Lo specchio elettorale infranto e la torsione autoritaria dello Stato…

Ma l’amor mio non muore…

In questi giorni accadono cose che incidono sulla percezione collettiva della fase. Prendere parola è oggi la condizione necessaria per chi vuole continuare a riconoscersi dentro un movimento che non si lasci cucire il vestitino addosso da altri, che siano apparati e servizi dello Stato o nuovi spontaneisti armati.
L’Italia è più che mai in Europa, nel senso che oggi ne condivide pienamente la crisi, a partire da quella della rappresentanza politica. Anche in Italia, con le specifiche peculiarità, è posta terribilmente in discussione qualsiasi capacità di cattura del consenso nella macchina della politica rappresentativa ossia nella gestione del piano di comando che va sotto il nome di austerity. Questo non vuol dire che l’azione del governo tecnocratico-finanziario ne sarà indebolita: significa anzi – e si vede già – che si farà più arcigna perché più scopertamente senza mediazioni. Ma questo significa anche molte cose sul terreno della percezione sociale.
Tant’è che nessuno tra gli osservatori e opinionisti in voga scommette su un “rientro” del fenomeno del grillismo né può negare il carattere tendenziale e costante della crescita dell’astensione, accanto all’evidenza che viene punito chi è visto insieme come figura del sistema partitico e nel contempo corresponsabile dell’austerity (in particolare chi ha formalmente dovuto passare le consegne a Monti), tanto quanto è premiato chi a quel sistema si contrappone e dall’austerity anche solo formalmente si smarca. Certo questa fotografia, per non essere equivocata e per intenderne anche le potenzialità rischiose, va sovrapposta a quella del livello minimo raggiunto dal conflitto sociale come movimento reale: altrettanto certo è che c’è una percezione diffusa che vede la pace sociale come imposta e subita, per quanto ancora non se ne agisca un ribaltamento o meglio non si producano e non si incontrino dispositivi adeguati ad agirlo generalmente.
Ma questo è il punto di limite da affrontare senza facili scorciatoie.
Il risultato delle presidenziali in Francia era atteso. La novità però è determinata dalla simultanea circostanza delle elezioni politiche in Grecia. Qui dove di fronte alla débacle dei due tradizionali poli del consenso, ci troviamo a notare da una parte, è vero, l’obiettivo successo di Syriza, ma anche l’aprirsi di uno scenario da vera e propria Weimar post moderna: percentuali balcanizzate, minacce di rottura della zona euro, e, impossibile non vederlo, 21 parlamentari assegnati ad una organizzazione, Chrisi Avgi, letteralmente neonazista, che al contrario dei movimenti europei dell’ultimo ventennio non media con la propria identità, anzi la esalta. Siamo di fronte ad una novità e allo stesso tempo prossimi all’imponderabile: ulteriori limitazioni della sovranità nazionale o l’inizio di una spirale di conflitto tra poteri costituiti? Autonomie sociali dispiegate o pulsioni autoritarie  in un contesto dove oltre il 50% dei funzionari di polizia sembra che abbia dato il proprio voto ai neonazisti?
Il risultato elettorale in Grecia non solo induce la fibrillazione dei mercati ma soprattutto produce una totale revisione delle prospettive di governance della crisi e nella crisi dell’eurozona. Il piano B, specialmente tedesco, cioè la rottura dell’unità monetaria è ormai alle porte non come eventualità ultima ma come possibile necessità urgente. La caratteristica fondamentale del risultato greco viene non a caso taciuta nel dibattito italiota: essa risiede non solo e non tanto nella nettezza di quella fotografia di rigetto della cattura del consenso fra le burocrazie politiche serve della Troijka, bensì nel fatto che la moltitudine ha spazzato via ogni possibilità di “soluzione politica”, ad un tempo con l’astensione di massa e con l’aver premiato ogni forza vincolata alla promessa di non fare compromessi con il memorandum imposto da BCE-UE- FMI, non casualmente con l’enorme prevalenza dell’unica formazione capace di farsi tollerare nelle piazze del movimento di rivolta sociale ossia SYRIZA. Alla faccia di chi predicava sulle “rovine fumanti” dello scenario greco per assumerle a stigma negativo rispetto al quale agitare le magnifiche sorti e progressive di una “alternativa”.
Questo risultato greco – che riflette proprio i 3 anni di rivolta sociale – è quello che fa saltare i conti degli osti dell’austerity in Europa e ne rimette in discussione l’architettura di potere per il prossimo futuro. Non sarebbe (stato) possibile se non, come (è stato) riflesso d’un esodo diffuso dall’opzione della governance che, tra i rigori della disperazione sociale, ha stabilito già un flusso di pratiche alternative in termini di resistenza materiale e di autorganizzazione sin sul piano economico. Questa lezione è quella, sola, che dovrebbe interpellare chi abbia un vero assillo sull’alternativa al capitale e alla sua crisi, e non ne faccia invece una parodia opportunista.
Ma qui siamo in Italia, bruscamente risvegliati dall’incantesimo berlusconiano e precipitati nella più profonda crisi politica ed economica dal dopoguerra, senza neanche uno scudocrociato o una falce e martello a cui aggrapparsi. Lo spauracchio necessario, altro che il coraggio cui si appella Monti, a far da collante per continuare a sottoscrivere una sottrazione dietro l’altra, di diritti, di garanzie, di futuro ma sempre con una paternalistica pacca sulla spalla.
Dall’altra parte la FAI informale – Fronte rivoluzionario internazione  che si erge a guida per ogni forma di dissenso, per chiunque voglia seriamente e senza mediazioni produrre uno spazio di conflitto e di superamento delle attuali condizioni di precarizzazione e sfruttamento. Non avremmo sentito l’esigenza di rivolgerci a chi agita queste pratiche cui non riconosciamo neanche la dignità politica che in altri contesti ha la “lotta armata”. Perché con nessuna lotta reale si confrontano, piuttosto preferendo sfruttare la facile visibilità mediatica fine a se stessa di un gesto con lo stesso coraggio e la stessa maturità di quello di bambini che infilzino una rana con gli spilli.
Ma ci sentiamo chiamati in causa in quanto determinatamente ed ostinatamente attivi nella costruzione di conflitto in questa società, come siamo, maledettamente impegnati ad organizzare la rabbia, quella “perdente” s’intende, quotidianamente presi con tanti altri e tante altre a rivendicare quei diritti – vecchi e nuovi poco importa – il cui impianto e ragionamento sostanziale viene oggi messo sotto accusa presso il tribunale anarchico informale perché contribuirebbe, a loro dire, “al rafforzamento della democrazia!”
Questa l’accusa di fondo contenuta nel manifesto/documento degli anarchici Informali che hanno rivendicato la gambizzazione del “tecnocrate” Adinolfi, dirigente di Ansaldo Nucleare, episodio più che noto la cui cronaca giudiziaria si moltiplica e si diffonde con un esercizio di stile orwelliano, in una permanente dittatura mediatica postmoderna in 3d. E’ così che il banale e contemporaneamente complesso sistema dei media mainstream si presta volentieri a far da sponda agli anarco/armati con un’attenzione mediatica ossessiva, quasi paranoica nella costruzione della notizia, nella capacità di farla divenire opinione pubblica, coscienza collettiva.
Un certosino lavoro di costruzione del consenso attraverso la mediatizzazione, come vera e propria mobilitazione sociale per la nuova scelta del capitale nell’accumulo delle sue plusvalenze  e per l’ormai improcrastinabile passaggio da uno Stato che cerca una forma di consenso ad uno che, in crisi di legittimità e di senso, non ha più remore nel mostrare il suo volto antidemocratico e neoautoritario. Nella società delle informazioni e dei segni ambigui dello spettacolo, anarchici informali e Stato autoritario si spalleggiano uno con l’altro con due opzioni che procedono per luce riflessa, uguale e contraria, determinando il rigido quadro politico che ad oggi si deposita di fronte a noi e che molti poteri forti vorrebbero così schiacciato esclusivamente tra due polarizzazioni: l’austerity e i tecnocrati da un lato e la lotta armata dall’altro. E quello che rimane dello specchio elettorale infranto è solo il controllo, l’esercito e l’intelligence. Come rimangono i tanti silenzi sulle morti sul lavoro che quotidianamente si ripetono in questi anni o i suicidi che via via si sommano uno all’altro per colpa della crisi e le politiche di austerity. Una pistola puntata contro un signore particolare vale e azzitisce tutte le pistole puntate contro le tempie dei tanti disperati, precari e precarizzati. Vogliamo politicamente dire la nostra, affermare l’autonomia e l’indipendenza dei movimenti e delle lotte sociali anche da chi pretende di condizionarli usando una pistola idealizzata e feticisticamente coccolata: “azione che si fa idea”, in una retorica più futurista che altro. Come affermato più volte, e non solo da noi, qui non si tratta di dissociarsi o meno perché mai associazione si è data, mai nessuna condivisione con chi svilisce come “cittadiniste” le battaglie sociali e le rivendicazioni che quotidianamente portiamo avanti.
Ed è proprio sul movimento,  in Italia, che vogliamo portare una riflessione, sulla sua inquietante assenza, sul silenzio in cui esplode il colpo sparato a Genova.
Si può dire che niente come il discorso sull’indipendenza sia stato avvalorato in questi tempi, sia nell’oggettività della crisi di sistema sia nell’esperienza più arricchente delle soggettività, quella esibita dalle più innovative traiettorie di movimento nel panorama globale dell’anno di rottura, il 2011.
Esattamente l’esperienza che è stata praticamente quasi assente qui in Italia. Infatti se non fosse stato per l’accumulazione e la potenza della mobilitazione No-Tav con quella determinata e moltitudinaria resistenza sociale che ha saputo dispiegare il protagonismo politico della lotta e dell’opposizione, il nostro paese sarebbe stato completamente assopito nella sua vita quotidiana e risvegliato magari solo con qualche sobbalzo episodicamente determinato, da un 14 dicembre ad un 15 ottobre. E questo è il dato sul quale occorre fondare un discorso di verità. Riaprendo una sfida, anzi la posta d’uno spazio generale di movimento indipendente, che parta anche dallo sconvolgimento di proposte nostrane ripetitive quanto distanti dal vento della rottura che spira globalmente, spalancando le porte a pratiche di esodo dai meccanismi di rappresentanza, che diano forma di discorso, costituente, all’espressione del desiderio compresso di rivolta.Una seria condivisione di quello slogan “non ci rappresenta nessuno” che echeggia da una parte all’altra del globo; possibile che l’unica alternativa, qui, stia in Grillo o sfogatoi vari? Sembra mancare la volontà di confrontarsi, mischiarsi, fare un passo indietro per produrne cento in avanti sul piano dell’alternativa, non solo al governo Monti ma alle scelte di sistema che sono state compiute e si compiranno nel prossimo periodo.
Certo non mancano focolai di dissenso, prese di parola determinate né le ancora scomposte mobilitazioni dentro e a partire da quel sociale tanto bistrattato, costretto a riscoprire i nessi di cooperazione e la capacità di organizzazione nella frammentazione e in un’informalità, questa sì, fuori da ogni logica predeterminata, struttura di rappresentanza o orticello identitario da difendere. Accanto e dentro a questo processo, che si pone già di fatto nella condizione di superare definitivamente la precarietà e lo sfruttamento, vogliamo stare. Perché le lotte contro precarietà e austerity sono oggi le lotte per la libertà e l’autodeterminazione: non un gesto estetico, ma il movimento reale.

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