Il modello Expo è ovunque

Tutti presi dalle immagini che trasmettono i telegiornali degli scontri del Primo Maggio a Milano, ci siamo forse dimenticati di collocare quanto successo nella città meneghina in una dimensione globale?

Il Primo Maggio 2015 ci sono state manifestazioni e cortei in paesi in cui da tempo non se ne aveva notizia: pensiamo all’Iran, all’Iraq, alla Malesia, a Myanmar, all’Indonesia e a Taiwan. In altri, vedi Turchia e Corea del Sud, si sono svolte mobilitazioni di massa dove migliaia di lavoratori hanno sfidato polizie armate fino ai denti e pronte a reprimere senza pietà. Negli Stati Uniti durante la May Day i movimenti contro la violenza poliziesca si sono del tutto spontaneamente uniti a quelli dei lavoratori in lotta per l’aumento del salario.

Quindi il proletariato c’è, è in salute e scende in piazza per rivendicare migliori condizioni di vita. Il contesto in cui si inserisce questo movimento è quello della crisi epocale del capitalismo, con polarizzazioni sociali mai viste prima: gli economisti ci informano che il 10 per cento più ricco della popolazione mondiale possiede il 30-40 per cento del reddito totale, mentre il 10 per cento più povero deve accontentarsi del 2 per cento.

Di fronte a queste cifre viene in mente lo slogan lanciato da Occupy Wall Street: We are the 99%.

Ritornando ai fatti di Milano, ci rifiutiamo di entrare nel merito dell’inutile dibattito sull’opportunità o meno di spaccare le vetrine o bruciare le auto. Quello che è successo (poca roba rispetto ad altri paesi) doveva succedere, ed è quantomeno strano pensare che, in un mondo in subbuglio, in Italia possano esserci solo manifestazioni ordinate e lige all’ordine costituito.

Dopo questa necessaria premessa sulla No Expo May Day, vogliamo ripartire dalla campagna contro il lavoro gratis in Expo, poiché essa si presta ad ampie generalizzazioni sulle condizioni di vita di milioni di persone e potrebbe dare il “la” a un movimento di più vaste dimensioni.

Un articolo di Michele Sasso su l’Espresso, intitolato Il lavoro ai tempi dell’Esposizione universale, ben descrive la selva di apprendisti, stagisti, precari e volontari che fanno funzionare la fiera milanese, e indica il grande evento come un modo per testare forme di lavoro gratuito.

Tutto ciò è reso possibile dall’accordo tra Cgil-Cisl-Uil e gli organizzatori di Expo del 23 luglio 2013, che autorizza il lavoro gratuito sotto forma di volontariato e disciplina le modalità di assunzione e impiego del personale nei sei mesi dell’esposizione universale. “Si tratta di una piattaforma importante – ha spiegato al Sole 24 Ore Giuseppe Sala ad di Expo 2015 – che può diventare un utile riferimento per le intese nazionali cui si sta lavorando per garantire maggiore flessibilità nel mercato del lavoro.”

In nome del corporativismo più estremo, il protocollo decreta la totale subordinazione dei sindacati firmatari alle esigenze dell’economia nazionale. Nemmeno il fascismo è arrivato a tanto.

Sindacalisti di sinistra e Forum Diritti Lavoro, critici verso il suddetto accordo, hanno presentato una denuncia alla Direzione del Lavoro di Milano contro il lavoro gratis: “Nel corso dell’incontro il Forum ha illustrato ulteriormente le ragioni per le quali si richiede un intervento degli ispettori del lavoro per accertare che il cosiddetto volontariato per Expo è in realtà lavoro subordinato a tutti gli effetti e come tale va retribuito e soggetto a contribuzione.”

Non crediamo che la strada della “denuncia” sia quella migliore per combattere la nuova schiavitù (difficile pensare che si possa superare l’attuale sistema a colpi di carte bollate), così come non consideriamo la “distruzione del mondo dei partiti di massa, del potere sindacale, dei diritti certi e dello stato sociale […] una catastrofe” (Il nuovo mondo che avanza di Giorgio Cremaschi). Per noi la dissoluzione di quel mondo è un passaggio obbligato per arrivare alla lotta classe contro classe, totale, senza mediazioni. I proletari non hanno nulla da perdere se non le proprie catene ed hanno un mondo da guadagnare.

Expo è il paradigma del capitalismo d’oggi, in crisi di valorizzazione e quindi smanioso di profitti. Niente è vietato dalle leggi dell’accumulazione capitalistica in tempi normali, figuriamoci in tempi nei quali l’accumulazione è del tutto asfittica.

Nel luglio 2013, dopo la firma dei sindacati, avevamo scritto che il protocollo sarebbe servito a flessibilizzare ulteriormente la forza-lavoro, mentre lo sdoganamento di stage, tirocini e lavoro volontario sarebbe stato funzionale all’abbassamento del salario normale medio. E’ ancora questo il punto su cui riflettere: all’Expo come altrove assistiamo a processi di abbassamento del salario che si spingono fino alla schiavitù, ovvero al lavoro non retribuito. Per questo motivo la lotta contro il modello Expo, se vuole essere tale, va inserita nella più vasta lotta per l’abolizione dello stato di cose presente.

Cogliere il nesso che lega l’Esposizione universale alle agenzie di somministrazione del lavoro, agli enti bilaterali, agli enti di formazione, ai sindacati, ai partiti, alle amministrazioni pubbliche, alle multinazionali e, in ultima analisi, alla finanza internazionale, vuol dire fare propria la dimensione globale della lotta di classe.

A New York, la piattaforma 99 Pickets (nata sull’onda del movimento Occupy) organizza le lotte dei precari, coordinando i picchetti metropolitani attraverso reti aperte, rifuggendo le strutture piramidali e promuovendo il mutuo soccorso. Allo stesso modo le lotte partite dai lavoratori dei Fast Food si sono diffuse in tutto il paese fino a diventare un movimento intercategoriale per l’aumento del salario medio. Prendiamo esempio.

da http://www.chicago86.org/index.php

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