L’anno in cui la Fiorentina fu campione d’inverno…

Duccio Sorbini

Correva l’anno 1998, ed il 1999 era alle porte. O forse, come mi suggerirebbe l’almanacco calcistico, era già arrivato. Poco importa però, perché l’anno in cui la Fiorentina guidata da Giovanni Trapattoni in panchina ed ispirata dal trio delle meraviglie Rui Costa-Edmundo-Batistuta si laureò campione d’inverno, rimarrà sempre, almeno per me, il 1998. Avevo da poco aggiunto la seconda cifra al conteggio delle mie primavere, e di quel periodo ho ricordi molto vaghi. Per certo però, c’era un amore profondo, sconfinato, quasi malato, di una gran parte di città per la sua squadra di calcio. Molto più tardi avrei imparato che il famoso rettangolo verde ed i 22 giocatori che rincorrono un pallone non ci entravano poi tanto, ma questo allora non mi toccava. Pensando spesso al fatto che sarei voluto nascere in un altro periodo storico, mi dispiace enormemente non aver vissuto gli anni settanta della piazza ed i novanta in curva, ma sono comunque felice di essermi affacciato sui gradoni di uno stadio quando ancora vi si poteva respirare un’atmosfera frizzante. Non so cosa possa provare un ragazzo oggi ad entrare per la prima volta in una curva, probabilmente il posto più sorvegliato d’Italia ed una realtà quasi completamente normalizzata. Sul finire degli anni novanta qualcosa era già cambiato, molto sarebbe successo nel decennio successivo, ma la curva rimaneva un bel posto dove passare la domenica pomeriggio.

Ovviamente, non la pensavano così i genitori di noi più piccoli. Quando i ragazzi più grandi della compagnia – ah sì, perché sembra impossibile ma esistevano le compagnie di quartiere e qualcuno è anche diventato grande senza avere un cellulare in tasca – si ritrovavano per partire alla volta dello stadio, noi venivamo tenuti confinati in casa per paura che li seguissimo. Oggi sento spesso dire che “bello quando tutta la serie A si giocava la domenica alle 15”. In realtà, per quanto tutte le partite fossero in contemporanea, non vi era un orario fisso per il calcio d’inizio. Può suonare forse assurdo oggi, ma il massimo campionato di calcio seguiva le stagioni, iniziando così molto presto d’inverno (penso alle 14 e 30) e molto tardi a fine torneo (alle 16, forse anche alle 16 e 30). Tutto questo per dire che nelle domeniche d’inverno il compito dei nostri genitori era molto più agevole, perché l’inizio delle partite nel primissimo pomeriggio faceva sì che potessimo essere sguinzagliati subito dopo la fine del pranzo. L’apparentemente corretta idea genitoriale era infatti che “tanto ormai chi doveva andare allo stadio è già là”. Noi però non ci perdevamo d’animo, e dopo esserci radunati al nostro tradizionale punto di ritrovo, partivamo verso via Pistoiese. La partita era già iniziata, l’imperdibile tutto il calcio minuto per minuto ci teneva compagnia aggiornandoci sui parziali delle gare, e noi fremevamo nella lunga attesa del 35. Chiunque abbia abitato nella parte nord della città sa bene cosa significhi aspettare il 35 la domenica pomeriggio. Per gli altri basterà ricordare come tutti da queste parti abbiano sempre chiamato questa linea, lo strascica poveri, con chiaro riferimento alle zone popolari raggiunte nel tragitto che si snoda dal centro cittadino verso Pistoia e alla grande calma che è richiesta ai disgraziati che vi devono fare affidamento per spostarsi. I minuti scorrevano via veloci, gli aggiornamenti alla radiolina da tutti i campi si affastellavano, e dio solo sa quanto speravo di vedere comparire all’orizzonte la sagoma del 35. In Piazza Puccini cambiavamo con il 17, e via veloci – si fa per dire, ovviamente – verso la stadio. Nel frattempo i giocatori erano già rientrati negli spogliatoi per il canonico tè caldo e si preparavano alla seconda frazione di gioco. A questo punto in molti si staranno chiedendo, ma perché facevate tutto questo?

La risposta non la troverete mai girando attorno ad uno stadio a partita iniziata oggi: tornelli e zone di pre-filtraggio tengono gli indesiderati senza tagliando a grande distanza dai varchi di ingresso. Probabilmente anche le cronache del tempo non vi potranno aiutare molto, dubito infatti che qualcuno si sia mai messo a raccontare del brulicare che c’era fuori dai cancelli. Vi garantisco però, che un’indistinta, magmatica, colorita folla si accalcava fuori dallo stadio, chiedendo con insistenza ai bigliettai – come venivano chiamati quelli che strappavano i tagliandi all’ingresso – di poter entrare. Tutto si basava sul piacere di vivere e palpitare, anche se la partita non poteva essere vista, con lo stadio che più della telecronaca delle radioline accese trasmetteva il senso, attraverso il suo strepitare, dell’incedere dell’azione. Ancor di più però, chi stava fuori dai cancelli faceva largo affidamento sull’antica usanza di aprire le porte negli ultimi minuti. Cosa questi “ultimi minuti” significassero era ovviamente materia di aspro contendere tra i bigliettai e noi che del biglietto ne eravamo fieramente sprovvisti. Fatto sta che le persone più grandi – perché fuori dai cancelli c’erano un po’ tutte le generazioni – cominciavano subito ad inizio secondo tempo a fare pressioni. Andava quindi in onda un lunghissimo tira e molla che si risolveva negli ultimi minuti della gara con l’apertura delle porte e la nostra folle corsa su per le scalinate che conducevano ai gradoni dello stadio. Quanta partita riuscivamo a vedere? Beh, poca, pochissima direi. Ricordo che in un Fiorentina-Piacenza il goal viola mi colse mentre stavo salendo gli ultimi gradini. Fossi stato il protagonista di un film americano – ne sono sicuro – avrei visto la palla entrare in fondo al sacco, balzando su giusto in tempo per godermi l’attimo fuggente. Mi dovetti accontentare della curva in tripudio e vi assicuro che nessuna sceneggiatura di Hollywood potrà mai valere tanto. L’almanacco mi suggerisce che quella fu la rete della vittoria siglata da Carmine Esposito, attaccante di scorta da tutti conosciuto, almeno dalle mie parti, come i’guercio, per via del suo sguardo un po’ così. Volete sapere il minuto? Il novantesimo esatto. Ma quindi perché si faceva tutto questo, solo per vedere il recupero? Ovviamente no.

Lo stadio era un rito collettivo, una scusa per stare insieme, un luogo dove correre per non rimanere anche la domenica a bighellonare come negli altri pomeriggi della settimana negli anonimi quartieri di periferia. Oggi mi sembra tutto cambiato. E lo dico con tutta la malinconia – che si sa essere canaglia – possibile, ma dissimulandola quanto basta per non farsene travolgere. Sono infatti sicuro che quando la Fiorentina scende in campo non ci sono più ragazzi che partono da via Pistoiese con il cuore in mano per vedere gli ultimi scampoli di partita. Qualcuno rimane sul divano del proprio salotto, altri magari sono presenti all’evento. Ma tra la Fiorentina e Firenze non esiste più quel legame viscerale che c’era un po’ di anni fa. Oggi si va allo stadio come ad un concerto, si fissa con altri ragazzi che hanno il nostro stesso interesse e via ci si incontra in modo apposito per questa gara contro questo specifico avversario. Per noi era diverso. Era una parte importante e costitutiva dell’identità della nostra compagnia. Ho visto ragazzi odiare il calcio e gira tutta l’Italia per seguire la Fiorentina. Altri scoprivano solo quando si partiva per andare allo stadio la squadra contro cui si giocava. Se poi qualcuno guardava il calendario era per la tifoseria avversaria e non certamente per il blasone di chi scendeva in campo. Atalanta e Brescia erano gare più attese di quelle contro il Milan e l’Inter – tanto per rimanere alle lombarde. Tutto per noi cominciò in quelle interminabile attese in via Pistoiese con il 35 che non arrivava mai ed il bigliettaio allo stadio che non apriva quei maledetti cancelli. Magari a qualcuno possono sembrare pomeriggi buttati, penso in realtà di non aver mai speso meglio il mio tempo.     

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