Agosto 1991: l’ultimo atto dell’Urss

L’ultima fase di vita dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS), come tale, corrispose alla Presidenza Gorbachev: l’estremo tentativo di quel sistema di rispondere alla propria crisi con una “apertura”, anche formale, verso il resto del mondo capitalistico. Tale tentativo si chiuse, politicamente, con gli avvenimenti di esattamente venticinque anni fa.

Preceduto dallo scioglimento del COMECON (Consiglio per il mutuo aiuto economico), avvenuto il 28 Giugno ’91, e da quello seguente, formalmente avvenuto il 1° Luglio, del Patto di Varsavia (il patto politico che si affiancava al COMECON e teneva legata l’URSS ai cosiddetti “Paesi satelliti”, in contrapposizione alla NATO), il mese di Agosto fu davvero il mese più difficile, quello del “crollo politico”. Proprio allora parte della “nomenklatura” dell’URSS tentò il colpo di stato: il 19 Agosto il vice di M. Gorbachev, G. Janaev, il Primo Ministro V. Pavlov, il Ministro della Difesa D. Yazov, il Ministro dell’Interno B. Pugo, il capo del KGB V. Kryuchkov, ed altri funzionari minori, si unirono per impedire la firma del “Nuovo Trattato dell’Unione”, formando il “ Comitato generale dello stato di emergenza”; alla firma di tale trattato, che doveva trasformare l’Unione Sovietica in “Federazione di Repubbliche Indipendenti” con un presidente in comune, la Russia del Presidente B. Eltsin si dichiarò ufficialmente pronta il giorno successivo, il 20 Agosto.

Nonostante i carri armati nella Piazza Rossa di Mosca, disposti da Janaev e dal Comitato, le loro strane previsioni di un diffuso sostegno popolare furono, ovviamente, disattese: la popolazione nelle grandi città e nelle altre repubbliche risultò in massima parte contro di loro. Il Presidente russo si affrettò a condannare il colpo di stato, nonostante il fatto che, sul piano formale, fosse diretto contro il suo rivale politico Gorbachev, e fu così che migliaia di persone a Mosca uscirono in strada per difendere il Parlamento russo, facendo anche fallire, tra l’altro, il clamoroso tentativo di arresto di Eltsin.

Il 21 Agosto il “golpe” fallì del tutto, con l’arresto dei suoi organizzatori: la resistenza degli ultimi “paladini” dell’URSS era durata solo tre giorni! Fu il “colpo di grazia” per la figura di Gorbachev, che il 24 si dimise dalla carica di Segretario del PCUS: aveva “perso i comandi” della stessa URSS, che egli, agli occhi del mondo intero, rappresentava, mentre stava crescendo la popolarità di B. Eltsin, peraltro con il plauso di tutto l’Occidente, al quale continuava a disturbare, sul piano socio-economico, il semplice riferimento ai “soviet”, anche se, ormai, erano diventati tutt’altra cosa da quelli della Rivoluzione d’Ottobre. Il 29 Agosto si sciolse lo stesso PCUS.

L’epilogo dei fatti di Agosto si sarebbe avuto poi a Dicembre: l’8 Dicembre del 1991, infatti, i premier di Russia, Ucraina e Bielorussia si riunirono a Belavezskaja Pus’ca, in Bielorussia, per firmare “l’Accordo di Belavezskaja”, che dichiarava dissolta l’Unione Sovietica, sostituendola con la “Comunità degli Stati Indipendenti (C.S.I.)”. Il 12 Dicembre fu completata la secessione della Russia da ciò che restava dell’ Unione Sovietica. Il 25 Dicembre, poi, Gorbachev si dimise da presidente dell’Unione Sovietica, e tutti i poteri in Russia passarono al suo presidente, B. Eltsin. Nello stesso giorno la bandiera Sovietica sopra il Cremlino fu ammainata e sostituita con il tricolore Russo, mentre il giorno dopo, il 26 Dicembre 1991, il “Soviet Supremo” riconobbe formalmente la dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Il tentativo di Gorbachev era partito pochi anni prima, l’11 Marzo 1985, con la sua elezione a Segretario Generale del Partito Comunista. Le sue parole d’ordine, legate ad una profonda riforma del sistema, erano state “Perestrojka”, cioè “ristrutturazione”, e “Glaznost”, cioè “trasparenza”. Se da un lato tale politica portò alla fine della “Guerra Fredda” e di un certo tipo di contrapposizione con l’Occidente, quella del cosiddetto “campo socialista”, dall’altra rese pubblici i problemi economici dello Stato, fino a quel momento tenuti nascosti, e, di fatto, contribuì ad accelerare il definitivo crollo dell’URSS, con la destabilizzante reintroduzione di forme di diretta proprietà ed iniziativa privata. La concorrenza sul piano commerciale con l’Occidente non era certo cessata, infatti, e, proprio nel Settembre ’85, l’Arabia Saudita (probabilmente con la complicità degli USA) aumentò notevolmente l’estrazione di petrolio, facendo crollare sul mercato mondiale il suo prezzo, e mettendo ancor di più in difficoltà l’URSS, che proprio sulla vendita del petrolio e del gas poggiava gran parte delle sue esportazioni…

Ora l’indebolimento dell’URSS veniva percepito anche tra i Paesi del suo “campo”, che, fra l’altro, avevano rapporti di scambio con l’URSS svantaggiosi nel breve periodo, col miraggio dei “vantaggi” a lungo termine, necessariamente visti con ostilità da popolazioni che non avevano vissuto alcun cambiamento sociale interno in senso favorevole agli interessi proletari. Fu così che, al loro interno, si svilupparono forze centrifughe che, basandosi sui nazionalismi locali, del resto mai cessati, puntavano apertamente allo sganciamento dalla tutela sovietica, in nome della loro identità nazionale. In Lettonia, ad esempio, il 23 Dicembre ’86, al grido di “Lettonia libera” migliaia di giovani marciarono per le strade della capitale, anche se poi la polizia represse duramente la manifestazione con scontri che portarono fino all’incendio di alcune camionette. Ma “la pentola era scoperchiata”! Passati nemmeno due anni, in tutti gli Stati del Baltico prevaleva un sentimento anti-sovietico, espresso da locali “fronti popolari”, che ne assunsero la guida, mentre nel Caucaso le perduranti tensioni nel Nagorno-Karabakh si trasformavano in aperta guerra civile, fuori controllo.

Sempre nel 1988, le riforme liberiste di Gorbachev andavano avanti, anche se lentamente per via delle perplessità prima, e resistenze poi, dell’apparato burocratico del Partito, resosi conto di quel che poteva significare per esso. Il 29 Novembre ed il 1° Dicembre venne messo mano all’ordinamento statale della Costituzione Sovietica del 1977, promulgando una legge sulla riforma elettorale, e fissando poi il 26 Marzo del 1989, come data delle elezioni di un nuovo “Congresso dei Deputati del Popolo dell’URSS”,.

L’intrecciarsi delle “riforme” politiche di Gorbachev con la perdurante crisi economica dell’URSS, nella sua contraddizione nazionale fra economia centralmente pianificata ed internità ai rapporti intercapitalistici sul piano internazionale, stavano creando le condizioni del “collasso” prima descritto: nel 1989, infatti, l’URSS chiese un prestito di 100 miliardi di dollari ai Paesi occidentali, per pagare le importazioni di frumento, di cui aveva urgente bisogno. Ma tra il Maggio e il Novembre dello stesso anno avvenne uno degli avvenimenti più importanti, e che agevolò la caduta dell’URSS. La democratizzazione dell’Ungheria, infatti, portò il governo di Budapest allo smantellamento della “Cortina di Ferro” al confine con l’Austria. Appresa la notizia, i tedeschi dell’est si diressero a migliaia verso l’Ungheria ed attraversarono il confine con l’Austria. La Germania Est entrò in fermento, ed i suoi governanti, abbandonati a se stessi dalla politica di Gorbachev, si dimisero in gran numero, finchè il 9 Novembre 1989 venne annunciata l’apertura del Muro di Berlino: dopo 28 anni crollava il simbolo della divisione in due della Germania e dell’Europa, decisa a Yalta dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale, USA ed URSS in testa.

Il 7 Febbraio del 1990 il Comitato Centrale del PCUS accettò le proposte di Gorbachev, e così tutte e quindici le repubbliche che formavano l’URSS, dopo lo scioglimento dello stesso Partito, che avvenne entro il mese, dovevano tenere “libere elezioni” multipartitiche entro il ’90; queste avvennero regolarmente, ed in sette di esse andarono al governo fronti o partiti nazionalisti, che poi si dichiararono indipendenti da Mosca. Il 17 Marzo del 1991 si tenne un referendum in tutti gli Stati, ed il 76,4 % votò per il mantenimento di una Unione Sovietica riformata. Tale tesi prevalse dove si votò, mentre i tre Paesi Baltici, l’Armenia, la Georgia e la Moldavia, boicottarono il referendum.

Fu una “vittoria di Pirro” anche questa per Gorbachev, il quale, candidatosi alle elezioni presidenziali in Russia, le perse: il 12 Giugno 1991, sedici giorni prima dello scioglimento del COMECON, infatti, Eltsin vinse con il 57% dei voti. Come già visto, fallì poi anche il tentativo di Gorbachev di spostare dal Partito il centro della gestione del sistema direttamente allo Stato: un sistema sociale, ormai basato solo sul potere, anche economico, dell’alta burocrazia, che lo esercitava in modo rigidamente repressivo, non poteva facilmente riconvertirsi nelle tradizionali forme della democrazia borghese, e specialmente in un periodo di crisi economica.

Non è compito di questo articolo l’andare ad individuare la complessa fenomenologia che, nel tempo, ha portato dalla nascita al crollo dell’esperienza dell’URSS, nonché al conseguente cambiamento di tutto il quadro di riferimento dell’assetto internazionale, caratterizzato, dopo la Seconda Guerra Mondiale, dalla cosiddetta “Guerra Fredda”, una guerra vera e propria da cui l’URSS uscì definitivamente sconfitta nel ’91. La spartizione imperialista post-bellica del mondo in zone di influenza aveva portato, infatti, ad un bipolarismo USA-URSS, che aveva caratterizzato tutta la successiva fase di sviluppo capitalistico internazionale, dal “dopoguerra” in poi.

In questa sede riteniamo solo giusto ricordare che già l’impostazione politica dell’URSS di Stalin non aveva più nulla a che vedere con i cambiamenti avviati dalla Rivoluzione d’Ottobre; e ciò ben prima della Seconda Guerra Mondiale, con la progressiva degenerazione della Terza Internazionale, sciolta formalmente nel ’43 e da troppo tempo, di fatto, asservita alla politica nazionale di Mosca, il presunto “Paese solo” del socialismo in costruzione, che aveva, fra l’altro, perseguitato diversi dirigenti bolscevichi, e con le manovre sul piano dei rapporti statuali con gli imperialisti occidentali, che, in occasione della Guerra, sono perfino passati dall’iniziale alleanza con la Germania di Hitler (con il famigerato Patto Molotov-Ribbentrop) alla successiva contrapposizione con essa a fianco dell’altra alleanza imperialista.

Il processo di transizione al socialismo, che la Rivoluzione aveva innescato, si era, infatti, cristallizzato, per una serie di motivi, che non possono essere qui né enunciati, né tantomeno sviluppati, in una fase, che, dal punto di vista economico, era “capitalismo di Stato”: la struttura, cioè, era rimasta la stessa, con il solo cambio di proprietà, pubblica invece che privata. Tale cristallizzazione, legata anche alla mancata estensione sul piano internazionale del processo rivoluzionario, dapprima ha fermato il cambiamento sociale, ed in un secondo momento, dato che, purtroppo, con la lotta di classe le conquiste proletarie non sono irreversibili, ha sviluppato in URSS uno specifico processo di completa restaurazione capitalistica, con quel che ne consegue.

Nel ’45 l’economia dell’URSS era seconda solo a quella USA per volume di produzione, nonostante il fatto che lo sforzo bellico aveva decimato uomini e distrutto mezzi, soprattutto in agricoltura, ma non solo. La “ricostruzione” fu dura, nella contrapposizione concorrenziale alla superpotenza americana: i decenni che seguirono la fine degli anni 40’ del secolo passato, furono concentrati dall’URSS sullo sviluppo forzato dell’industria pesante (fonderie, acciaio, siderurgia, e meccanica) quasi esclusivamente per l’apparato militare (carri armati, missili, aerei, navi da guerra e sommergibili, in grande quantità), anche a discapito del resto dell’economia. Ciò favorì lo sviluppo interno di un mercato parallelo (mercato nero) prima tollerato, ma poi utilizzato dai personaggi più “spregiudicati” dell’apparato pubblico per arricchirsi, ed aumentare così, con la corruzione dilagante, il potere personale.

Negli anni ’60, nonostante i successi nella missilistica (russo il primo uomo nello spazio), la crisi agricola diventava sempre più grave, tanto che nel 1963 l’URSS fu costretta per la prima volta ad acquistare cereali da altri Paesi: ingenti quantità di grano vennero acquistati dal Canada, 6.800 milioni di tonnellate per esattezza, e poi altri 1.800 milioni di tonnellate dall’Australia, e piccoli quantitativi da vari altri Paesi, tra cui la Romania (400.000 tonnellate). Per far fronte a questi acquisti, l’URSS dovette vendere 40 tonnellate di oro, stimate oltre 45 milioni di dollari di allora, mentre dal ’65 fu introdotto il principio dell’autonomia economica delle singole imprese.

Dopo una congiuntura favorevole negli anni ’70, dovuta all’aumento del prezzo del petrolio sul mercato internazionale e ad alcuni buoni raccolti di grano (’73, ’76 e ’78), ed in cui si puntò al decollo dei consumi interni e dell’industria leggera, riprese campo più che mai il “confronto” militaristico con l’Occidente: i costi in risorse per gli armamenti aumentavano ancora, anche con l’incapacità di trasferire lo sviluppo tecnologico militare, soprattutto informatico, nel mondo civile, mentre la situazione agricola continuava a peggiorare. Si trattava, dalla caduta del prezzo del petrolio dell’85-’86 in poi, di una situazione insostenibile, tenuta in piedi, ormai, solo dal potere autoritario dei vertici: l’ultimo atto, in cui terminò l’impossibile “autoriforma” di Gorbachev, sarebbe comunque avvenuto, prima o poi; si tratta oggi, come comunisti, di guardare anche a quanto successo, analizzandolo da un punto di vista materialista storico dialettico, per non ritrovarci più in percorsi falliti e perdenti.

 Alternativa di Classe

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