La repressione ai tempi dell’Isis: resoconto della mattanza parigina

Riceviamo e pubblichiamo da Parigi

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Domenica 29 novembre, data pubblicizzata da settimane come grande giornata di sostegno agli sforzi dei nostri democratici governanti nella lotta contro l’inquinamento e le tossicità da centinaia di ong e associazioni varie che insieme formavano la coalition climat 21, un grosso corteo pacifico, festoso e colorato avrebbe dovuto attraversare l’11esimo arrondissement, da république a nation (talmente bellino e folcloristico che anche il comune di Parigi ha deciso di sostenere l’iniziativa).

Noi, come assemblea parigina contro la COP21 -ennesima buffonata della dirigenza mondiale volta a pacificare e non certo a risolvere la questione climatica- ci siamo posti fin da subito il problema della nostra partecipazione, optando infine per un presidio stabile a république, scelta che teneva conto sia dell’importanza della data sul piano della visibilità ma anche della volontà di differenziarsi dal resto della manifestazione su un’onda nettamente più radicale. O almeno questo era il programma fino a poco tempo fa.

Ricordo bene l’assemblea generale dell’Anti-COP21 tenutasi poco dopo gli attentati del 13 novembre e la dichiarazione dello stato d’emergenza, forse per la completa e comune indifferenza che tutti provavamo nelle chiacchere di coloro che pretendono di rappresentarci dopo tutto ciò che era successo; sottoposti a un clima di pressione, l’assemblea decise comunque di mantenere in ogni caso il programma com’era, non spettava certo a noi impaurirci nella speranza di tempi più propizi per far valere il nostro dissenso; la coalition climat aveva già annullato il corteo su pressioni del ministero dell’interno, non ci siamo immaginati neppure per un secondo di andarle dietro. Senza dubitare della legittimità della scelta, ammetto però che una tale presa di posizione mi stupì; come tutti, ero anch’io nel mezzo di un turbine di discussioni quotidiane (forzate spesso dalle circostanze) sul terrorismo, la Siria, il Bataclan eccetera, il che mi aveva spontaneamente portato a pensare allo stato d’emergenza come a un qualcosa di insormontabile.

Dopo l’accoglienza dei convogli ZAD arrivati da tutta la francia con banchetto finale davanti alla reggia di versailles e una buona dormita, domenica mattina ci siamo ritrovati tutti in place de la république, e la giornata si annunciava tesa già da parecchio: il presidio non era autorizzato, e lo stato d’urgenza avrebbe permesso un’impunità diffusa alle violenze della polizia, che già da qualche giorno passava al setaccio i vari squat dell’ile-de-france alla ricerca dei temibili black bloc. Dopo una catena umana fino a nation durata circa mezz’ora (un vano surrogato della marcia, idea delle associazioni ecologiste e sindacati di sinistra alla quale solo i loro membri hanno partecipato), nel primo pomeriggio un piccolo spezzone ha cominciato a girare intorno alla piazza attirando a sé la gente più svariata, tutti pronti a partire in corteo. La piazza ha immediatamente risposto che ci stavamo tutti, che bisognava partire, e in migliaia ci siamo diretti verso l’unico viale il cui accesso non fosse bloccato dalla celere (una tattica precisa per incanalare le nostre forze dove volevano loro, ma non c’era altra scelta). Per un’ora abbondante si è svolta una scena da copione: cariche, arresti, lacrimogeni. E’ stata questa l’unico momento della giornata messo in risalto dai media, con tanto di predicozzo sacrilegista sul fatto che i manifestanti si siano messi a lanciare addosso ai flics persino le candele in ricordo alle vittime degli attentati.

In seguito a un progressivo accerchiamento dell’intera piazza, le forze dell’ordine sono poi passate alla fase di rastrellamento, per inciso senza badare troppo a suddette candele e calpestandole anche loro in modo del tutto indifferente. Per quanto la questione possa risultare spinosa, si può dire senza profanare il ricordo dei 130 morti che quantomeno i manifestanti avevano utilizzato quelle candeline di vetro come mezzo di rottura con l’istituzione poliziesca e gli interessi che essa difende, per una causa che, per quanto discutibile, resta comunque qualcosa in cui quelle persone credevano fermamente mentre scagliavano di tutto addosso ai cani da guardia in divisa.

Piano piano, le forze in piazza hanno cominciato a diminuire, gli arresti erano già più di cento e un gruppo di compagni ha cominciato a capire la tattica della prefettura: la divisione della piazza in settori (c’erano manifestanti sia al di qua che al di là dei cordoni di celere) e un’accerchiamento concentrico, durato più e più ore alla fine del quale ci siamo ritrovati in duecento spalle a un muro e con un semicerchio di decine di camionette tutto attorno. Questa sorta di stato di fermo all’aria aperta, una mossa chiaramente intimidatoria per le mobilitazioni a venire, si è trasformato velocemente in un blocco di persone che, restando costantemente incordonate tra loro, si sono messe a cantare, a ballare e urlare contro una tale repubblicana infamia, un sequestro in piena regola (nel vero senso dell’espressione). Verso sera, parecchio dopo il tramonto, dopo essere riusciti ad acchiappare qualche altro compagno (senza un criterio preciso, giusto per “far numero”), le guardie si sono scoraggiate all’idea di dover passare la notte a manganellarci e strapparci uno a uno ai nostri vicini; la nostra determinazione a non separarci ce l’ha fatta cavare con una rapida occhiata nei nostri zaini e poi tutti a casa.

In tutto gli arresti registrati fino a ora sono più di trecento, cento in più degli stati di fermo confermati dalla prefettura. Numeri grossi, che l’assemblea dovrà gestire nei prossimi giorni con il dispositivo legale preparato meticolosamente negli ultimi giorni. In quest’ondata di repressione si sta palesando una logica “carota-bastone”, in cui ringraziando benevolmente il capitalismo verde promosso dalla COP, il potere pretende anche che ognuno di noi se ne stia al suo posto, zitto, lasciando a esso la facoltà di decidere sulle sorti del nostro pianeta, che già da ora si profilano disastrose; come nel caso della giornata no-expo il 1 maggio scorso, tutti coloro che rifiutano tutto ciò sono da considerarsi pericolosi; “eh sì ma c’era lo stato d’urgenza, e la manifestazione non era autorizzata” si ricorderà sempre ogni cittadino benpensante nel giudicare le pratiche palesemente fasciste messe in atto domenica.

La riuscita della mobilitazione non dipenderà solo dalla giornata di domenica, ma da tante altre date che costelleranno le prossime due settimane, ovvero la durata del summit sul clima. Al capitale, macchina diabolica che sfrutta, schiaccia e incatena, e al suo statal guardiano, promettiamo di far vedere di nuovo e ancora i sorci verdi.

Il motivo che ci ha spinti a rifiutare il delirio securitario di queste giornate difficili è semplice: la loro guerra al terrorismo non è certo il conflitto sociale che i movimenti autorganizzati costruiscono giorno dopo giorno per abbattere ogni forma di oppressione ivi compreso il terrorismo, ed è in questa convinzione che continueremo a difendere le terre, le acque e l’atmosfera del nostro pianeta devastate a causa quegli stessi signori che sedendosi a un tavolo dell’onu pretendono di salvare il mondo.

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