L’unica risposta possibile?

Nell’ottobre del 2008 una delle peggiori crisi della storia del sistema, come oggi lo conosciamo, si è abbattuta sull’economia globale e sulle nostre vite..

Ma cosa è successo? Improvvisamente si è inciampato su una buccia di banana? La sorte ha voluto segnare così questo decennio? Una questione di sfortuna?

Noi crediamo di no.

Migliai dì voci gridano che ci troviamo di fronte ad un collasso del sistema previsto da tempo; la crisi è la rappresentazione di un sistema socio-politico che non riesce più a sostenersi. A questo punto bisogna solo capire chi sta pagando i debiti, gli sbagli e le scelte di quelli che hanno sempre sostenuto tutto quello che ci ha portato fino a qui.

Questa la domanda centrale: come è possibile riproporre in modo ancora più radicale questo stesso modello? Come è possibile riproporre all’infinito le stesse ricette economiche? E soprattutto: perchè condannarci a questa continua indigestione?

La nostra condizione come uomini e donne, più o meno adulti, nativi o migranti, cittadini e cittadine, è di totale subordinazione al mercato. Non solo perchè siamo costretti a starne passivamente all’interno ma perchè le nostre vite vengono comunque dopo gli interessi e i profitti che ne rappresentano i cardini.

La precarietà che ci costringe a vite impossibili inizia ad essere una pressione troppo forte che difficilmente si riuscirà a comprimere. Ed infatti, in questi mesi, centinaia di persone si stanno mobilitando e pongono esigenze e bisogni, reclamando diritti che da tempo erano assodati e immaginando nuove possibilità e prospettive.

Lavoratori e cassaintegrati, precari di diverse parti del mondo, studenti medi ed universitari, precari e precarie, territori interi iniziano con costante e crescente frequenza a porre la loro difficoltà di vivere in questo paese.

Le menti pensanti e scriventi dei grandi media li trattano come animali allo zoo, oscurabili in qualunque momento e criticabili senza diritto di replica (non sono certo Maroni..); ma anche loro dovrebbero fare attenzione perchè nelle stesse redazioni stanno crescendo generazioni di stagisti, contrattisi e free lance che potrebbero metterli in discussione. Bisognerebbe avviare una serie riflessione culturale a partire dalla miseria in cui versa la nostra cultura e formazione.

E questo, ad oggi, lo stanno facendo studenti e ricercatori con imbarazzanti ed aristocratiche risposte dalla parte più reazionaria di questo paese; ricevendo lisciatine e mezzi sorrisi da parte di quella che dovrebbe essere la parte progressista. Diciamocelo, neanche loro sanno come rispondere perchè dovrebbero mettere in discussione le scelte fatte negli ultimi 20 anni, a partire dalle privatizzazioni dei beni primari come l’acqua fino all’apertura del mercato del lavoro a incredibili forme di precarietà, solo per fare due esempi dei più clamorosi.

E dunque, oggi, decine di persone manifestano in strada, qualcuno storce il naso finchè non si trova nella stessa condizione ed è costretto a combattere non solo per i propri diritti ma molto più banalmente per arrivare alla terza settimana del mese.

Dunque decine, centinaia di cittadine e cittadini pretendono di venire ascoltati, pongono questioni a chi governa le istituzioni, dai comuni alle regioni fino al governo di questo paese. Ma le risposte sono sempre più porte chiuse di stanze dove si decide con pochi ed interessati rappresentanti dei poteri forti. Gli altri fuori ad aspettare, briciole di risposte, di soldi e di speranze.

E’ un paese che elemosina fuori palazzi blindati, sopra i tetti della disperazione, per le strade cupe delle metropoli italiane.

La risposta evidente sono le divise, contrapposte ai cittadini, l’uso della forza contrapposto alla parola. Manganelli e scudi si vedono troppo spesso come unico intermediario delle proteste. L’ordine pubblico come unico piano per affrontare le rivendicazioni della cittadinanza?

E allora la domanda è e rimane: perchè dovremmo accettare questa violenza strisciante, quotidiana e arrogante?

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