Ieri Dongguan, oggi Phnom Penh: operaie in lotta in Cambogia

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Il sorvegliante del nostro piano è un parente del padrone e non capisce un accidente. Semplicemente non è adatto a fare il manager: sa soltanto rimproverare le persone. Sa che in un’ora puoi fare soltanto 15 pezzi, ma lui fissa la quota a 50. E se non ce la fai a raggiungerla, allora devi fare gli straordinari, che però non ti vengono pagati. Ti dice: “Gli altri raggiungono la quota, tu non puoi farcela?”. Ma nessuno è in grado di raggiungerla in una sola giornata di lavoro.

Intervista in una fabbrica di Dongguan, 2004

“Donna, tu devi imparare a usare questo macchinario più velocemente. Altrimenti puoi anche andartene dalla fabbrica, hai capito?”. E ci lancia addosso i materiali che dobbiamo cucire, sbatte i pugni sulla scrivania e ci urla in faccia. È molto duro.

Intervista in una fabbrica cambogiana, 2014

Nel 2004, China Labour Bulletin condusse un’inchiesta su salari e condizioni di lavoro delle lavoratrici migranti a Dongguan, la “fabbrica del mondo” della Cina (nella provincia meridionale del Guangdong, ndt). Nel 2014, Human Rights Watch ha indagato su paghe e condizioni di lavoro nell’industria dell’abbigliamento cambogiana, che impiega prevalentemente donne. I risultati delle due ricerche sono molto simili.

La maggior parte delle fabbriche d’abbigliamento della Cambogia è di proprietà di aziende cinesi, taiwanesi, hongkonghesi e sudcoreane, molte delle quali misero su i loro impianti alla periferia della capitale Phnom Penh quando i costi di produzione a Dongguan si fecero troppo alti. Producono per gli stessi marchi internazionali che si rifornivano a Dongguan tra gli anni Novanta e gli anni Duemila, e operano essenzialmente secondo lo stesso modello a basso costo, bassi margini di profitto e alta intensità di manodopera.

Il salario minimo a Dongguan nel 2004 corrispondeva a 450 yuan al mese (54 dollari al tasso di cambio di quell’anno). La combinazione di carenza di manodopera e maggiore attivismo operaio ha spinto in alto le retribuzioni e il primo maggio di quest’anno il salario minimo a Dongguan sarà circa quattro volte più elevato (1.510 yuan al mese, ovvero 241 dollari all’attuale tasso di cambio).

Nel 2004, il salario minimo in una fabbrica d’abbigliamento cambogiana era di 50 dollari mensili, quasi lo stesso di Dongguan. Tuttavia da allora i salari in Cambogia sono cresciuti molto più lentamente ed è soltanto con l’esplosione dell’attivismo di lavoratori e sindacati nel 2013 che il salario minimo, il 1 febbraio 2014, ha raggiunto i 100 dollari al mese. Le proteste per le retribuzioni sono continuate l’anno scorso e così, nel gennaio di quest’anno, è aumentato nuovamente, a 128 dollari al mese.

 Tuttavia, sia a Dongguan che in Cambogia, il salario minimo non è mai stato un salario sufficiente per vivere. Per tirare avanti i lavoratori hanno sempre dovuto ricorrere a straordinari e bonus e, come sottolineato da entrambi i rapporti, questa situazione ha spesso generato abusi, con i dipendenti costretti a fare straordinari oltre i limiti consentiti. L’indagine di CLB rivelò che la maggior parte delle donne nelle fabbriche di Dongguan lavorava tra 12 e 14 ore al giorno, sette giorni alla settimana. In maniera simile, lo studio di HRW ha documentato che la maggior parte dei dipendenti lavora tra 11 e 13 ore al giorno. Gli eccessivi carichi di lavoro hanno conseguenze terribili sulla salute dei lavoratori che però – se protestano o si rifiutano di fare gli straordinari – sono puniti con multe o con il licenziamento.

Entrambe le ricerche evidenziano la gestione oppressiva delle imprese, nonché le tattiche utilizzate per liberarsi delle lavoratrici incinte. A Dongguan, se le donne volevano tenersi il loro posto di lavoro dopo aver partorito, entro un mese dovevano spedire i loro bambini nel villaggio di origine o portare le loro madri a Dongguan per prendersene cura. In Cambogia le fabbriche utilizzano un sistema di contratti a breve termine per disfarsi delle dipendenti incinte.

La buona notizia è che, proprio come in Cina i lavoratori hanno utilizzato con successo l’azione collettiva organizzata per ottenere salari e condizioni di lavoro migliori, i lavoratori in Cambogia stanno facendo lo stesso. Per questi ultimi però la difficoltà maggiore è data dal ruolo centrale che l’industria dell’abbigliamento ha nell’economia nazionale.

Nel 2013, le esportazioni della Cambogia ammontavano a circa 6,48 miliardi di dollari, dei quali 4,96 miliardi erano ricavati dall’export di abbigliamento e tessile. Nel 2014, le esportazioni da abbigliamento sono salite a 5,7 miliardi di dollari. Questa produzione è la maggior fonte di impiego non agricolo e dà lavoro a oltre 700.000 persone. Il governo autoritario guidato da Hun Sen vuole assicurarsi che l’industria dell’abbigliamento rimanga in Cambogia, e ha già dimostrato la sua disponibilità a usare la forza bruta per reprimere l’attivismo dei lavoratori.

I lavoratori cambogiani hanno bisogno di sostegno e si spera che la pubblicità fatta loro dal rapporto di HRW li aiuti in questo senso.

Geoffrey Crothall è il portavoce della ong con sede a Hong Kong “China Labour Bulletin”

da http://www.cinaforum.net/

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