Difendere i beni comuni per combattere la precarietà di vita

[La crisi, l’acqua e il diritto all’insolvenza]
Nell’era della crisi infinita, praticare l’insolvenza significa non pagare l’austerity.
Pratiche individuali già ne esistono nella società italiana che presenta tassi di evasione fiscali altissimi, in cui aumenta a dismisura il numero dei protestati, di chi non paga più le multe, il canone rai, il biglietto dell’autobus e così via.
Ciò che è necessario mettere in campo sono pratiche di rivendicazione collettiva di pezzi di reddito che ci spettano e che dall’alto non cadrà mai.
Ancora una volta, ribadiamo che il reddito di base universale è un obiettivo da conquistare per garantirsi il diritto all’esistenza in un mondo quasi completamente mercificato e che vogliamo cambiare.
Il reddito per noi ha sempre significato per esempio, a partire dalle nostre vite precarie, occupare casa e così non pagare l’affitto e, così, non solo potersi mantenere ma addirittura poter lavorare meno, accettare meno lavori di merda e persino fare una vita politicamente attiva.
La casa è un pezzo di reddito ma da sola non può bastare!
“La crisi non la paghiamo” gridavamo 2 anni fa e, invece, ce l’hanno completamente scaricata addosso aprendo non solo una frana dell’economia ma una ben più larga e profonda crisi di un sistema di rappresentanza, di modello sistemico e culturale e di quell’incrollabile fede nell’ultima ideologia rimasta: il capitalismo.
Ma questo rappresenta oggi uno dei dati più interessanti, proprio perchè questa crisi ha aperto la possibilità, anche semantica, di immaginare una possibile alterità.
Uno degli esempi più forti è quello del referendum di giugno. Improvvisamente una popolazione da molti anni disabituata e disillusa afferma chiaramente che l’acqua non si tocca. E fino a qui va bene perchè l’acqua, emotivamente, è elemento madre: intuitivo e emozionale.
Ma in realtà qualcosa in più c’è.
C’è una campagna fatta dal basso, strada per strada, ci sono spazi di comunicazione guadagnati metro per metro, ci sono ragionamenti lunghi anni che conquistano e si diffondono veloci; l’acqua diviene un paradigma nella società italiana. Non solo tra cittadini ma anche nel dibattito pubblico. I beni comuni sfondano e divengono elemento semiotico riconosciuto, una linea. Forse una barricata.
Le persone dicono infatti con il loro voto che non sono più disposte a sacrificare tutto sull’altare del mercato; la religione neoliberista vacilla anche da noi.
I privatizzatori, bipartisan, si trovano improvvisamente sconfitti e, con loro, anni di beni pubblici saccheggiati a man bassa, ricette in cui le persone sono divenute risorse umane, in cui il mercato del lavoro doveva essere flessibile fino a divenir eprecario, l’innovazione e la garanzia passava per le formule innovative del profitto privato.
Ma ancor di più accade: si forma un ragionamento collettivo sul superamento tra pubblico e privato e che afferma il comune.
In questo contesto chi governa la crisi continua ad affermare che c’è un debito, e c’è, a carico di tutta la società. O meglio a carico di quella parte della società, enormemente maggioritario, che non lo ha contratto.
E questo rientra chiaramente in un circolo vizioso: chi ha fatto profitti sulla nostra vita ha prodotto la crisi e ora vuole che paghiamo il suo debito aumentando esponenzialmente lo sfruttamento della nostra vita stessa.
Per questo, ad oggi, non hanno ancora applicato il referendum e fanno di tutto per aggirarlo. Esattamente come ignorano volutamente le strenue resistenze che molti territori in tutta Italia, a partire dalla Val di Susa, fanno alle così dette grandi opere in cui si ignora completamente quello che è il bene comune e si opta per il profitto privato.
Ma il movimento dell’acqua ci offre un’ulteriore riflessione, quella della contrapposizione diretta con quelli che di volta in volta abbiamo definito privatizzatori, sfruttatori, precarizzatori. Infatti Il Forum italiano dell’Acqua sceglie di lanciare una campagna per l’applicazione del secondo quesito referendario, proprio quello sulla remunerazione del capitale: profitti garantiti in bolletta. E proprio in questa proposta noi vediamo una delle possibilità di non pagare, ancora una volta, di sottrarci al pagamento della crisi generata dal capitale, di poter praticare il diritto all’insolvenza. Il diritto a scegliere il non pagare il debito altrui perchè, quel debito, è una parte del profitto del mercato.
Perchè scegliere di non pagare non è solo una sottrazione dal mercato e dallo sfruttamento di quello che è di tutti ma è anche, implicitamente, una provocazione ed una presa di parola ben chiara.
Una forma conflittuale di praticare contenuti radicali, una delle possibili affermazioni del nostro: “Noi la crisi non la paghiamo” . Che da slogan diventa pratica concreta.
Scegliamo di condividere la nuova campagna lanciata dal Forum Italiano dei Movimenti per l’acqua perché, quella del diritto all’insolvenza, deve essere una pratica quotidiana, perché se il piano individuale diventa coordinato e quindi collettivo, se diventa riproducibile e capillare sui territori potrà veramente fare male al sistema.
Questa è la forza che leggiamo nella campagna “Obbedienza Civile”, che volendo rispettare la volontà popolare chiede l’immediata eliminazione dalle tariffe della percentuale che garantisce i profitti procedendo, nel caso in cui questo non avvenisse, all’autoriduzione collettiva delle bollette.
Scegliamo di condividere questa campagna perché non si limita a contrastare le privatizzazioni, in una fase storica in cui più nessuna mediazione è possibile, perché utile solo a riprodurre il sistema che ci ha portato fin qui, ma anzi propone pratiche concrete dell’alternativa e della partecipazione.
E in questo ci ricorda tanto la proposta insita nello sciopero precario visto come sciopero politico e non come momento di precipitazione vertenziale per chiedere aumento del salario o garanzie di alcun tipo rispetto ad un determinato settore o contratto, ma che pone al centro il punto di vista precario e mostra la potenza dei precari non la loro debolezza, la complessità della precarietà non il suo atomismo, rilancia per tutti e non per qualcuno.
Come precarie e precarie abbiamo scelto da tempo che volevamo sottrarci allo sfruttamento del mercato e che volevamo stabilire forme di cooperazione e cospirazione per organizzarci al di fuori di contesti sindacali o politici che difficilmente riescono a leggere la precarietà. In questo il movimento si addice maggiormente, secondo noi, ad affrontare concettualmente e praticamente l’attacco che viene mosso a tutti noi.
Perchè la difesa dei beni comuni è un piano di ricomposizione nel quale riconoscersi e riuscire a superare quella divisione forzata di ognuno di noi, delle nostre storie e delle nostre vertenze. Esattamente quello che è rappresentato dalla parcellizzazione a cui sono sottoposte le nostre vite precarie.
Ma anche perchè sappiamo che sono alla base della nostra stessa vita e, dunque, anche della stessa lotta.
Per questo difendiamo i beni comuni e combattiamo contro la precarietà.
Per conquistare il nostro futuro. Diverso dall’esistente e, quindi, tutto da costruire.
Acrobax
Punti San Precario_Roma

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