Fermiamo la corsa alla guerra

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Dobbiamo fermare le guerre, quelle in atto, quelle appena dichiarate e soprattutto quelle che si stanno preparando. Deve essere la prima istanza di mobilitazione per il prossimo futuro e non per Parigi, non solo per Parigi.

Quello che è successo nella capitale francese ha toccato le nostre corde più profonde: ma per quale motivo se non perché i morti erano troppo simili a noi, bianchi e ricchi? (eh sì, per quanto se la passi male, il proletariato occidentale gode ancora di una posizione di favore rispetto a gran parte dell’umanità).

Ci sentiamo scossi perché è stata rotta la “pace”, la nostra tranquillità, riscoprendo che la morte non interverrà solo per vecchiaia, o tutt’al più per qualche incidente, magari sul lavoro, ma anche inaspettatamente e violentemente, come in guerra appunto. Sono la stessa paura e lo stesso smarrimento che si sono diffusi dopo l’11 settembre 2001.

Si dovrebbe ammettere, con grande onestà, lo strisciante razzismo che ha seguito agli attentati di Parigi: sarebbe bastato riservare ai fratelli di classe siriani, afghani, iracheni, africani, palestinesi morti a milioni per guerre e embarghi, anche solo un decimo della partecipazione, del cordoglio, del senso di ingiustizia e della rabbia provati per i fratelli parigini e si sarebbe fatto un enorme passo nella direzione giusta.

Il mondo non è in pace: il fatto che dai cieli europei (esclusi quelli balcanici) dal 1945 non cada una bomba non vuol dire che siamo in pace. Hollande sostiene che la Francia sia in guerra ed è così. Ma non lo è da dopo gli attentati di Parigi, lo è almeno dal 27 settembre, quando sono partiti i primi attacchi contro la Siria. E lo era già dal secolo scorso, quando nei decenni ha bombardato l’Iraq, la Jugoslavia, la Costa d’Avorio e l’elenco sarebbe troppo lungo. La Francia combatteva un’aspra guerra anche nel lontano 17 ottobre 1961, quando un altro tremendo massacro si è consumato nella capitale, quello degli Algerini che manifestavano per l’indipendenza dell’Algeria: oltre 15.000 algerini arrestati e centinaia di morti.

E non si creda che sia una questione solo francese. Accanto all’indiscusso primato statunitense, tutto l’Occidente, dall’Italia al Canada, dalla Spagna alla Germania, interviene con le armi nel Sud del mondo per necessità.

Una necessità di guerra che è connaturata al, ed è inestirpabile dal capitalismo, perché la guerra è funzionale alla ragion d’essere del capitalismo stesso, ossia l’accumulazione di profitto.

Anzitutto, il settore di produzione delle armi rappresenta un irrinunciabile volano dell’economia, che si traduce in investimenti immensi a sostegno delle ingentissime spese militari, senza contare le vaste ricadute della ricerca militare sul cosiddetto settore “civile”. Una freschissima conferma di ciò è data dal cospicuo aumento in borsa del valore delle imprese produttrici di armi (Finmeccanica, per fermarsi all’Italia) successivamente agli attentati di Parigi.

La guerra poi è uno strumento indispensabile per distruggere le forze produttive in essere per poi ricostruirle, consentendo al capitale di saziare momentaneamente la sua costante bulimia, la sua tendenza a crescere ad ogni costo. Non è stato il New Deal a far superare la depressione innescata nel 1929, ma lo sforzo bellico della seconda guerra mondiale e la ricostruzione sulle macerie europee che ne è seguita. Non dovremmo mai dimenticarlo a fronte dell’attuale, speriamo ultima, crisi del capitalismo mondiale dalla quale siamo tutt’altro che usciti.

Infine, la guerra è il mezzo per risolvere i contrasti tra imperialismi maturi e nascenti, per l’accaparramento di risorse naturali e nuovi mercati e in questo senso si deve inquadrare una prospettiva di lungo respiro che ha come fine ultimo l’isolamento e l’indebolimento della Cina.

Questa necessità di guerra è pagata in modo violento e immediatamente evidente dai lavoratori dei paesi attaccati, ma in termini e intensità diversi ne fa le spese anche il proletariato del Nord del mondo.

La spesa bellica sta aumentando in tutto il mondo, dal Giappone all’Arabia Saudita, fino anche alla Germania, a scapito di quella spesa sociale che dovremmo difendere con i denti, e che vuol dire sanità, pensioni, istruzione, trasporti. E il budget per la difesa sta aumentando anche in quei paesi, Italia inclusa, in cui da anni si sta ripetendo ilmantra che i soldi sono finiti e che si devono fare sacrifici e dove noi lavoratori stiamo rinunciando pressoché inermi a quanto conquistato con fatica.

Ma la guerra si fa sentire nei paesi ricchi anche per un’altra ragione. Al Sud le guerre creano distruzione e povertà, impossibilità di costruire o anche solo immaginare un futuro: l’Iraq è forse l’esempio più significativo dopo 25 anni di assedio ininterrotto che hanno ridotto il paese in una condizione non molto dissimile dall’“età della pietra”, come preconizzato e auspicato dall’amministrazione Bush padre. Sulle macerie mediorientali, africane e asiatiche lo spirito di sopravvivenza di milioni di donne, uomini e bambini non si arrende e si muove alla ricerca di un posto dove sia possibile semplicemente vivere: il risultato si tocca con mano sulle coste siciliane e sulle frontiere orientali dell’Europa, dove masse sempre più grandi di lavoratori immigrati spingono per reclamare il loro diritto ad una esistenza degna di questo nome, senza chiedersi ogni mattina se arriveranno vivi alla sera, e in quanti.

Il resto dovrebbe essere storia nota: in assenza di una vera, reale solidarietà militante dei lavoratori autoctoni, la forza lavoro immigrata è costretta a svendersi, trascinando al ribasso le condizioni di tutti. Ci sono sempre gli avvoltoi che da qualche scranno, vuoi imprenditoriale o parlamentare, approfittano della situazione per allargare questa divisione tra lavoratori linciando mediaticamente (ma non solo) chi di volta in volta è stato designato come il nemico che mina il nostro benessere e la nostra sicurezza: in origine i marocchini, poi gli albanesi e i rumeni e infine gli arabi-mussulmani.

Ma questa guerra con le bombe che distrugge altrove e procura in locobraccia molto convenienti su cui profittare, è solo un momento particolare di una guerra più generale condotta dal capitale alla ricerca di profitti, ossia la lotta di classe.

Ormai quasi impronunciabile, abbandonata anche lessicalmente dalle coscienze e dal discorso pubblico, la lotta di classe è condotta e riconosciuta come non mai dall’alto, dalla ristretta cerchia di chi trova il mondo così com’è utile ai suoi interessi di accumulatore.

In realtà la lotta di classe condotta dall’alto è una vera e propria guerra al lavoro, mai così accanita come da quarant’anni a questa parte. Solo in Italia si sta attaccando il diritto di sciopero, l’esistenza stessa dei contratti collettivi nazionali: non sono passi indietro, ma la cancellazione della possibilità della lotta (almeno nei desideri padronali). L’Unione Europea sta chiedendo di tassare i consumi e il lavoro per favorire i grandi proprietari, acutizzando la polarizzazione della ricchezza che ha ripreso a correre dopo una stasi nel secondo dopoguerra.

Ovunque si sta tentando di comprimere il lavoro con gli strumenti adottabili nelle diverse realtà: chi nel Sud del mondo non si allinea viene bombardato per non aver scardinato qualche governo ostile agli interessi del Nord; oppure si soffocano per vie traverse le aspirazioni ad un futuro migliore, come nel caso egiziano, che invece aveva cancellato un regime amico. Chi, nei centri metropolitani, si organizza per rivendicare condizioni di vita dignitose e opporsi al neoliberismo (ultima interfaccia del capitalismo) riceve batoste che limitano ex lege il diritto di sciopero, o batoste e basta come nel caso dei facchini in lotta in Emilia Romagna.

Anche questa è guerra e non se ne devono sottovalutare gli effetti, anche se sembrano così distanti da ciò che subiscono oggi i siriani: si tratta di manifestazioni di diversa intensità di un unico processo.

Chi, infatti, solo pochi anni fa, avrebbe mai immaginato che in Grecia, all’interno di quell’Unione Europea spacciata per terra di pace e diwelfare sarebbe ripresa a salire la malnutrizione e la mortalità infantile? Sembravano spettri cancellati da decenni, definitivamente sepolti, richiamati in vita dal dio dell’accumulazione capitalistica che ha preso il nome di debito pubblico.

Questo processo non si fermerà da solo né qui, né in Grecia né in Siria: solo un vasto movimento organizzato di lavoratori che includa realmente chi è immigrato al Nord, e che guardi al di là dei confini nazionali in cui è stato pericolosamente intrappolato, avrà la forza e l’interesse per farlo.

Comitato permanente contro la guerra e il razzismo

da  http://pungolorosso.wordpress.com

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