Non abbiamo bisogno di un governo, ma dei soldi che ci spettano #anzituttoredditopertutti

15 marzo si insediano le nuove camere. Non abbiamo bisogno di un governo, vogliamo un reddito per tutti

Tra i 27 Paesi attualmente membri dell’Unione europea la mancanza di un reddito di base è localizzata soltanto in Italia, Grecia ed Ungheria. L’Italia resta al di fuori dei parametri europei continuando a disporre di un lacunoso ed iniquo sistema di ammortizzatori sociali che esclude il variegato universo dei precari e dei soggetti non coperti da nessun sistema di protezione sociale. La crisi e le politiche di austerity adottate dietro il ricatto del debito hanno agito come un dispositivo di “livellamento verso il basso” – facendo regredire garanzie sociali e i diritti acquisiti – seppur con un
intensità diversificata e stratificata, rendendo la precarietà una condizione sociale generalizzata. Le riforme Monti-Fornero hanno ulteriormente flessibilizzato il mercato del lavoro e tagliato i fondi del nostro sistema previdenziale e welferistico. Siamo da poco entrati nel sesto anno consecutivo di crisi e dal punto di vista delle condizioni materiali, stiamo assistendo a forme inedite di povertà. Il costante e drammatico peggioramento degli indicatori sull’occupazionee sulle condizioni economiche (e di indebitamento) dei soggetti e delle famiglie (erogatrici di cassintegrazione di ultima istanza) è inserito in un quadro di recessione globale che non tende ad arrestarsi. Il tasso di disoccupazione reale – non quello delle statistiche ufficiali – è schizzato alle stelle come mai era accaduto negli ultimi decenni. Durante la campagna elettorale la riforma del welfare e la garanzia del reddito sono state al centro della scena mediatica. Il reddito e i variopinti aggettivi per descriverlo sono
diventati mainstream, argomenti portanti utilizzati in maniera trasversale. Le classificazioni riempiono quotidianamente le pagine dei giornali: “minimo”, di “cittadinanza”, di “solidarietà”, di “ultima istanza” fino ad arrivare ad un non ben definito “salario sociale”. Ognuno di questi progetti ha il suo calcolo di spesa più o meno veritiero. Il dato fondamentale emerso è che l’erogazione di un reddito per tutti non è un problema di sostenibilità economica ma di volontà politica. Il susseguirsi di prese di posizione ha circoscritto l’importanza di una legge nazionale per il reddito ad una misura di lotta contro la povertà e l’esclusione sociale. Lo spettro che si aggira dietro le solidaristiche intenzioni di equità sociale sono le nuove politiche di welfare to work (ovvero workfare, welfare condizionale, labourfare) che il nostro Paese sta predisponendo, importandole da altri stati europei. Partiti, sindacati e burocrazie di servizio stanno prestando il fianco a questa operazione.

L’obiettivo non dichiarato è la subordinazione delle politiche sociali alla disponibilità e alla flessibilità del pieno impiego precario. Ma il workfare non ha neppure una ricaduta positiva sulla spesa pubblica. Anzi, è piuttosto costoso, sia sul piano amministrativo sia in generale, dal momento che i posti di lavoro in offerta sono a bassa produttività. Le esigenze principali a cui assolve sono due: il controllo sociale sulla vita dei soggetti e la falsificazione delle statistiche sulla disoccupazione operando una riduzione fittizia, senza creare quindi dei posti di lavoro, ma con il solo risultato di scoraggiare i disoccupati dal richiedere gli assegni assistenziali. Ma non si tratta esclusivamente di redistribuire la ricchezza – il che non sarebbe poco in questo momento, se avvenisse senza il ricatto dell’impiego precario da accettare – ma si tratta di riconoscere – e quindi retribuire – la produzione sociale che avviene ogni giorno. Gli attori protagonisti di questa mobilitazione permanente per il capitale sono i milioni di precari che quotidianamente producono ricchezza. Il reddito di base e incondizionato è il riconoscimento del carattere produttivo della vita sociale indipendentemente dal lavoro, riconoscimento del carattere sociale della produzione.

 Operazione chiarezza! Il decalogo ovvero i 10 punti del reddito che vogliamo:

1.      Per reddito intendiamo un intervento economico universale ed incondizionato, ovvero l’erogazione di una somma monetaria a scadenza regolare e perenne in grado di garantire la riproduzione delle vite singolari. Oltre al reddito diretto si devono garantire i bisogni comuni (formazione, comunicazione, mobilità, socialità, abitare) attraverso forme di reddito indiretto.

2.      Il reddito non è discriminante nei confronti di nessuno, quindi viene erogato a nativi e migranti a prescindere dalla cittadinanza perché concorre a definire la piena cittadinanza sociale e il pieno godimento delle libertà civili.

3.      Il reddito deve essere erogato a tutti i soggetti dal compimento della maggiore età fino al raggiungimento della pensione (che non avranno mai, quindi fino alla conclusione della vita terrena).

4.      Il reddito è un diritto fondamentale della persona (quindi soggettivo) che tutela il diritto ad un’esistenza autonoma, libera e dignitosa, indipendentemente dalla prestazione lavorativa effettuata.

5.      Il reddito è il riconoscimento della produzione sociale permanente. Il reddito indipendente dalla prestazione lavorativa riconosce il concetto di produttività della vita sociale, dà valore al tempo di vita che è oltre il tempo di lavoro.

6.       L’istituzione di un reddito rappresenta un mezzo per lottare contro la precarietà (sociale e) lavorativa e il basso livello di remunerazione (in Italia i salari sono tra i più bassi d’Europa),
evitando che una parte crescente della popolazione – come è avvenuto nei 6 anni di crisi – cada nella “trappola della povertà”. Il reddito fornirebbe ai precari e ai precarizzati il potere di non accettare qualsiasi lavoro e di opporsi alla precarizzazione. Quindi il reddito è un freno alla politica di ribasso del costo del lavoro.

7.      Il reddito non è un sussidio di povertà, quindi non è una forma di salarizzazione della miseria e dell’esclusione sociale.

8.      Il reddito non è un sussidio di disoccupazione.

9.      Il reddito non è vincolato all’accettazione di nessuna offerta formativa e/o lavorativa, di conseguenza non ha un regime sanzionatorio. Ad esempio la proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione del Reddito Minimo Garantito proposta da una rete di associazioni e partiti di sinistra, ispirata alla legge regionale del Lazio n.4 del 2009 (“Istituzione del reddito minimo garantito. Sostegno al reddito in favore di disoccupati, inoccupati e precariamente occupati) prevede tra le cause di sospensione, esclusione e decadenza della prestazione, il rifiuto di una proposta di lavoro avanzata dal Centro per l’impiego comporta la decadenza del
beneficio, fatta eccezione per l’ipotesi della non congruità della proposta di impiego (art.6 legge regione Lazio n 4/2009). Una sorta di regime sanzionatorio che dovrebbe inserire degli elementi di condizionalità del beneficio o delle indennità godute dal soggetto inserito nei programmi di orientamento, formazione e attivazione, lasciando però in uno stato di indeterminatezza la questione dei doveri in capo alle amministrazioni deputate all’inserimento. Di conseguenza, un’ulteriore perplessità deriva dall’erogazione ancorata alla disponibilità al lavoro, la cosiddetta “congrua offerta” (meccanismo sanzionatorio predisposto dalla Strategia Europa per l’Occupazione) e quindi alla condizionatezza al lavoro precario e intermittente proposto dai centri per l’impiego che, oltre ad essere inadeguati nel realizzare le politiche formative/di orientamento e di inserimento lavorativo, ricevono esclusivamente offerte di lavoro con basse qualifiche professionali. Noi pensiamo che si possano coniugare strumenti universalisti di protezione sociale con politiche di attivazione, senza regime sanzionatorio.

10.     Il reddito non può essere “minimo”, perché è la configurazione di un nuovo diritto ed i diritti non sono né minimi né massimi. Per quanto riguarda l’importo della misura, per noi dovrebbero essere almeno 1000 euro al mese. Occorre riflettere, infatti, sull’evenienza che una prestazione modesta possa comportare un effetto perverso a carico dei lavoratori precariamente occupati: in casi di contrattazione diretta della loro condizione lavorativa un rinvio al reddito come risorsa complementare potrebbe diventare l’escamotage per prospettare un mantenimento dell’occupazione precaria con livelli di retribuzione ridotti. La conseguenza sarebbe l’istituzionalizzazione del ”sotto-occupato” working poor (lavoratore povero) che non riuscirà a vivere con 600 euro al mese e dovrà accettare lavori al nero pur di non perdere il sussidio. Sappiamo bene quanto il lavoro sommerso in Italia sia necessario in quanto camera di compensazione delle tantissime aziende che con la crisi avrebbero chiuso.

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