Il progresso tecnologico e la promessa di un’era dell’abbondanza

Una dote del capitalismo è sempre stata quella di suscitare aspettative – a volte radiose, altre terrificanti – su quello che il “sistema” ha in serbo per noi. Queste previsioni sono ancor più cocenti in tempi di crisi e di distruzioni creative.

Fra le previsioni “ottimiste”, ci sono certo quelle di Ray Kurzweil, che hanno ispirato un articolo del Washington Post in cui si affascina il lettore con la promessa di un’ “era in cui i bisogni fondamentali degli esseri umani saranno garantiti dal progresso tecnologico”. Come arriveremo a questa “era dell’abbondanza”? L’innovazione tecnologica nel campo dell’energia pulita sarà condizione necessaria, e la capacità dell’uomo di condividere farà il resto. I dubbi sulle potenzialità del progresso tecnologico vengono spazzati via dall’articolo tramite un parallelo con chi negli anni ’80 aveva decretato l’inutilità dei telefoni cellulari, dovuta all’eccessivo costo e alla scarsa maneggiabilità.

Tuttavia anche la concatenazione innovazione-ambiente-benessere proposta dall’articolo è sbrigativa e si traduce in un lieto fine troppo azzardato. La prospettiva di uno sviluppo sostenibile e di un’economia abbondante sembrano piuttosto – almeno all’interno delle dinamiche capitaliste – un altro miraggio che si aggiunge alla lunga lista delle promesse individuali e collettive che non possono essere mantenute. Questa convinzione, per quanto possa apparire tranchant, si poggia su tre considerazioni, fra loro legate.

1)      L’INNOVAZIONE VA DOVE TIRA IL CAPITALE

Col senno di poi è facile magnificare le grandi innovazioni del passato, spesso sottostimate dai loro stessi inventori. Questi prodotti che oggi vediamo diffusi sono però il risultato di un processo di selezione darwiniana operato dal mercato, e assieme ai grandi successi (il cellulare appunto) non possiamo non pensare ai vari fallimenti (da vari modelli di console di videogiochi ad alcuni aggiornamenti di software, dimenticabili e dimenticati proprio per tale selezione). È difficile stabilire a priori dove sono i margini di innovazione (di prodotto o di processo) realizzabili nel futuro senza incappare in “colli di bottiglia” o imprevisti di vario genere.
Ma c’è di più: la selezione opera appunto sulla base del profitto. E un bene abbondante, per sua natura non genera profitto. Una medicina miracolosa, un cibo salutare e proteico non saranno mai una priorità in termini di innovazione economica. Al contrario, il progresso tecnico nel paradigma capitalista è utile solo finché mantiene intatto il principio di scarsità.

 2)      L’INNOVAZIONE NON CREA UNA BASE COMUNE MA UNA GERARCHIA DI PRODOTTI

L’economia si basa sulla scarsità. I beni di cui tutti possono usufruire, che nessuna persona, nessuna industria deve produrre, non hanno più valore. I telefoni cellulari, sono oggi diffusi ovunque, venduti a prezzi abbordabili. Ma, tuttavia, nessuno ha diritto ad avere un cellulare solo perché ne abbiamo in (sovra)abbondanza. Anziché creare una baseline, un minimo comune denominatore di ciò che unisce una comunità, abbiamo un prodotto differenziato, una meta e non un punto di partenza, a cui tutti aspiriamo ma che nessuno può raggiungere a pieno. Il bene-cellulare, così come decenni di innovazioni lo hanno configurato, è un prodotto di consumo, da aggiornare rapidamente, per cui e con cui spendere soldi. Migliaia di innovazioni incrementali hanno dato vita ad una gamma ampissima di modelli, ciascuno dei quali dotato di un ciclo di vita studiato per prendere da ciascuno secondo le sue possibilità.
Nessun bisogno fondamentale è stato pienamente soddisfatto dalle innovazioni del capitalismo. Certo possiamo produrre cibo OGM a bassissimi prezzi con cui sfamare miliardi di poveri; possiamo anche produrre cibo bio per sfamare miliardi di persone in modo salutare e sostenibile, ma immaginare un cibo-merce che contemporaneamente garantisca sazietà e qualità è capitalisticamente irrazionale.

 3)      L’INNOVAZIONE HA CONSEGUENZE SOCIALI ALTRETTANTO DIFFICILI DA PREVEDERE

Ammettiamo comunque che l’innovazione, malgrado orientata tendenzialmente alla produzione di beni-merce, abbia rivoluzionato l’energia pulita.
Ammettiamo pure che questa innovazione non sia stata incorporata in un bene da vendere ma solo in beni accessibili a tutti e “democratici” (una testa = un bene-energia; tutti i beni-energia valgono uguale tra loro) al di là delle leggi di mercato.
La società dell’abbondanza sembra finalmente a portata di mano, ma nel frattempo il bene abbondante, così come lo avranno trasformato le innovazioni del capitalismo sarà più simile ad una catena che a ciò che avrebbe dovuto essere all’inizio. Le innovazioni mutano l’uso che facciamo dei prodotti, mutano i modi con cui produciamo, mutano i modi con cui ci relazioniamo. Alla fine il cellulare anziché essere un diritto, diventa un dovere. Uno strumento del sistema che l’ha prodotto e innovato, per raggiungere meglio il suo scopo. Tale scopo, è bene ricordarlo, consiste nell’accumulazione di capitale a partire da e per il capitale, ed è massimizzato attraverso un ricatto in cui ciascuno di noi è costretto a vendere il proprio tempo in cambio di merci (necessarie alla sussistenza o a saziare in minima parte la necessità indotta di consumi). E se ieri potevamo pensare che un giorno tutti avremmo goduto della possibilità di alimentare i nostri legami affettivi grazie alla diffusione del cellulare, quel che resta oggi è l’amarezza. Perché il nostro cellulare non è quello che vorremmo, che costa sempre troppo, perché si scheggia cadendo, ti mangia il credito senza che tu te ne accorga. E se poi ti è stato dato dall’azienda per cui lavori, sai già che ti servirà per controllare le tue mail in tempo di ferie, altre alla tua compagna per spiare i tuoi commenti su Facebook.
L’innovazione, dopo aver capitolato di fronte ai “diritti individuali” (alimentazione, salute, ecc.), lascia inattese anche le promesse dei “diritti politici, economici e sociali”. Prendiamo le grandi rivoluzioni dei mezzi di comunicazione, dalla carta stampata a internet. Il processo dialettico con cui innovazione e società si sono evoluti non ha socializzato una coscienza collettiva, piuttosto ha individualizzato tanti profili di consumatore, lasciando inalterata (o quasi) la nostra condizione sociale.

Questi tre punti sono sufficienti a descrivere come i desideri di piena emancipazione e condivisione non possano che essere disattesi dall’innovazione capitalista. La principale abbondanza che giova al sistema, e che quindi viene sviluppata, è proprio quella delle aspirazioni frustrate.  Questa innovazione ci spinge costantemente a (credere di) appagare i nostri bisogni tramite un nuovo acquisto, magari all’ultima moda, sulla frontiera, o semplicemente di lusso, e non può che risultare in un ulteriore sacrificio del nostro tempo e delle nostre energie.

Certo, le briciole di conoscenza sparpagliate dal progresso capitalista esistono, e possono consentire – a chi avesse il tempo di usarle – un’emancipazione individuale o di piccole comunità marginalizzate. Ma non c’è nessun bug nel sistema che consente a tutt* di potersi realizzare, non all’interno del sistema stesso.

Certo le cose cambiano se giudichiamo le innovazioni per come potrebbero essere utilizzate/migliorate anziché per ciò che sono oggi. Ma questo è un altro discorso, tutto da intraprendere.

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