Cos’è la ricerca, davvero

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Un italiano di 29 anni a Cambridge annuncia la sua intenzione di arrendersi alle frustrazioni della vita del ricercatore, e scatena un gran dibattito in rete

La competizione a questo punto diventa spaventosa. A essere ottimisti, il 10% dei postdoc può sperare di raggiungere una “tenure track” (ovvero quel percorso in cui sei un group leader “in prova”, per un periodo di solito sui 5 anni). Fermiamoci un attimo e ricapitoliamo cosa significa quanto detto:

1) La grande maggioranza degli esperimenti scientifici nel mondo è fatta da gente sotto i 35 anni, grottescamente sottopagata (specie in Italia, ma non solo) e priva di qualsiasi riconoscimento di tipo “sindacale”. Nel caso della ricerca i giovani non sono il futuro: sono il presente. La ricerca scientifica mondiale è letteralmente in mano (provette, computer e strumenti) a migliaia di ragazzi che rinunciano a vita, stipendio e carriere lucrose (se un giovane biologo brillante fresco di laurea o dottorato va all’estero e prova a lavorare nell’industria, le chance di trovarsi all’estero a fare il ricercatore nel privato sono piuttosto alte, e il trattamento economico e sociale decisamente più alto) per una passione, senza ricevere quasi nulla in cambio.

2) La ricerca scientifica funziona come un’azienda che sostituisse tutto il suo dipartimento ricerca e sviluppo ogni dieci anni. Non so se questo sia normale, ma mi colpisce sempre: è come se uno buttasse via tutti gli ingegneri in una azienda tecnologica e ne riassumesse di nuovi, neolaureati, ogni 10 anni, a parte i pochissimi che diventano dirigenti.

3) La competizione a livello postdottorale fa sì che, specie nelle istituzioni più prestigiose, si creino facilmente situazioni estremamente tossiche. Scordatevi una platonica torre d’avorio. Significa che la gente sabota regolarmente il lavoro altrui, fa di tutto per accaparrarsi il credito di lavoro a cui ha partecipato poco o nulla, e altro che condivisione delle conoscenze: ognuno tiene i propri progetti praticamente secretati nel terrore che gli vengano rubati dalla concorrenza. Aggiungete il fatto noto che questo conduce sempre piú ricercatori (una piccola minoranza, per fortuna, ma in crescita) a darsi alla frode scientifica pur di sopravvivere: si parte da casi in cui semplicemente si riducono i controlli, o si scopiazzano articoli da una parte all’altra, a storie eclatanti in cui si inventano dati di sana pianta per garantirsi il
successo.
Nota generale: “competitivo” non significa necessariamente “meritocratico”. Spesso le due parole vengono considerate sinonimi. La cosa andrebbe tenuta bene in mente da chi chiede più “competitivita`” nella ricerca italiana. La ricerca italiana dev’essere più meritocratica, non più competitiva. Si compete già, in Italia, solo che non si fa in base al merito.

4) Intorno ai 30-35 anni abbiamo numerose persone con un curriculum buono o anche brillante che hanno fatto scienza tutta la vita e si trovano improvvisamente in mezzo alla strada, “overqualificati” per moltissimi lavori, e viceversa non qualificati per molti altri. Ci sono aziende che hanno come politica esplicita quella di non assumere persone con un dottorato o un postdoc perché ormai troppo slegati dalla “realtà”. Queste persone sono intorno al 70-90% di quelle che hanno iniziato una carriera accademica.

5) Il fatto che tutto giri intorno alle pubblicazioni e alle esigenze delle agenzie di funding, aggiunto al fatto che la ricerca scientifica è sempre una scommessa, fa sì che attualmente la ricerca scientifica sia in una spirale che la rende sempre meno coraggiosa, sempre più applicata e sempre più dipendente dalle politiche delle agenzie. In campio biologico è pressoché impossibile avere fondi se non si hanno chiare e immediate ricadute mediche o industriali della propria ricerca. Charles Darwin oggi non riceverebbe un soldo da un’agenzia di funding. Inoltre, tutti i postdoc tendono a cercare progetti più “sicuri”, a scavarsi piccole nicchie in cui sono certi di ottenere qualcosa, anche di piccolo, invece di tentare di imparare tecniche e discipline nuove, o di dedicarsi a esperimenti più coraggiosi, perché questo è quasi sempre solo un modo per suicidare la propria carriera.

Torniamo al nostro ex-dottorando ed ex-postdoc. Mettiamo che sia stato molto bravo, che abbia sgomitato il dovuto e che abbia vinto una tenure track. Questo cosa gli da? Cinque anni in cui avrà raggiunto l’indipendenza accademica, gestirà un progetto “suo” (purché piaccia a chi gli da i soldi) e in cui magari ha un paio di dottorandi a lavorare per lui. Bellissimo. Peccato che gli serviranno ancora soldi per pagare il laboratorio, la strumentazione, eccetera, e quindi dovrà fare ancora altre domande ad altre agenzie. Lo stesso ciclo di prima, eterno, solo peggiorato: ora la grande maggioranza del suo tempo sarà spesa a fare marketing della ricerca (che il ricercatore guida ma che fanno i suoi dottorandi) e sempre meno alla scienza vera e propria. Inoltre l’università gli fa pressione, perché a questo punto i grant che ottiene servono anche a finanziare il dipartimento stesso, non solo lui. E anche qui, non vincono tutti: una buona metà se ne torna a casa dopo cinque anni. A questo punto il ricercatore ha 40 anni, ha fatto ricerca tutta la vita (anche se negli ultimi 5 ha fatto più che altro fundraising), e maledettamente sovraqualificato e maledettamente troppo vecchio per trovare facilmente lavoro.

Si è mangiato la vita: non ha mai avuto un weekend libero, non si è mai liberato dal suo lavoro (la ricerca è un lavoro che divora, da cui non stacchi mai, a livello mentale), ha subito probabilmente mobbing e scorrettezze da numerosi colleghi, ha forse rinunciato o quantomeno messo in secondo piano famiglia e figli, non ha mai avuto una stabilità economica o geografica (molti ricercatori cambiano Stato 2, 3, 4 volte nella vita, spesso anche di più), ha dovuto conquistare tutto palmo a palmo, per cosa? Per ritrovarsi a 30, 35, 40 anni con in mano un pugno di mosche e qualche oscura pubblicazione, quasi certamente persa in un mare magnum di mille altre.

La torre d’avorio dell’accademia è solo la parte che si vede. Sotto terra, sotto la torre, brulica un sottosuolo di giovani brillanti, fortissimi lavoratori e tenaci sognatori ma il cui futuro è una lotteria, una mera illusione. Ovviamente chi vive nella torre d’avorio (cioè chi ha raggiunto finalmente un posto stabile come professore universitario) ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo, o anzi ad aumentare a dismisura il numero di dottorandi e postdottorati: manovalanza a carico dell’università o delle agenzie esterne di funding; cervelli e mani che fanno tutto il reale lavoro di ricerca, e che è sempre sostituibile, pronta a essere buttata via e rimpiazzata nel giro di pochi anni.

Quello che ho raccontato nasce naturalmente dalla mia esperienza; ci sono ovviamente eccezioni e c’è ovviamente il dritto della medaglia. C’è lo stimolo psicologico, ovvero il fatto che spesso chi fa ricerca ha sempre sognato di farla e la cui personalità è in qualche modo dipendente/definita da questa realizzazione professionale. Significa da una parte che spesso è un mestiere a livello psicologico totalizzante, in cui si entra per vocazione spesso fin dall’infanzia, per spirito di conoscenza – e che quindi finisce per definire la tua persona; trovarsi di fronte alle dighe poste sul cammino della ricerca è spesso enormemente frustrante e infine, quando ci si trova costretti a cambiare cammino, la sensazione di aver fallito nella propria vita è ben più profonda di quanto normalmente sia per un altro tipo di carriera. Ma fare scienza è anche  suo modo un mestiere meraviglioso, in cui sai di portare avanti, nel tuo piccolo, la gigantesca impresa dell’umanità di comprendere il mondo in cui vive e, alla fine, te stesso. La libertà intellettuale può essere  inebriante. Forse troppo inebriante: forse gli scienziati riflettono troppo sui loro progetti e troppo poco sul sistema che li mantiene, li porta avanti per qualche anno e alla fine in tanti casi li getta via. Se mi chiedete quali sono le vie di uscita da questo gioco al massacro, io non so dare una risposta. Ma gli scienziati, e la società di cui fanno parte, dovrebbero chiedersi se questo è veramente l’unico modo di mandare avanti la ricerca. Non solo per gli scienziati stessi, ma per tutti.

da ilpost.it

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