Il grigiore dello stadio dei viola capoclassifica

La Fiorentina dopo 16 lunghissimi anni si trova nuovamente da sola in testa alla classifica e la sensazione – una volta digerite le finte e patetiche esultanze di Andrea Della Valle – è bellissima. Il quadretto idilliaco di questo inatteso inizio di campionato è poi completato da una Juventus che arranca a metà classifica, da un Torino tornato gagliardo ed indomito come ai tempi di Gigi Meroni, e dal comunista Sarri che macina gioco e reti contro l’arrogante e borghese Milan del iper-nazionalista Mihajlovic. Insomma, sembra che ci sia veramente poco per cui lamentarsi. Eppure, sarà la nostra constante vis polemica o qualcosa di più serio, ma non tutto è gaio e gioioso come si vuol far credere.

Dopo la straordinaria vittoria di San Siro e la passeggiata settimanale in terra di Portogallo – otto goal in due gare contro Inter e Belenenses – la Fiorentina ospitava nel posticipo domenicale delle 20e45 l’Atalanta diretta dal sempreverde Edy Reja. Complice il pareggio pomeridiano dell’altra capolista – proprio quell’Inter strapazzata a domicilio sette giorni prima – i gigliati potevano in caso di vittoria balzare da soli in testa alla classifica: un evento, come ricordato in apertura, lungamente atteso. Nei giorni che precedono la sfida radio e giornali parlano e straparlano di una attesa febbrile sulle rive dell’Arno e complice tagliandi – una volta tanto – a prezzi abbordabili (10 euro le curve per i biglietti non acquistati nel giorno della partita più pochi spiccioli per la prevendita) ci si attende un Artemio Franchi infuocato e pieno in ogni, o quasi, ordine di posto. Il responso del campo sarà, come noto, straordinario: vittoria larga e primo posto da godersi, grazie anche alla sosta per la nazionale, per almeno due settimane. Quello del botteghino alquanto più deludente: 25,664 spettatori paganti. Per questo, mentre tanti si affannano in a dir poco arditi paragoni tra la Fiorentina di Giovanni Trapattoni e quella di Paulo Sousa, la vera notizia sembra essere quella di una città che non ama più visceralmente, come nel passato, la propria squadra di calcio. Un sentimento che – non sembra superfluo ricordarlo – aveva pochissimo a che fare con ventidue persone che corrono per novanta minuti dietro ad un pallone. Al contrario, questo era prima di tutto il portato di duraturi processi di identificazione e socializzazione, che si esplicitavano apparentemente nel rito domenicale, ma che attraverso le attività dei gruppi organizzati e le semplici amicizie di quartiere vivevano nel corso dell’intera settimana. Anzi, e per meglio dire, quello che gli spalti gremiti fotografavano era una fitta e ricca rete di relazioni nel quale l’individuo viveva ed era coinvolto. Affievolite queste, non sembra poi così strano vedere tanti spazi grigi sugli spalti un tempo gremiti. Se poi il grigio non fosse il vostro colore preferito, c’è sempre la soluzione made in Udine: colorare con improbabili fantasie tutti i seggiolini in modo da non far comprendere quanti e quali siano effettivamente occupati. La ragione è semplice: gli stadi deserti non piacciono a chi acquista la partita sulle televisioni a pagamento. La realtà però, per quanto ingannata, resta sempre la stessa: anche l’ultimo rito di massa sta venendo rapidamente meno.

Poi certo, gli stadi resteranno pieni per le cosiddette partite di cartello. Individui atomizzati si radunano così, sporadicamente e saltuariamente, una volta ogni tanto, richiamati dall’unicità di quanto andrà in scena. Benvenuti nella vita evento, dove tutto è funzionale a postare su Facebook la foto che sancisce indiscutibilmente la vostra presenza dove tutti sarebbero voluti essere.

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