Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo – Parte 4

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29 Usa – Urss, collaborazione e contenimento

Verso la fine della guerra la corsa all’accaparramento dei territori ricchi di riserve energetiche subì un’accelerazione.

L’Azerbaigian, con capitale Baku, che per secoli era stato teatro di lotte accanite tra la Russia, la Persia e l’Impero Ottomano, dall’inizio del XIX secolo era controllato in parte dalla Russia, che faceva leva sulla minoranza armena contro la maggioranza azera turcofona, e in parte dall’Iran.

Come abbiamo visto, nel 1941 i sovietici, in accordo con gli inglesi che avevano occupato il Sud dell’Iran, erano penetrati nella parte iraniana dell’Azerbaigian: i patti erano che avrebbero entrambi lasciato il paese entro sei mesi dalla fine della guerra. Il 19 maggio 1945, su richiesta del governo iraniano, i britannici accettarono di evacuare il paese, ad eccezione della zona petrolifera meridionale, mentre i sovietici fecero per non inteso e mantennero le loro forze: la regione era un troppo importante nodo strategico e oltretutto ricca di petrolio.

In agosto, mentre le bombe atomiche cadevano su Hiroshima e Nagasaki, in Azerbaigian il partito filo-comunista Tudeh, divenuto poco dopo “Partito democratico dell’Azerbaigian”, organizzò una rivolta a carattere nazionale appoggiata dall’armata russa, che portò nel dicembre alla proclamazione della Repubblica autonoma con a capo Piscevari, veterano del Comintern.

Nella conferenza di Mosca del 15 dicembre 1945 Molotov rifiutò la proposta inglese di istituire una commissione dei tre Grandi sull’Iran, così come rifiutò la proposta anglo-americana di evacuare il paese, prendendo a pretesto il Trattato del 1921. Di fatto i russi restarono in tutti i territori iraniani che occupavano fin dal 1941 ed inviarono anche dei rinforzi. Questo fece nascere il sospetto che Stalin volesse fare dell’avamposto iraniano un trampolino verso la mecca petrolifera del golfo Persico. Il 19 gennaio 1946 il Consiglio di Sicurezza investito della questione decise di affidarne la soluzione a negoziati diretti russo-iraniani, ciò che rappresentava una confessione di impotenza. Il 4 aprile fu concluso l’accordo russo-iraniano che stipulava: a) l’evacuazione dell’armata russa; b) la creazione di una Compagnia petrolifera iraniano-sovietica, con la maggioranza del capitale al governo russo, il cui statuto avrebbe dovuto essere ratificato dal Parlamento iraniano (Majlis); c) negoziati diretti tra l’Iran e l’Azerbaigian. Per ottenere la ratifica dal Majlis, la Russia favorì un accordo fra Iran e Azerbaigian, firmato a Tabriz il 14 giugno, in base al quale l’Azerbaigian sarebbe diventato una provincia autonoma dell’Iran obbligata a versargli un quarto delle imposte. Il 2 agosto il primo ministro iraniano Ghavam Sultaneh introduceva tre membri del partito Tudeh nel governo. L’Iran sembrava sempre più attratto verso la Russia, o forse stava soltanto cercando di alzare il prezzo.

Ma a partire dal 3 agosto gli inglesi reagirono inviando truppe a Bassora, dove era scoppiato un sanguinoso sciopero generale nella zona dell’Anglo-Iranian. Molte tribù del Sud, sobillate dagli inglesi e dai capi religiosi musulmani, si sollevarono contro il Tudeh e minacciarono di porsi sotto la sovranità dell’Iraq. Il risultato fu che il 17 ottobre Ghavam licenziò i tre ministri del Tudeh e costituì un governo senza comunisti. Inoltre dichiarò che l’Azerbaigian doveva essere assoggettato al governo centrale. Forte del sostegno inglese e americano, il primo ministro abbandonava il suo atteggiamento filo-sovietico: il 24 novembre, su suggerimento del nuovo ambasciatore americano Allen, ordinò alle truppe di marciare su Tabriz, dove la popolazione dell’Azerbaigian accolse con entusiasmo l’esercito iraniano. Il 14 dicembre in Azerbaigian il governo comunista fu rovesciato e diversi ministri arrestati e fucilati. L’inerzia dei russi in questa occasione forse si spiega con la volontà di facilitare la ratifica dell’accordo petrolifero o forse col fatto che Stalin aveva altri piani per l’Europa orientale.

Il Majlis, sotto i buoni auspici dell’ambasciatore americano Allen e contro la violenta opposizione all’accordo capeggiata da Mossadeq, rifiutò la ratifica con 102 voti contro 2. La porta persiana questa volta era definitivamente spalancata per gli Usa, che in base al trattato del 20 giugno 1947 invieranno in Iran i primi osservatori e una ingente fornitura di materiale militare.

Nello stesso periodo, c’erano state anche le prime prese di posizione concrete degli Stati Uniti contro la pressione espansionista sovietica verso il Mediterraneo (Grecia e Turchia). Il 20 marzo 1945 la Russia aveva denunciato il Trattato di neutralità e di amicizia firmato con la Turchia nel 1935, chiedendo la restituzione di territori ex russi di Kars e di Ardahan e la revisione degli accordi di Montreux sugli Stretti del 1936. In poche parole, Stalin voleva che la difesa degli Stretti fosse assicurata in comune dalla Turchia e dalla Russia. Naturalmente gli anglosassoni e i turchi rifiutarono questo principio che avrebbe permesso ai sovietici di realizzare l’antico sogno degli zar.

Il braccio di ferro continuò, con scaramucce più o meno dissimulate, fino all’inizio del 1947, quando gli Usa decisero di gettare la maschera e non nascondere più la situazione reale dietro formule ottimistiche. Nel gennaio il segretario di Stato Byrnes era stato sostituito dal generale Marshall, la cui nomina corrispondeva alla volontà del presidente Truman di attuare una politica più energica. Gli ispiratori di questo cambio di passo furono il diplomatico George Kennan, specialista di questioni sovietiche, futuro ambasciatore a Mosca, e il sottosegretario di Stato Acheson. Il 12 marzo 1947 Truman illustrò al Congresso la gravità della situazione internazionale e chiese di votare un aiuto di 400 milioni di dollari per far fronte alla guerra civile in Grecia e alla minaccia dei comunisti in Turchia: in fondo non si trattava che della millesima parte della somma di 341 miliardi di dollari che la Seconda Guerra mondiale era costata agli Stati Uniti. L’obiettivo era di impedire che si ripetesse in altre aree ciò che era successo in Polonia, in Bulgaria e in Romania.

Questa iniziativa americana rappresentò l’inaugurazione ufficiale della rivalità post-bellica tra America e Russia che prenderà il nome di “guerra fredda”, e che niente avrà a che vedere con una fantomatica lotta di classe fra capitalismo e comunismo: non fu una lotta per cambiare il mondo, ma per spartirselo! Le due superpotenze non rappresentavano due mondi diversi e opposti, il capitalismo e il socialismo, uno Stato imperialista borghese e quello della classe operaia. Era assurdo anche solo immaginare che lo stalinismo, sotterratore della sinistra rivoluzionaria della Terza Internazionale, potesse riprendere la guerra di classe contro le potenze capitalistiche con cui aveva stretto alleanza nel corso della guerra. Fu proprio l’alleanza col regime russo, accompagnata da una adeguata esaltazione propagandistica, a permettere a Londra e Washington di portare a termine la guerra senza che il proletariato si rendesse conto che il suo sacrificio andava a totale vantaggio dei suoi sfruttatori. Senza lo stalinismo, il capitalismo americano ed europeo non sarebbe riuscito a far sopportare alle forze del lavoro tutte le spese della ricostruzione dell’apparato economico, politico e militare uscito sconquassato dal conflitto. Washington si oppone a Mosca rimproverandola non di capitanare la rivoluzione mondiale, ma di intralciare l’espansionismo del dollaro.

30 – Porta aperta agli Usa

A partire dagli anni Cinquanta cominciò a manifestarsi apertamente la divaricazione degli interessi fra paesi arabi produttori e nazioni industrializzate occidentali, perché un aumento del prezzo del barile era una condizione sine qua non per lo sviluppo economico e sociale dei paesi arabi più popolosi. Fino ad allora erano state le Compagnie a detenere il diritto assoluto di ricercare, trivellare, estrarre, costruire oleodotti, commercializzare il greggio in base alle proprie esigenze e non a quelle dei paesi produttori. I profitti lucrati dalle Compagnie del cartello sui bassi costi del petrolio mediorientale rispetto al petrolio prodotto nell’emisfero occidentale risultavano enormemente sproporzionati rispetto ai compensi previsti per i paesi produttori, royalty fissate in percentuale sui bassi costi di produzione. Le sette Compagnie private che regnavano sovrane sul mondo del petrolio non ridistribuivano che il 30% dei loro profitti ai paesi produttori. La perdita del controllo diretto delle fonti petrolifere avrebbe aperto nuovi scenari che implicavano l’intervento militare delle grandi potenze che dirigevano il gioco nel campo imperialista.

Una prima rottura del sistema che regolava gli accordi petroliferi si ebbe, come abbiamo visto, nel 1948 in Venezuela, dove il ministro del petrolio Perez Alfonso era riuscito a strappare alle Compagnie una partecipazione paritaria agli utili. Nel 1950, lo spirito del fifty-fifty, metà per uno, sbarcò in Arabia Saudita dove i dirigenti americani dell’Aramco, pressati dalla concorrenza dei petrolieri indipendenti e dalle Compagnie giapponesi e temendo di perdere le concessioni, cedettero alle rivendicazioni saudite per una più equa ripartizione delle rendite. All’accordo non fu estraneo il Dipartimento di Stato Usa che fece pressione sulle Compagnie per conto della monarchia saudita in vista degli interessi di lungo termine degli Stati Uniti.

La politica prevalse allora sulle considerazioni economiche a breve termine delle Compagnie perché, nonostante tutto, l’imperialismo non dormiva sonni tranquilli. Le allarmate invocazioni al “pericolo rosso” e il romanzo delle infiltrazioni russe in Medio Oriente servivano a nascondere il vero timore delle borghesie europee, e con esse dell’imperialismo americano, ossia un effettivo progresso del movimento di unificazione araba. Ad ogni modo l’impegno delle Compagnie statunitensi fu adeguatamente ricompensato dal governo con il varo di una legge che assimilava a tasse pagate all’estero quanto pagato ai paesi produttori, il che comportava un notevole beneficio fiscale sugli utili complessivi: quanto destinato a Riad si sarebbe dedotto dalla cartella delle tasse. Il marchingegno portava via al Tesoro americano cifre ingenti trasferite pari pari al re saudita: un buon sistema per finanziare “al nero” un paese strategicamente importante senza dover passare per l’approvazione del Congresso. Ma anche le altre Compagnie preferirono investire all’estero piuttosto che in America per pagare meno tasse: nel 1973 le cinque Sorelle Usa realizzeranno due terzi dei loro utili all’estero.

L’adozione del fifty-fifty scatenò la prima crisi petrolifera postbellica. Mentre altri paesi mediorientali ne ottenevano l’applicazione, l’Iran si vide rifiutare lo stesso trattamento dall’Anglo-Iranian, che peraltro era l’unica Compagnia titolare di concessioni nel paese. Essendo il governo britannico azionista di maggioranza dell’Aioc fin dal 1914, la questione investì il problema più generale dei rapporti tra Iran e Gran Bretagna. La trattativa giunse in un momento in cui l’Iran era agitato da manifestazioni popolari antioccidentali, perché le attuali difficoltà economiche venivano attribuite all’occupazione alleata subita nel corso della guerra mondiale. La polemica sulle pretese dell’Anglo-Iranian si trasformò ben presto in una accesa battaglia contro la rapina imperialista, battaglia di cui era vessillifero Mohammed Mossadeq, capo del fronte nazionalista e presidente della commissione petroli al Majlis. Mossadeq, fra lo sgomento dei petrolieri internazionali, avanzò la proposta di nazionalizzazione del petrolio. L’offerta di un accordo basato sulla base del fifty-fifty non bastava più ai nazionalisti iraniani: “il petrolio alla patria”. Sotto la pressione delle masse popolari il 15 marzo 1951 il Majlis prese all’unanimità la decisione di nazionalizzare l’industria petrolifera e in particolare i beni dell’Anglo-Iranian. Lo Scià non poté far altro che ratificare la legge e l’onda dell’entusiasmo popolare il 2 maggio portò Mossadeq alla guida del governo.

L’iniziativa costituiva un colpo mortale per il traballante prestigio inglese in Medio Oriente, ma ancor di più per le sue riserve petrolifere: più della metà della sua produzione era concentrata in Iran e perderla significava sparire dal palcoscenico mondiale del petrolio. Il governo britannico fece fuoco e fiamme: minacciò di invadere l’Iran, fece arrivare tre navi da guerra nel golfo Persico, chiese la solidarietà delle Compagnie petrolifere di tutto il mondo. Ma l’impero coloniale della Corona si stava ormai sgretolando e l’intervento militare avrebbe solo rischiato di accelerare questo processo. Inoltre, l’intervento britannico avrebbe potuto provocare un’invasione sovietica da nord in virtù del trattato del 1921. Gli inglesi restarono a lungo incerti se far uso delle cannoniere o della diplomazia. Gli americani, con la scusa del loro impegno in Corea, negarono loro qualsiasi appoggio militare e li convinsero a soprassedere.

Fu scelta allora una strategia di lungo respiro che prevedeva l’embargo totale del greggio iraniano e il rimpatrio della maggior parte dei tecnici, oltre alla chiusura delle raffinerie di Abadan. Tutte le maggiori Compagnie petrolifere aderirono al blocco con entusiasmo visto che in quel momento c’era sovrabbondanza di petrolio sul mercato. Ma la chiusura delle raffinerie creò non pochi problemi agli americani perché Abadan serviva allora da base di rifornimento per l’aviazione statunitense verso la Corea. Per venti mesi non uscì dall’Iran una goccia di petrolio. Nel 1952 l’Iran era sull’orlo del disastro: i pozzi, per mancanza di manutenzione, prendevano fuoco e per spegnerli si dovette ricorrere a tecnici texani, pagandoli a peso d’oro. Quando il governo Mossadeq, di fronte al prosciugarsi delle finanze statali orfane delle royalty, diede segno di appoggiarsi al Tudeh (il Partito comunista iraniano di stretta osservanza staliniana), agli Stati Uniti non sembrò vero di poter intervenire. Agli americani, che fino a quel momento erano rimasti ai margini del petrolio iraniano, si presentava l’occasione per spalancare una volta per tutte la famosa “porta persiana”, approfittando della debolezza britannica nel paese.

Un accordo segreto anglo-americano fu raggiunto sulla base della creazione di un Consorzio internazionale denominato Iranian Oil Company, più noto come “Consortium” o “Consorzio di Abadan”, che avrebbe dovuto garantire lo sviluppo e la commercializzazione del petrolio iraniano, e a cui parteciparono per la prima volta nella storia tutte le Sette Sorelle. Infatti il Consorzio era controllato dall’ex Anglo-Iranian, trasformatasi in British Petroleum, dalla Shell, da due gruppi americani l’uno formato dalle cinque principali Compagnie petrolifere statunitensi (Esso, Socal, Mobil, Gulf, Texaco) e l’altro da nove piccole Compagnie “indipendenti”, e infine dalla Compagnia francese dei petroli. L’egemonia britannica fu per il momento sostanzialmente mantenuta perché la Bp e la Shell ebbero insieme il 54% delle azioni.

http://www.inventati.org/cortocircuito/wp-content/uploads/2014/11/oil-is-war.poster.h.k.gifA questo punto non restava che sbarazzarsi di Mossadeq con il pretesto della lotta al comunismo. Come hanno dimostrato i documenti della Cia pubblicati vent’anni dopo, il dipartimento di Stato mise in piedi quella che si chiamò in codice “operazione Aiax”. L’intervento occulto fu affidato dalla Cia a Kermit Roosevelt, nipote del defunto presidente, che alla fine dell’operazione darà le dimissioni dalla Cia e diventerà vicepresidente della Gulf. Nell’aprile 1953 lo Scià tentò di fare arrestare Mossadeq, sostenuto dal Partito comunista, ma il primo ministro con un colpo di Stato assunse i pieni poteri costringendo lo Scià a fuggire a Roma. Ma le vacanze romane del giovane re durarono poco. Quando anche le masse cominciarono a muoversi, la borghesia iraniana, spaventata dalla radicalizzazione del proletariato, consentì all’esercito di arrestare Mossadeq, gettandosi così nelle braccia dell’imperialismo americano. Dopo il ritorno dello Scià il 24 agosto 1953 la repressione fu feroce: 5.000 oppositori furono passati per le armi. Mosca si guardò bene dall’intervenire, dati anche i rapporti di forza, e mise la museruola al Tudeh. Gli Usa ringraziarono la docile borghesia iraniana e il suo Scià estendendo il loro aiuto finanziario e riempiendo di nuovi armamenti il paese! Da allora la borghesia iraniana ha esaurito ogni suo carattere progressista.

L’affare Mossadeq, se da una parte sancì la sconfitta inappellabile della Gran Bretagna, ormai incapace di controllare da sola il Medio Oriente, e se accelerò la penetrazione americana nell’area, dall’altra dimostrò che il vento stava cambiando nel mondo del petrolio e che lo strapotere delle Compagnie doveva cominciare a fare i conti con le nuove coscienze nazionali.

I grandi monopoli privati anglo-americani saranno destinati a svolgere in parte un ruolo di supplenza del governo nel perseguimento degli obiettivi di politica estera, quali furono definiti dal massimo organo di sicurezza degli Usa, il “National Security Council”:

«Poiché il Medio Oriente e il Venezuela sono le uniche fonti in grado di soddisfare il fabbisogno di petrolio del mondo libero, queste fonti sono necessarie per continuare gli sforzi militari ed economici del mondo libero. Da ciò consegue che a nessuno può essere permesso di interferire in modo sostanziale con la disponibilità di petrolio da queste fonti».

Il Dipartimento di Stato statunitense punterà proprio su Arabia Saudita, Iraq, Iran e Israele per estendere la sua influenza su tutto il Medio Oriente, che occuperà un posto sempre più decisivo nello scacchiere diplomatico.

Per quanto riguarda Israele, è noto che il 15 maggio 1948, finito il mandato inglese, lo Stato di Israele si autoproclamò indipendente e fu immediatamente riconosciuto dalla Russia e dagli Stati Uniti. Alla sua fondazione parteciparono tutti gli imperialismi, per farne, al loro servizio in generale e delle Compagnie petrolifere in particolare, un ostacolo alla unità araba. Lo Stato di Israele è una base americana infissa nel cuore del Medio Oriente con le testate nucleari puntate verso i paesi arabi e verso l’Iran. Quattro guerre israeliano-arabe, tutte perse dagli eserciti arabi, scandiranno nel secondo dopoguerra la storia del Medio Oriente e del suo petrolio. La controversia tra i due blocchi est-ovest si sviluppava per Stati interposti attraverso queste guerre per procura: la guerra del 1948 per la creazione dello Stato israeliano, la guerra del 1956 per il canale di Suez, la guerra del 1967 detta dei “Sei Giorni”, la guerra del 1973 detta del “Kippur”, che farà da detonatore al primo choc petrolifero globale.

31 – La chimera del Panarabismo

Legato mani e piedi al carro del vincitore, l’Iran aderirà nell’ottobre 1955 al patto di Baghdad che già comprendeva l’Iraq, la Turchia, il Pakistan e l’Inghilterra. Usa e Inghilterra sortirono due risultati: impossessarsi dei pozzi petroliferi e includere la Persia nello schieramento atlantico. Il passaggio non era scontato perché la Russia di fronte alla mossa occidentale avrebbe potuto invocare le clausole del trattato russo-persiano del 1921, che autorizzava il governo russo ad occupare la parte settentrionale della Persia qualora si fosse profilato il pericolo di un intervento di una terza potenza nel paese. Ma la collaudata tecnica anglosassone di costringere l’avversario a colpire per primo per addossargli l’accusa di aggressore funzionò anche questa volta: il 2 ottobre Nasser confermava alla radio le notizie sulle forniture di armi ceche e russe, il 12 lo Scià annunciò al parlamento l’adesione al patto di Baghdad. Mosca si limitò a protestare violentemente, ma si adattò volente o nolente al fatto compiuto.

Il Patto, firmato nella capitale irachena il 24 febbraio 1955, fu in origine un trattato bilaterale tra Turchia e Iraq congegnato e voluto dalla diplomazia anglo-americana che in tal modo riusciva a gettare discordia e scissione nella Lega araba, i cui membri si erano impegnati col patto di sicurezza inter-arabo del settembre 1950 a non aderire a coalizioni militari estranee, e pertanto era un primo colpo portato al rinato panarabismo e soprattutto all’Egitto, che si atteggiava a potenza-guida del mondo arabo. L’Egitto di Nasser rifiutò infatti di aderire al patto, considerandolo una espressione degli interessi imperialistici dell’Occidente. Anche la Siria non aderì perché temeva l’espansionismo dell’Iraq, dove regnava la dinastia hascemita, la stessa cui apparteneva la casa reale della Giordania. L’opposizione della Russia al patto si spiega facilmente tenendo presente che esso sanciva un’alleanza militare ostile alle sue frontiere meridionali, per di più collegata, tramite la Turchia, al patto Atlantico. Con l’adesione l’Inghilterra dimostrava di mantenere una qualche influenza in Medio Oriente. In settembre entrò a farne parte il Pakistan, che negli anni precedenti aveva stipulato accordi con la Turchia e gli Stati Uniti.

tratto da http://www.international-communist-party.org

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