 per violino e orchestra
(qui lo spartito https://www.mediafire.com/?dbd0gjbdnbpjaqu )

L’Overture è breve e intensa, in alcuni momenti ricorda una colonna sonora da film western. L’orchestra è in forma e l’esecuzione preannuncia un concerto esaltante. Il carismatico direttore, Alexander Sladkovski, dall’impeto che esprime sembra a tratti generare lui stesso il suono.
Arriva il momento del solista Julian Rachlin, e il pubblico è sulle spine. Il Concerto, un po’ inflazionato per la sua stessa fama dalle tante esecuzioni, crea grandi aspettative nell’uditorio.
Le conferme non tardano ad arrivare. Complici l’ottima acustica e lo Stradivari del 1704, il primo movimento lascia tutti senza fiato, riuscendo anche a strappare un applauso prima dell’inizio del secondo. Il violinista sfodera un’interpretazione molto personale sfruttando tutte le potenzialità di uno spartito che mette in risalto le abilità da virtuoso.
Alla fine un bis non basta e quindi ne regala due al pubblico che non smette di applaudire.
Anche la sessantenne stizzita per la mia mancanza di rispetto è soddisfatta e commenta che i corni inglesi hanno fatto veramente un bel lavoro. Forse non sospetta che l’aggettivo “inglese” non indichi il paese di fabbricazione ma un determinato strumento di cui non c’era traccia nell’organico del concerto. Anche lei, volendoci ridere su, è stata una bella attrazione per la serata. L’orchestra prende fiato con l’intervallo dopo più di un quarto d’ora di applausi, ma il pezzo forte deve ancora arrivare, e si merita una più estesa recensione.


Dimitri Shostakovic, Sinfonia n. 10 op. 93 in Mi minore
(qui lo spartito in pdf: https://www.mediafire.com/?veo174382vsffh1)

I movimento. Moderato

Una folata di vento siberiano entra nel Teatro. Le prime sei note evocano subito il glaciale terrore del regime, ma di un regime che fu: il tono dell’esecuzione dell’orchestra del Maggio Fiorentino, infatti, si fa immediatamante narrativo. Se, all’epoca, la storica esecuzione di Mravinskij ci trasportava in quei luoghi, in quell’epoca, oggi la scelta di Sladkovsky si fa carico della responsabilità propria di un narratore dei giorni nostri, e riesce ad evocare tutta l’oscurità delle immagini, dei suoni, e delle sensazioni di quei tempi.
Le scelte interpretative sono sobrie e misurate, puntuali ed efficaci. Le tre f e le potenti dinamiche della parte centrale non vengono mai esplose come nell’esecuzione di Mravinskij: vengono inquadrate sempre nel tono della narrazione e lasciate sedimentare nell’inconscio dell’ascoltatore seguendo una lettura più simile semmai a quella di von Karajan.
La tensione narrativa sul finire del movimento si allenta, il racconto si fa più riflessivo e meno dettagliato; l’esecuzione procede senza rimarcabili variazioni di ritmo.

II movimento. Allegro

L’andamento marziale è da subito incalzante, l’esecuzione è basata più sull’intensità espressiva che sulla precisione e la mera potenza. La sensazione è quella di essere spinti e ad un tempo sostenuti verso l’inevitabile. L’interpretazione dei rari chiaro scuri lascia poco all’immaginazione, gli sfffz piombano implacabili, il rapporto che si crea tra percussioni e orchestra assomiglia alla relazione di causa effetto tra i fulmini e i tuoni.
Il finale è magistrale, una rampa di lancio capace di inviare il teatro nello spazio, in un tempo sospeso tra la fine di un incubo e lo scioccante risveglio.

III movimento. Allegretto

L’esecuzione si fa pacata, rassicurante, concedendosi solo di raro qualche inflessione di tempo, e allusioni a altro. Il flauto il piccolo e l’oboe fischiettano tra di loro, come se nulla fosse, quella melodia di quattro note, quello spiraglio di luce che si insinua nella tetra narrazione, dopo il folle orrore del secondo movimento. E’ il famoso “motivo autobiografico”, re, mi bemolle, do, si, che nella notazione musicale tedesca è D-Es-C-H quindi leggendo Es (mi bemolle) “S”, è D-S-C-H, come in Dmitri Schostakowitsch. I musicisti del Maggio riescono a isolare bene questo motivo e a renderlo chiaro all’orecchio del pubblico.

IV movimento. Andante

L’interpretazione è abbastanza filologica: l’aria di quiete dopo la tempesta, la necessità di un bilancio razionale, dopo la furia del secondo movimento ed il sussulto ribelle del terzo, si fa largo nella coscienza tanto dei musicisti che del pubblico, che mai come adesso formano una cosa sola. Le parti veloci degli archi scorrono con tranquillità, i musicisti concedono perfino qualcosa alla frivolezza. Nell’ultima parte l’interpretazione si fa forse un po’ pesante, insistente, ma ciò non toglie nulla al valore dell’esecuzione in generale.

(verso un…) V movimento. Il movimento reale

“Che effetto mi farà andare a sentire la Sinfonia del ritratto di Stalin nel 2014?” mi chiedevo venendo a teatro. Mi vengono in mente alcune riflessioni.
Chissà “caro Moro”, come ti chiamava sempre Engels, cosa avresti pensato oggi ricordando cosa scrivevi a Vera Zasulic nel 1892 circa quella preziosa tradizione delle comuni agricole russe, la tua amata obščina, ignorata, assassinata, polverizzata. Quel “populismo” sano che emerge dalla vostra corrispondenza, le tue speranze, fondate sull’analisi della composizione sociale russa, circa la possibilità che le comuni russe arcaiche potessero approdare direttamente al socialismo grazie ad una rivoluzione internazionale “senza passare per le forche caudine del capitalismo” non hanno avuto seguito. Cosa avresti pensato dello squallore ucraino? di quel rivendicarsi da tutte le parti un “popolo” che non esiste più, e che è solo un contenitore verbale dell’antagonismo, in Russia, in Ucraina come ovunque, della divisioni in classi?

Mi piacerebbe averti riservato un posto qui a teatro per farti ascoltare la Sinfonia di Shostakovic. “Caro Moro”, sai quante grasse risate ci faremo insieme a Engels e a Dimitri, guardando questi grigi seguaci di un partito italiano che fu, passati dai quadri di Baffone ai selfie di Renzie, dal tuo bistrattato “Proletari di tutto il mondo unitevi!” a giustificare i licenziamenti di Farinetti. Stasera alcuni di loro sono sicuramente qui a sganzarsela perché si ascoltano Shostakovic nel nuovo Teatro di Firenze, inaugurato dal loro nuovo scaltrissimo parroco-leadermaximo; facendo finta di non aver sbagliato, facendo finta che quel muro che la storia ha preso a spallate nel 1989 non gli sia mai cascato in testa. Guarda là, qualcuno dandosi un contegno si spolvera ancora gli spallini per togliere gli ultimi calcinacci!

Ci saremmo fatti delle belle risate… amare! o forse no, semplicemente sarcastiche, come sarcastico è il tono che hai sempre usato nei tuoi scritti! Del resto come ci suggerisce Lenin (anche se lui per primo spesso se ne dimenticò) “l’ironia e la pazienza sono le principali qualità del rivoluzionario”.

L’auspicio di Shostakovic, il suo grido di rabbia affidato a quelle quattro note che si vogliono ribellare al grigiore dell’arte del capitalismo di stato ha avuto la meglio. L’opera di un singolo, come sempre, è un risultato collettivo, è un prodotto del cervello sociale del quale il singolo è semplicemente portavoce: il motivo musicale scelto da Shostakovic era “autobiografico” solo nella forma, ma esprimeva, nel suo contenuto sociale, una chiara tendenza storica. Il movimento reale, infatti, ha continuato incessante il suo cammino; lo sviluppo delle forze produttive asiatiche ha reso obsoleta la divisione mondiale del patto di Yalta.


Ancora lontano dall’abolizione dello stato di cose presenti il movimento reale sfidando tutte le forze avverse continua, eroico, il suo percorso impervio: in questo mondo sempre più cablato, dove è potenzialmente possibile condividere qualsiasi tipo di informazioni, dove gli eventi possono essere resi noti in tempo reale, dove le contraddizioni esplodono a macchia di leopardo e le vecchie ideologie arrancano, non senza colpi di coda, c’è solo da auspicarsi che le ginestre inizino a popolare i deserti e che il motivo musicale della decima sinfonia di Shostakovic venga intonato da un coro sempre più organizzato, sempre più grande, sempre più potente. La storia vincerà, caro Dimitri, e tu verrai ricordato come uno dei più grandi compositori di sempre.

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