Il palio, gli stadi e l’indignazione selettiva

Uno scontro faccia a faccia, più di cento persone per parte, tutti compatti, prime linee serrate e qualche minuto di botte da orbi, rigorosamente a mani nude, prima di un faticoso intervento delle forze dell’ordine a dividere i contendenti.

Siamo tornati con la macchina del tempo nel piazzale di uno stadio di fine anni ’80? No, i video che in questi giorni impazzano sul web riguardano un evento molto particolare, forse unico nel nostro paese, il Palio di Siena. Un evento che pur svolgendosi due volte l’anno catalizza le attività della città e delle sue contrade per tutto l’anno e riveste un’importanza enorme e totalizzante, generando intrighi, manovre politiche, e ovviamente incroci di alleanze ma soprattutto violentissime rivalità, che spesso sfociano in scontri (non solo nei giorni del Palio), i quali stavolta hanno però avuto un effetto scenico davvero potente. Insomma, il Palio rappresenta per Siena quello che in molte altre piazze viene rappresentato dalla squadra di calcio e dalla relativa curva, e a questo va aggiunto il fatto che tutto ciò affonda radici in un passato e in una tradizione molto più lunga di quella calcistica. Dal nostro punto di vista, il Palio e tutto ciò che gli ruota intorno rappresentano, in un certo senso, la quintessenza dello sport popolare. Se non fosse che è dubbia la definizione di quella corsa come “sport”, ma non divaghiamo.

Non sarà stato difficile per molti notare un’apparente anomalia in questa vicenda: la totale assenza della cagnara mediatica che invece si scatena ogni qual volta succede un minimo episodio di tensione relativamente ad una partita di calcio. E ciò avviene spesso a seguito di fatti davvero marginali: basta l’esplosione di un petardo, il vetro di un pullman scheggiato, addirittura uno striscione irriverente, per scatenare l’uso di termini come “follia ultras”, “guerriglia urbana”, “stadi ostaggio di gruppi di violenti”, e invocare una repressione da dittatura delle banane, che puntualmente arriva sotto forma di daspo, trasferte vietate, curve chiuse o divise in pezzi e chi più ne ha più ne metta. Chiaramente spazziamo subito via qualsiasi ambiguità: il discorso non può limitarsi ad un sarcastico ma sterile “adesso che fate gli chiudete piazza del Campo e Palio a porte chiuse?” o “come fate adesso a diffidarli?”, anche perché un discorso del genere rischierebbe quasi di fare da involontario stimolo alle autorità ad inventarsi davvero misure strampalate per reprimere i contradaioli, cosa che ci farebbe sommamente orrore.

Sarebbe cosa lunga e complessa sviscerare l’argomento in termini sociologici, e forse sarebbe anche un po’ superfluo, visto che potrebbe essere sufficiente scomodare Valerio Marchi e la sua Teppa, per ricordare che la violenza di strada effettuata in bande contrapposte è insita nella natura degli uomini (o almeno di una parte di essi) a livello atavico, e se non si sviluppa negli stadi, si è sviluppata, si sviluppa e si svilupperà altrove, e in relazione ad altri eventi o altre appartenenze.

Qui però interessa sviscerare soprattutto un aspetto, probabilmente dirimente: quello degli interessi economici. Perché il fatto che i media non abbiano scatenato i loro dardi contro le contrade senesi non è certo una dimenticanza estiva o un atto di pietà. Sostanzialmente del Palio di Siena, fuori da Siena non gliene frega niente a nessuno. Certo, viene teletrasmesso, attira anche un po’ di turismo, ma rimane tutto circoscritto nell’ambito del folclore, e poi si corre solo due volte l’anno e non tutti i fine settimana. Non ci sono gare miliardarie per i diritti tv, non c’è merchandising, non sono coinvolti i principali capitalisti d’Europa e del Mondo. Per i senesi al contrario il Palio è tutto. E quindi è normale che i senesi “abbiano il diritto” di pestarsi a sangue a margine del Palio, anzi diventa quasi una simpatica nota di colore e di folclore in più.

Nel calcio, o meglio nel “calcio moderno”, al contrario l’elemento dell’aggregazione popolare, della partecipazione attiva (di cui lo scontro violento con i rivali è solo una parte, integrante sì, ma una parte) va sradicato con ogni mezzo. Servono spettatori, utenti, clienti. Non partecipanti, protagonisti. E tutto ciò che può disturbare lo spettatore pagante, educato e silenzioso, tutto ciò che è imprevedibile e non nasce nelle stanze delle Leghe, dei grandi club, delle tv, va combattuto con la repressione ma prima ancora con la demonizzazione. Perché una passione che coinvolge miliardi di persone non è pensabile che venga ignorata dai padroni del mondo come occasione di enormi profitti, sarebbe assurdo illudersi del contrario. E fare enormi profitti vuol dire dettare le regole del gioco. Una passione che coinvolge qualche migliaio di persone in una sola città può invece conservare un suo spazio autonomo, dei propri codici di comportamento.

Da questo punto di vista la crescita delle esperienze del calcio popolare porterà prima o poi senza dubbio a uno scontro finora inedito con questa enorme macchina da soldi: starà allora all’intelligenza collettiva trovare i mezzi per infliggere qualche sconfitta a quel “calcio moderno” che tante lacrime ci ha fatto versare negli stadi dei massimi campionati.

 Articolo di Matthias Moretti tratto da: http://www.sportpopolare.it

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