L’università è nostra!

Bisogna cercare in mezzo all’inferno

ciò che non è inferno, e farlo durare e dargli spazio…

(Italo Calvino, Le città invisibili)

Scuole e Università sono di nuovo in rivolta. L’attacco al mondo della formazione e della ricerca, oggi più di ieri, riflette il piano complessivo di asservimento dei corpi e dei saperi alle logiche del profitto che il sistema neoliberista sta violentemente imponendo in tutti i settori della società. La crisi economica ha due facce: da un lato è la dimostrazione che il sistema è instabile; dall’altro costituisce l’occasione di un offensiva che lacera il tessuto sociale esistente e chiude le prospettive di futuro ai molti, al fine di ripristinare un ordine economico e sociale selettivo e senza garanzie. Mai come ora è necessaria questa forte risposta, affinché suoni non solo un canto di speranza, ma soprattutto la percezione di una possibilità concreta di vincere.

A distanza di due anni dalla grande mobilitazione dell’Onda contro la legge 133, la preoccupazione e la disperazione di studenti, ricercatori e precari è riesplosa stavolta contro il ddl 1905, e si oppone ad una università il cui accesso è sempre più messo in discussione da dispositivi correttivi deleteri come aumento delle tasse, diminuzione di fondi per borse di studio e ricerca ed esternalizzazione dei più basilari servizi. Dall’introduzione del 3+2 , all’introduzione dei cfu come sistema quantitativo delle competenze acquisite, l’università è diventata sempre più un contenitore che sforna costantemente un esercito industriale di riserva ricattato e ricattabile dal mercato del lavoro. Nel frattempo l’alta formazione delegata a master e poli specialistici ad alto costo ne pregiudica di per sé l’accesso a molti studenti/lavoratori con difficoltà economiche. Il merito tanto decantato dalla retorica propagandistica del governo viene così a scontrarsi con l’impossibilità economica di accedere a tali poli d’eccellenza, determinando così università di serie A e serie B, una per i figli dei ricchi ed una per i disperati, in un quadro in cui l’inserimento quasi maggioritario di privati all’interno degli organi decisionali condiziona fortemente la libertà della ricerca.

In risposta a questo vero e proprio assedio gli studenti, i ricercatori e i docenti di tutto il paese hanno posto di nuovo l’attenzione sulla centralità della cultura e sulla necessità di difenderla a qualunque costo, mobilitandosi in varie forme durante la settimana precedente alla votazione alla camera del ddl 1905. In molte università (come a Roma e a Pisa) è stato infatti chiesto e ottenuto il blocco della didattica come segnale istituzionale di unità nella protesta, si è saliti sui tetti, si è scesi nelle piazze bloccando punti nevralgici come stazioni e autostrade, occupando i luoghi simbolici più importanti delle nostre città. Inoltre molte facoltà sono state occupate, esprimendo un alto indice di dissenso e di conflitto e provocando l’interesse di tutti.

A Napoli il 29 novembre presso la facoltà di Lettere e Filosofia della Federico II si è tenuta un’assemblea molto partecipata che ha espresso l’intenzione di mantenere alto lo stato di agitazione. Si è deciso di procedere in Rettorato e chiedere al Rettore il blocco della didattica per il giorno seguente, 30 novembre, in cui sarebbe stato discusso e votato alla Camera dei Deputati il decreto. Blocco che avrebbe consentito non solo una larga possibilità di partecipazione degli studenti al corteo indetto proprio per il 30, ma avrebbe significato una ben più importante assunzione di responsabilità dell’istituzione di contrastare il progetto della riforma. Dinanzi a un così irragionevole rifiuto gli studenti in assemblea hanno deciso di occupare la sede di Porta di Massa, per dare un segnale di forte contrarietà alla riforma e per iniziare un vero e proprio laboratorio politico che costruisse assieme al resto del movimento napoletano una strategia di lotta comune.

L’occupazione ha innescato la partecipazione attiva di tutte le componenti interessate a portare avanti una forma di protesta discussa giorno per giorno all’interno di assemblee. Tale forma di protesta nonostante precluda la prosecuzione ordinaria dell’attività didattica non lede – sentiamo profondamente di poterlo affermare senza alcun dubbio – il diritto allo studio che invece un’eventuale approvazione incontrastata della riforma eliminerebbe di fatto. Il diritto allo studio non è il diritto a seguire un singolo corso per il conseguimento di un esame e di un certo numero di crediti; non è neanche il conseguimento di un titolo di studio di cui la stessa riforma tende ad abolire il valore legale. Diritto allo studio è permettere a tutti, indipendentemente dall’estrazione sociale, di accedere a un sapere libero e critico. Di conseguenza, essere studente vuol dire assumersi la responsabilità di difendere tale diritto, anche a costo di sacrificare alcune ore di lezione. Essere studente significa sapersi destare dal sonno al momento opportuno e aprire gli occhi; sapersi fermare e non aver paura di prendersi tutto il tempo necessario per imparare a vedere, analizzare, criticare e agire. Essere studente vuol dire amare la cultura e far sì che essa viva, difendere i luoghi in cui essa abita, impegnarsi affinché le istituzioni atte a rappresentarla si svincolino da mortifere logiche di mercato; vuol dire impegnarsi affinché essa non perda mai il contatto con la realtà circostante e non ceda a una sterile autoreferenzialità – pericolo già insito nell’attuale sapere accademico -.

Ancora come una sfida pronunciamo le seguenti parole: l’università è nostra in quanto la amiamo e la difendiamo. Non esistono questioni di occupazione o non occupazione, ma solo il prendere parte a una lotta già in corso e di conseguenza la questione diventa altresì: i mezzi adeguati alla vittoria. Ovvero il ritiro della riforma e l’apertura di uno spazio possibile per immaginare l’università che desideriamo. Ma ragionare dei mezzi vuol dire innanzitutto condividere gli scopi.

Vogliamo dunque costruire, assieme a tutti coloro che si mobilitano, un’università dove il sapere si interroghi sul suo senso nel turbine velocissimo del mondo contemporaneo, e che rivendichi il privilegio di essere in se stessa il luogo ove si decide cosa è culturalmente significativo. Ma anche un luogo assai più vivibile e attraversabile di quanto non sia oggi, aperto fino a tarda sera, come le piazze e i parchi. Un luogo aperto a concerti al suo interno, aperto a portarsi fuori: nei teatri, nelle piazze, nelle biblioteche, per esprimere la connessione inseparabile tra tutti gli ambiti della cultura. Le biblioteche aperte come nel resto d’Europa fino almeno alle ore 22. Addirittura osiamo immaginare una università dove possiamo portare i bambini, i nonni, gli amici, e dove possiamo fare ginnastica, giocare e fare musica. Attività che oggi spesso sono possibili solo grazie alla presenza di spazi occupati dagli studenti e sottratti all’ormai proverbiale grigiore di chi gestisce gli spazi istituzionalmente.

Il profitto è ovunque. Tende i suoi tentacoli su ogni forma di vita. Non è solo il sapere ad essere messo a rischio da una violenta privatizzazione. Oggi una lotta che si voglia radicalmente conseguente non può eludere la cornice complessiva di aggressione all’ambiente, alla salute, al lavoro e alla dignità della vita. Da qualunque lato lo si guardi, il presente porta in sé la necessità di una resistenza coraggiosa e integra a questi decisivi attacchi. La lotta contro le discariche e per un piano integrato dei rifiuti; contro la privatizzazione dell’acqua; contro la monopolizzazione delle risorse energetiche rinnovabili e non (ovvero inclusa la logica di estrazione di profitto che sta dietro la cosiddetta green economy); contro la precarizzazione del lavoro, i licenziamenti e la cassa integrazione; per i diritti dei migranti barbaramente sfruttati come manodopera a basso costo per le nostre imprese; per una mobilità metropolitana che non paghi i costi di un’incapacità gestionale che ad esempio porterà a Napoli i biglietti dei trasporti a raddoppiare. La rivolta nelle università è strutturalmente congiunta al desiderio di riappropriarsi della possibilità di un futuro luminoso, dove i corpi e i beni non siano sottoposti allo sfruttamento e alla mercificazione. Se si adegua al compito tecnico che il presente le impone, l’università è chiamata ad avere un ruolo strettamente funzionale a tutta questa perversa dinamica. O può decidere, vista la centralità dei saperi nei processi di formazione delle soggettività resistenti, di costituire un percorso di alternativa esplosivo e fiero. L’università deve necessariamente prendere una posizione e la prenderà in ogni caso, anche se dovesse non prenderne esplicitamente alcuna.

Assemblea Lettere Occupata

6/12/2010

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67 risposte a L’università è nostra!

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