Peccato che non c’ho abbastanza tempo per leggere

Paola Mastracola ci perdonerà se attingiamo nuovamente dal suo testo, “La passione ribelle”, edito da Laterza. La “passione ribelle” di cui parla è lo studio. Leggere per credere, che studiare è la più solida delle ribellioni. Uno dei miei nipoti è entrato – non so quanto trionfalmente, ma certo con impegno – nella scuola media. Ogni tanto, il mattino, lancia quei suoi messaggini immusoniti di ragazzino che s’ha da svegliare e sbrigare e andare a scuola. Di rimando, provocatoriamente, gli rispondo che l’invidio perché lui entra nel tempio della conoscenza. Spero che sia vero (no che lui entri, ma che sia un tempio di conoscenza). Comunque lui ci sta, probabilmente perché ritiene le mie frasi una provocazione. Studiare richiede tempo. Concepire rivoluzioni profonde richiede isolamento. Leonardo docet. Leggiamo Mastracola. 

«Non so quando abbiamo smesso di abitare la nostra casa interiore, e perché siamo diventati così estroversi.
«Quel che osservo è che conduciamo tutti, chi più chi meno, esistenze convulse, contratte e affollate. In una parola, non abbiamo tempo e non abbiamo spazio. Non sentiamo dire intorno a noi che frasi del tipo: “Ti vedrei volentieri ma non so proprio quando”; “Non riesco più a leggere perché la sera crollo”; “Di giorno non se ne parla, non trovo un minuto”; “Avessi più tempo farei tante cose”.
Seneca ha già detto tutto sull’argomento. La prima cosa che dovremmo fare sarebbe rileggere tutti in massa La brevità della vita. Ci chiamava “gli occupati”: quelli che il tempo ce l’avrebbero, ma se lo occupano con mille attività, perlopiù fatue, non necessarie, rendendo breve una vita che di per sé non lo sarebbe.

«Noi uguale. Massaggi, parrucchieri, palestre, giochini, cene, apericena, chat, corsi di cucina, meditazione, riflessologia piantare. Navigazioni infinite in Internet sul perdere peso, eliminare l’acne, la psoriasi, gli acufeni, le emorroidi. Eliminare anche le infinite mail che ci invitano a eliminare tutto ciò. Navigazioni sui modi di guadagnare lavorando in casa o non lavorando affatto; su come costruirsi una bici, una tenda, una stufa a gas, una zanzariera; cucinare i ceci, le lasagne dietetiche, l’anatra al tè verde; come pulire gli occhiali, lavare il plexiglas, rimuovere le macchie di catrame dalle pinne; accendere un mutuo, fare l’Internet banking, il rendering, lo snorkeling, videogiocare con i bambini, portarli a teatro, alla fiera del cioccolato, a dormire dall’amico, al corso di sub, alla festa di Halloween fino alle due di notte travestiti anche noi da zombie, da streghe, da cadaveri, da zucche, andare a messa, a Roma a sentire il papa, a Torino a vedere la Sindone, a Venezia a vedere Venezia, alla mostra di Gauguin, commedia di Pirandello, partita della Juve, concerto di Jovanotti. E intanto chattare, navigare, messaggiare, twittare, whatsappare.

«Non sono sicura che siamo così felici. A volte mi nascono dubbi, non so da cosa: magari una palpebra che cade, una gota floscia, qualche sospiro che scappa, una frasetta mormorata tra i denti tipo “non ne posso più”. Qualcosa a volte mi dice che vorremmo un’altra vita.
«E cosa facciamo per averla? Niente. Ce ne restiamo buoni, passivi, acquiescenti. Come se ci avessero tutti imbottigliati dentro un treno, tanto tempo fa, poi il treno è partito e non s’è più fermato. Nessuno può scendere, fine.

«Sì, ogni tanto qualcuno protesta, ma per tutt’altro, mai per fermare il treno e andarsene libero altrove. Ogni tanto si fa ancora uno scioperetto, un corteuccio, si firma un appellino contro qualcuno, contro qualcosa, si accendono candele nella notte, lumini, fuochi fatui, ci si applica un nastrino al braccio, una bandierina, uno striscioncino. In segno di protesta, ci diciamo. Ogni tanto magari esce un librino, un urlo nel deserto del tipo: “Indignatevi, protestate, votate, non votate! “. Ecco, al massimo riusciamo un po’ a urlare la nostra rabbia, la nostra speranza. Ma tutto finisce lì.
«Il treno non si ferma.

«Ma siamo sicuri? Magari basterebbe far suonare l’allarme, tirare il freno. Perché non lo tiriamo? Ci è presa un’indolenza, a noi occidentali, a noi italiani. Ci lasciamo portare. Manipolare, ingannare, depistare, usare. Compriamo i prodotti che la pubblicità ci dice di comprare. Mangiamo i cibi che l’industria ci propina e la pubblicità ci dice di mangiare. Vestiamo gli abiti che vestono tutti. Facciamo i viaggi che fanno tutti, diciamo le cose che dicono tutti. Pensiamo tutti uguale: è semplice, ci facciamo dire cosa pensare e poi lo pensiamo. Votiamo, anche, quel che dobbiamo votare. Vorrai mica non votare Tizio, così vince Caio? E giù ricatti. Non vorrai non pensarla come Francesca, non vestirti come Mario, non scrivere come Flaminio?

«Ci siamo uniformati. Però ci riserviamo il diritto di non vestire uniformi. Abbiamo tutti lo stesso telefono. Ma compriamo cover diverse, selezioniamo suonerie solo nostre, e come sfondo mettiamo la foto dei bambini (solo nostri).
Non ci siamo mai sentiti così liberi e originali, e non lo siamo mai stati così poco. Non siamo liberi di fare niente, neanche di continuare a usare un telefono a ruota e non a tastiera (perché non c’è il tasto asterisco), a pressione e non touch (perché non ne fanno più), una cabina telefonica (perché le hanno tolte). Non siamo mai liberi di scegliere. Ci mostrano venti opzioni ma non è vero, di fatto c’è sempre solo l’opzione A: non siamo affatto liberi di non avere la mail, il cellulare, il computer. Se proviamo a ignorare anche solo uno di questi tre mezzi soccombiamo: perdiamo soldi, aerei, amici, coincidenze, affari.»

«E ribellarci?»

da http://www.lamensadileonardo.it/index.html

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