Quando la rottura è costituente – Riflessioni per i movimenti

di @angelobrunetti1

Spesso la retorica della  politica – anche di movimento  – salta a piè  pari la realtà sociale  producendo scollamenti  e divaricazioni  verticali tra governi e governati. Veri  e propri abissi.   Alla base di ciò che genericamente definiamo crisi economica – che la realtà sociale vive di riflesso spesso nella disperazione – vi sono elementi fondamentali che vanno ancora profondamente indagati e sui quali non ci concentreremo qui per necessità di sintesi.

Per riassumerle a grandi linee. Facendo  tesoro dell’analisi di Marazzi, cioè che nell’odierno  sistema di accumulazione vi è un  rapporto consustanziale tra produzione  e finanza, possiamo affermare  con certezza che oggi la finanziarizzazione,  pervasiva a livello dell’intero  ciclo economico, è divenuta parte  integrante della nostra vita quotidiana,  che le sua fonte di alimento è  la produzione di beni e servizi, ma  anche welfare, beni comuni, linguaggi, stili di vita.  La finanza si riproduce nella costituzione materiale dei corpi in quella che Marazzi definisce come: “la mobilitazione permanente per il capitale”.

Dentro tale dinamica, appare sempre più evidente un nesso indicibile, occultato e mistificato dal potere, quello tra crisi finanziaria e crisi del processo di valorizzazione. La “crisi nella crisi”, ovvero la crisi di tutti i metodi di misurazione del valore del lavoro, che fa saltare il banco delle formali regole economiche. Questo punto è politicamente dirimente.

In futuro, occorrerà inevitabilmente elaborare forme di sperimentazione politica da posizioni più avanzate e con traiettorie di più lungo respiro rispetto a quelle assunte fin qui dal movimento.

Se intendiamo la politica anche come costruzione dal basso di una nuova forma di organizzazione sociale, se siamo consapevoli che la “rottura” è necessaria per rendere costituente l’alternativa, allora dobbiamo fare un discorso di verità. I movimenti potranno cominciare a incidere sulla realtà politica solo una volta che avranno deciso cosa fare da grandi. Ciò prendendo atto dell’irreversibilità della crisi della rappresentanza politica, così come della svolta autoritaria in corso, necessaria all’instaurazione della dittatura dei mercati, i quali dettano ogni giorno di più le agende dei governi.

Se vogliamo costruire un’alterità che vuole riprendersi il protagonismo sociale, la capacità di  ristabilire gli spazi dell’autogoverno e rimettere in discussione le scelte operate sulle nostre teste, dobbiamo dissolvere l’intero quadro politico esistente, superando quel senso di impotenza che segna i limiti di un sistema bloccato e incancrenito. Ciò non significa esercitare lo scontro inseguendo un’estetica della violenza, ma rompere su tutti i piani, effettuando nell’immaginario e attraverso il desiderio collettivo una trasformazione prima di tutto culturale, che non può leggere il lavoro come bene comune e che non può partire dalle mediazioni al ribasso come quella sul reddito legandolo alla sopravvivenza del lavoro precario.  Almeno, non lo devono fare i movimenti. Questo nella piena consapevolezza della complessità, della stratificazione del rapporto di forza che si misura sui mille piani inclinati della società complessa che viviamo.

Dare respiro e “programma” alla protesta, alla rabbia sociale, renderla potere costituente – perché si tratta di riscrivere da capo la carta costituzionale, basti pensare per un momento a quanto è datato il primo articolo – sottraendola al nichilismo, significa dare un possibile senso comune all’alternativa che viene attraverso sempre più solide alleanze sociali.   Questo avevamo in mente quando, durante tutto l’anno passato, abbiamo lanciato in giro per il paese l’ipotesi (ancora in cantiere) di uno sciopero precario quale forma diffusa di rottura e iniziativa politica. Come sabotaggio, blocco dei flussi materiali e immateriali, attacco all’immagine e al brand dei precarizzatori. Il tema oggi rimane ancora quello, al di là del nome che potrà assumere nella prossima stagione politica.

Attraverso la materialità della lotta, si deve e si dovrà poter passare dal puro sfogo individuale della propria indignazione al pieno e reciproco riconoscimento collettivo. Si tratta di dare respiro alla soggettività precaria, per sottrarla alla dimensione individuale e confusamente spontanea, e di saper tessere una tela ricompositiva che ponga rimedio all’atomizzazione e alla frammentazione strutturale – del mondo del lavoro e del non lavoro e quindi delle relazioni sociali e produttive – in cui essa immersa.

Ma occorre farlo proprio lì, in quella stessa situazione frammentata, non altrove, con buona pace di tutti i sindacati. Tutto questo affinché si possa definire ciò che si annuncia come l’ipotesi di nuova ricomposizione di classe. A unire oggi i precari è semplicemente la rabbia. E questo ovviamente non basta. Dobbiamo trasformare la rabbia in energia, intelligenza generale, mente collettiva, sovversiva, creativa. Quando diciamo di voler organizzare la nostra rabbia, ci disponiamo all’interno di questa opportunità di lavoro politico. Non si può continuare a guardare impotenti i suicidi che ormai si sommano, quasi meccanicamente, l’uno all’altro, dal disoccupato al pensionato, dal cassintegrato all’artigiano, dal venditore ambulante al piccolo imprenditore.

Dentro le forme della lotta precaria può crescere un movimento realmente indipendente che tracimi oltre le risacche della routine militante e si ponga l’obiettivo di trasformare ra- dicalmente i processi di sfruttamento, accumulazione e valorizzazione capitalistici. Valorizzazione oggi dislocata nella co-creazione di valore, nella messa al lavoro reale delle soggettività che supera la messa a lavoro formale e che, nell’ambito dell’economia immateriale, si riproduce attraverso i servizi forniti da importanti multinazionali come Google o Facebook – con buona pace della fiom, con la sua metà degli iscritti informatici impropriamente inquadrati nel contratto dei metalmeccanici. Luoghi in cui l’utenza è prod-utenza, mentre il flusso della valorizzazione delega al lavoro formale il solo ed esclusivo ruolo di controllo sociale, nel tentativo di governare un disordine globale che ormai si esprime sotto tutti i cieli del vecchio patto atlantico. Se volete, ecco un altro punto dirimente, non scontato, impensabile fino a pochi anni fa: il mondo è nuovamente in rivolta.

E qui, volgiamo richiamare il contesto nostrano mettendolo per un momento in relazione con ciò che avviene in Europa e nel resto del mondo. Ci riferiamo alla stagione segnata dal 15 ottobre, che, a distanza di quasi un anno dagli eventi, richiede che vadano fatte ulteriori considerazioni.

Il 15 ottobre è andato ben oltre la finzione o la testimonianza. Ha sorpreso e travolto tutti. Noi compresi. Ma per una volta il programma era cambiato nella realtà così come era già accaduto l’anno precedente, il 14 dicembre. La dissociazione rancorosa nei confronti dei ragazzi e dei compagni che quel giorno hanno sfidato per ore lo Stato in piazza regalando la cartolina di un’Italia in crisi, arrabbiata e con la voglia di reagire – che sicuramente ha contribuito ad accelerare la caduta del governo – non solo è stata dolorosa, ma indegna; insopportabile poi se dettata da esigenze di compatibilità e mantenimento degli accordi che non tutti conoscevano. Dietro quella rivolta, un accumulo di forze, di tendenze e di processi sociali non codificabili per padroni, governanti, poliziotti e magistrati zelanti. Ma anche per la generazione che aveva “diretto” il movimento a Genova. Non processi meccanici ma dinamici, processi della soggettivazione precaria, un po’ più insorgente di quella che pensavano di governare. E questo ovviamente vale anche per chi, nei movimenti, credeva di portare l’avanzo del banchetto del potere come premio ai più allineati alla governance, (quella buona eh!), quella della narrazione epica e del lavoro come bene comune: eccoli tutti a braccetto a fare la fila per entrare in Parlamento. Ma il programma è cambiato pure per loro. Non a caso dal 15 ottobre in poi tutte le posizioni politiche di movimento hanno sterzato, effettuando in taluni casi vere e proprie inversioni a U, arrivando addirittura a cercare altrove ciò che avevamo tentato di portare fin sotto casa loro, inseguendo ovunque, anche a Francoforte, il presente pur di non affrontare qui e ora il nostro futuro. Le lotte riverberate dalle comunità indipendenti che nel mondo si riproducono – e per fortuna si moltiplicano ovunque, da Occupy Wall Street in giù – e di cui noi facciamo pienamente parte, o trovano una sedimentazione materiale nei nostri territori a partire dalle nostre generazioni, o altrimenti saranno cicli di movimento vissuti da altri e scimmiottati da noi.

La strada da percorrere ci è indicata dalla straordinaria esperienza dei comitati per l’acqua pubblica e per la difesa dei beni comuni, come nella Val Susa, fondamentalmente la nuova dorsale dei movimenti sociali anticapitalisti, che, nel volgere di pochi anni, ha imposto al dibattito pubblico ciò che sembrava essere andato perduto per sempre. La radicale messa in discussione della categoria di profitto – categoria fondativa del capitalismo. Un altro dato dirimente nella complessità. E lo è ancor di più per il punto di vista precario se vuole poi essere anche il baricentro, il grand’angolo di qualcosa di più ampio ancora, per costruire l’alternativa come utopia concreta, in quella prateria sociale di cui spesso parliamo, che non deve più attendere la rigenerazione del cambiamento dall’alto, ma individuare il varco giusto per insorgere dal basso. Deve farlo, senza la paura di dirlo.

Roma, luglio 2012

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