Yemen – Perché l’Arabia Saudita fa la guerra agli houthi

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Juan Cole, The Nation, Stati Uniti, traduzione a cura di Internazionale

L’intervento militare nello Yemen è stato un passo inconsueto per i sauditi, che di solito preferiscono muoversi dietro le quinte

Guidata dal nuovo re Salman, l’Arabia Saudita sta combat- tendo quattro grandi battaglie destinate a cambiare il volto del Medio Oriente. Il comun denominatore è la ricerca di vicini che non sfidino la monarchia saudita o che non propongano delle alternative all’autorità religiosa e temporale di Riyadh. I sauditi sono più pragmatici di quanto si pensi e sono perfino disposti a tollerare governi nazionalisti di centrosinistra se questi non si oppongono al regime dei Saud. Del resto, la maggiore preoccupazione per l’anziana famiglia reale sono i movimenti dell’islam politico (come i Fratelli musulmani). L’intervento dell’Arabia Saudita nello Yemen – cominciato con i bombardamenti aerei lanciati su Sanaa nella notte tra il 25 e il 26 marzo – e la creazione di una coalizione di dieci paesi disposti a sostenere questa iniziativa militare, tra cui alcuni importanti membri della Lega araba, sono stati due passi insolitamente audaci per la famiglia reale saudita, che generalmente preferisce lavorare dietro le quinte, in modo più discreto.

La forza dell’intervento militare dimostra quanto Riyadh tema l’instabilità nello Yemen. In questo paese il movimento tribale degli houthi (di religione zaidita, una corrente dell’islam sciita) si è alleato con i reparti militari che sono rimasti fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh per rovesciare il governo di Abd Rabbo Mansur Hadi, succeduto a Saleh nel 2012 (ora Hadi ha trovato rifugio a Riyadh).

Gli houthi promettono di rovesciare il trono saudita, gridano slogan come “morte all’America” e hanno rapporti amichevoli con l’Iran: agli occhi dei sauditi niente potrebbe essere più minaccioso di questo movimento populista. Il fatto che sia scaturito da una minoranza sciita non fa che peggiorare le cose. La dinastia dei Saud ha fortissimi legami in patria con il movimento religioso wahabita, che generalmente considera idolatri i musulmani sciiti. Eppure alla fine del suo regno re Abdullah (morto il 23 gennaio) ha nominato due sciiti nel Consiglio consultivo nazionale, l’embrione di parlamento saudita, e ha mobilitato gli sciiti ismailiti di Najran contro lo Yemen. Per Riyadh, quindi, la linea rossa non è l’islam sciita, ma i movimenti populisti che gettano fango sulla monarchia.

Un’altra preoccupazione per re Salman, e per gli Stati Uniti suoi alleati, è che il tentativo degli houthi di governare tutto lo Yemen pur essendo una comunità minoritaria (gli zaiditi sono circa un terzo della popolazione yemenita) possa creare un vuoto di potere nel sud del paese, dove la popolazione è in maggioranza sunnita. In quella parte dello Yemen, Al Qaeda nella penisola araba (Aqpa) è presente con un numero di combattenti stimato tra i 400 e i duemila. Nel 2011 e nel 2012 l’Aqpa ha cercato di conquistare un’area della provincia di Abyan, ma è stata sconfitta dall’esercito yemenita.

I sauditi vorrebbero obbligare gli houthi a negoziare e a ripristinare un governo di unità nazionale. Allo stesso tempo vogliono sconfiggere Al Qaeda, che è una minaccia per la famiglia reale. L’avanzata degli houthi sulla capitale e sulle principali città del paese (come Taizz e Aden) ha spinto gli Stati Uniti a richiamare in patria gli ultimi soldati delle forze speciali ancora presenti nello Yemen e a sospendere gli attacchi con i droni contro i leader dell’Aqpa. La famiglia reale saudita non ne sarà stata felice.

Ideologie diverse

È dal 2011 che la dinastia saudita viene colpita da eventi destabilizzanti. La caduta di Hosni Mubarak in Egitto e l’ascesa del movimento dei Fratelli musulmani hanno disorientato il governo di Riyadh. L’Arabia Saudita ha perciò cospirato con gli ufficiali dell’esercito egiziano per organizzare il colpo di stato del luglio del 2013 contro il presidente democraticamente eletto, Mohamed Morsi.

I sauditi hanno la memoria lunga: ricordano che nel 1815 l’Egitto invase l’Arabia per conto del sultano ottomano che voleva reprimere i wahabiti. Quindi temevano che la Fratellanza musulmana, se fosse ri- uscita a consolidare il suo controllo sull’Egitto, avrebbe potuto compiere o incoraggiare tentativi simili per indebolire il loro potere nella penisola araba.

In Siria i sauditi hanno appoggiato i gruppi più radicali (i cosiddetti salafiti) dell’Esercito siriano libero, che ora si sono organizzati nel Fronte islamico. I suoi com- battenti non se la cavano benissimo in bat- taglia, ma controllano alcune porzioni di territorio vicino ad Aleppo. Il Fronte islamico si differenzia da altri gruppi ribelli siriani come il Fronte al nusra (il ramo siriano di Al Qaeda) o il gruppo Stato islamico non tanto dal punto di vista ideologico, ma perché ha proclamato la sua fedeltà a re Salman. I sauditi sperano quindi che i loro protetti possano ancora prevalere e trasformare la Siria in un paradiso salafita, subordinato alla monarchia saudita. Riyadh teme anche la vittoria del governo di Damasco guidato dal presidente Bashar al Assad, espressione degli sciiti alauiti, alleato dell’Iran e dell’organizzazione sciita libanese Hezbollah.

Infine nel Bahrein la maggioranza sciita dell’isola è scesa in piazza a manifestare contro la sua emarginazione nel 2011. Riyadh ha inviato un migliaio di soldati per reprimere le proteste e difendere la monarchia sunnita dei Khalifa.

Trappola esplosiva

Gli houthi, Al Qaeda nella penisola araba, i baathisti alauiti, la Fratellanza musulmana egiziana e gli sciiti del Bahrein hanno assaggiato tutti la frusta saudita. Eppure questi gruppi non si somigliano né dal punto di vista ideologico né da quello delle credenze religiose. Quattro sono accomunati dal fatto di essere movimenti populisti ispirati all’islam politico che sfidano lo status quo, la monarchia saudita e le sue ambizioni di guida religiosa derivanti dal sostegno al wahabismo e dall’amministrazione delle città sante della Mecca e di Medina. In Siria gli alauiti sono al governo. Tuttavia, agli occhi di alcuni potenti wahabiti la loro alleanza con l’Iran li rende assimilabili a quei movimenti populisti sciiti che sfidano lo status quo regionale.

L’Arabia Saudita sembra aver avuto la meglio in Egitto, dove l’esercito ha prevalso e la Fratellanza musulmana ha subìto una dura repressione insieme ai giovani di piazza Tahrir. Anche il movimento di protesta della maggioranza sciita in Bahrein è stato schiacciato con violenza. In Siria la fazione sostenuta dai sauditi non ha conseguito successi finora. Resta quindi lo Yemen, un territorio accidentato e inospitale, che pone la sfida più grande di tutte.

Quando l’Egitto nazionalista di Gamal Abdel Nasser intervenne in un’altra guerra yemenita, negli anni sessanta, il paese si trasformò in un pantano che impegnò le sue truppe migliori. Questa fu una delle cause che portarono all’umiliante sconfitta del 1967 nella guerra contro Israele. Se l’Afghanistan è chiamato “la tomba degli imperi”, lo Yemen è una trappola esplosiva per gli eserciti stranieri che intervengono sul suo territorio. Gli anziani miliardari della famiglia reale saudita riusciranno a evitare il destino di Nasser?

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