Gli oligarchi, la debolezza dello stato ucraino e il conflitto in corso

di Mikhail Piskunov, dal sito del Movimento Socialista Russo, 7 luglio 2014

Un’analisi dettagliata dei nessi tra le privatizzazioni condotte dopo l’indipendenza, il sistema oligarchico, i reiterati tentativi di “putinizzazione” dell’Ucraina, la debolezza di fondo del suo stato, il nazionalismo e il paternalismo di stampo sovietico, e alcune delle dinamiche fondamentali del conflitto in corso.

Rispetto a quella di altri paesi post-sovietici la vita politica in Ucraina ha l’aspetto di un colorito ballo in maschera con innumerevoli partecipanti. Secondo lo storico Mikhail Piskunov i motivi di questo fatto vanno cercati nelle peculiarità del processo di privatizzazione in Ucraina e nelle peripezie delle lotte tra i gruppi politico-economici.

Nell’elenco dei paesi che costituivano un tempo il nucleo sociale ed economico dell’Unione Sovietica (Bielorussia, Kazakistan, Russia, Ucraina), l’Ucraina spicca nettamente per l’inusuale grado di vivacità della vita politica interna. Una tale varietà di colori rispetto alla grigia “stabilità” politica degli altri stati citati sopra porta a domandarsi con meraviglia: quali sono le forze motrici della scena politica ucraina ed è possibile ipotizzare quale ne sarà l’evoluzione nel breve tempo?

Vista da fuori la politica ucraina sembra un fantastico ballo in maschera con una grande quantità di attori sia interni sia esterni, che a seconda delle circostanze cambiano il proprio colore ideologico con una tale rapidità da lasciare attoniti gli osservatori. Disperando di riuscire a interpretare i dettagli di questo caleidoscopio, molte persone, ivi compresi molti ucraini, preferiscono abbandonarsi alle ondate ideologiche e concentrarsi sulle interpretazioni più semplici, come quella etnica, che ha la proprietà molto attraente di non richiedere alcuna riflessione aggiuntiva ed è orientata a un’azione immediata, spiegando tutti i conflitti con il semplice fatto dell’esistenza di etnie diverse. In questo articolo adotterò un approccio diverso: cercherò di spiegare la storia più recente dell’Ucraina attraveso gli interessi e le lotte dei principali gruppi economici e politici ucraini.

La causa delle peculiarità della politica ucraina deve essere cercata, a mia opinione, nel modo in cui la privatizzazione dell’economia sovietica è stata messa in atto nel paese. Questo processo è di importanza fondamentale per tutte le società post-sovietiche contemporanee ed è stato quello che ha determinato la specificità delle forme politiche che ne sono derivate. A differenza di quelle russe, le privatizzazioni messe in atto in Ucraina negli anni ’90 hanno avuto un carattere di gran lunga meno “globale”. Leonid Kuchma, un uomo proveniente dagli organi dirigenti sovietici, evidentemente non ha attribuito un grande significato ideologico alla privatizzazione totale di quanto era stato ereditato dall’Unione Sovietica, a differenza dei riformatori guidati da Egor Gaydar. Se il regime di Eltsin è stato spesso definito “familiare”, questa definizione calza ancora di più per il regime di Kuchma. Le privatizzioni condotte sotto Kuchma avevano una carattere spiccatamente “familiare”: il capo dello stato quando ne ha avuto la possibilità ha aiutato i propri parenti e le persone a lui più vicine a impadronirsi di attivi e commesse statali particolarmente “appetitosi”. E’ grazie a tale modello che Viktor Pinchuk, l’uomo più ricco dell’Ucraina di allora e cognato del presidente, ha accumulato il proprio patrimonio.

ucraina trattore

E’ importante osservare che a causa della congiuntura dei mercati mondiali nell’ultimo decennio del ventesimo secolo, in gran parte dei paesi dell’ex blocco sovietico la produzione industriale non era in grado di diventare una fonte di accumulazione di capitali, casomai era il contrario, visto che i giganti industriali sovietici richiedevano grandi investimenti primari. Di conseguenza, negli anni ’90 il segmento ucraino dell’industria sovietica, composto principalmente da industrie metalmeccaniche con le loro complesse filiere produttive, era di scarso interesse per i futuri oligarchi. Un’eccezione è stata tuttavia quella del settore energetico, nonché le reti di trasporto che lo servivano, controllate dallo stato.

Il gas russo, trasportato in Europa lungo i gasdotti ucraini e bielorussi, è diventato per tutti e tre i paesi un vero e proprio “elemento vitale”. Nel caso dell’Ucraina questo gas ha consentito ai burocrati e agli imprenditori coinvolti nel suo trasporto di monetizzare le cariche statali che rivestivano e gli appalti che ricevevano, realizzando lauti guadagni personali. Le circostanze concrete di questa “monetizzazione” le lascio agli esperti di diritto, mi limito solo a osservare che la maggior parte delle persone diventate in seguito oligarchi ucraini si sono create un patrimonio proprio con il transito del gas russo [2]. E quando la congiuntura mondiale, in particolare i prezzi dei metalli, è cambiata all’inizio degli anni duemila, sono stati proprio questi “capitali energetici” a essere utilizzati per la “grande privatizzazione” nel corso della quale sono state definitivamente privatizzate le grandi aziende industriali ucraine. In tale modo solo alla fine del secondo mandato presidenziale di Kuchma è possibile parlare di una configurazione definitiva in tutto il paese dei clan finanziario-industriali oligarchici, strettamente interconnessi con lo stato ucraino. E per una larga parte degli anni duemila la privatizzazione dell’industria ucraina è proseguita favorendo gli interessi di questi clan. Così, a differenza che in Russia, la quota del settore statale nell’economia ucraina è diminuita annualmente fino alla crisi del 2008, quando questa diminuzione si è fermata per il crollo dell’industria del paese.

La specificità di ogni società post-sovietica che durante gli anni delle privatizzazioni non ha affossato completamente la propria industria consiste nel fatto che, dopo il raggiungimento del punto più basso da parte del processo di disgregazione socio-economica, le privatizzazioni hanno cominciato a trasformarsi in concentrazioni: i grandi proprietari hanno cominciato pezzo per pezzo a concentrare le singole aziende in enormi holding, reintegrando sotto il proprio tetto le filiere produttive sovietiche ormai ridotte a pezzi. E’ successo così nella Russia della fine degli anni novanta, ed è successo così anche nell’Ucraina del primo decennio degli anni duemila. Solo che la concentrazione delle aziende in Ucraina, a differenza che in Russia, non è riuscita a rafforzare lo stato ucraino e, anzi, ha portato a una sempre maggiore regionalizzazione del paese. Così come in Russia, la concentrazione ha visto come protagonisti i proprietari delle aziende ex sovietiche storicamente più forti. La spina dorsale dell’economia ucraina e le voci fondamentali dell’esportazione ucraina sono l’industria meccanica e quella metallurgica. E le più importanti aziende di questi settori sono concentrate principalmente nelle regioni di Dnepropetrovsk e di Donetsk. Pertanto non meraviglia che queste regioni negli anni 2012-2013 siano state responsabili di una notevole quota del Pil, pari rispettivamente al 10,14% e all’11,7%; allo stesso tempo, la loro quota delle esportazioni, che apportano valuta di cui il paese ha assolutamente bisogno, è stata rispettivamente del 14,18% e del 17,82%. Solo la città di Kiev le supera in termini di Pil e di esportazioni (18,89% del Pil e 22,15% delle esportazioni), un fatto che non meraviglia per la capitale di un paese erede della fortemente centralizzata Unione Sovietica. Solo che allo stesso tempo Kiev ha consumato il 42,38% delle importazioni ucraine, cosa che difficilmente consente di definirla una regione produttiva dell’economia ucraina [3].

Le regioni ucraine che formano l’area sud-orientale costituiscono circa la metà della popolazione del paese (hanno circa 20 milioni di abitanti), alle stesse è attribuibile la maggior parte dell’economia produttiva dell’Ucraina (più del 45% del Pil) ed è la loro produzione che costituisce la parte fondamentale dell’export nazionale (oltre il 55% delle esportazioni). La propaganda russa e la propaganda filorussa in Ucraina da lungo tempo speculano su questa particolarità della geografia economica ucraina, presentando la crisi politica permanente del paese come un conflitto culturale tra le regioni “filorusse” che “danno da mangiare” alle regioni “banderiste parassite”. Le contrapposizioni politiche reali esistenti in Ucraina nell’ultimo decennio non hanno in realtà nulla a che fare con le “guerre culturali”. Le cariche statali e gli attivi economici vengono spartiti tra gli esponenti di una medesima macroregione ucraina, quella sud-orientale. E il reale contenuto di queste lotte politiche non è quello di un Occidente del paese contro l’Oriente, bensì quello di un clan burocratico-oligarchico di Dnepropetrovsk contro quello di Donetsk.

Se il clan di Donetsk, grazie agli sforzi della propaganda di tutte le parti in gioco è continuamente sotto i riflettori, quello di Dnepropetrovsk sembra essersi sciolto nell’immagine sinistra del “banderista”. D’altronde, la biografia dell’intero consorzio dei politici ucraini di punta è collegata in un modo o nell’altro al clan di Dnepropetrovsk. Riporto alcuni fatti biografici e una breve rassegna della storia delle lotte tra clan diversi all’interno dell’Olimpo della politica ucraina.

Il personaggio più potente della nuova storia del paese che è originario di questa città è stato Leonid Kuchma, primo presidente dell’Ucraina. Ha aperto a molti suoi conterranei la strada per accedere alla politica nazionale, ma per quanto riguarda sé stesso sembra essersi sforzato di rimanere “al di sopra” delle lotte tra i diversi clan, prendendosi cura principalmente della propria “famiglia”. Questa “famiglia”, guidata dal già menzionato Viktor Pinchuk, formalmente fa anch’essa parte del clan di Dnepropetrovsk, ma si tratta della sua ala “lealista”, disposta a compromessi pur di potere essere presente nelle sfere del potere. Questo fatto si è evidenziato con particolare chiarezza alla fine del secondo mandato di Kuchma, che è stato caratterizzato dall’alleanza del presidente con il clan di Donetsk, un rappresentante del quale, Viktor Yanukovich, è diventato sue erede. L’alleanza è stata rafforzata dalla privatizzazione della società Krivorozhstal: questo gigante dell’era sovietica è finito, a fronte di un prezzo diminuito di numerose volte rispetto a quello reale (800 milioni di dollari rispetto a un prezzo di mercato di 5 miliardi), nelle mani di Rinat Akhmetov (clan di Donetsk) e di Pinchuk (la “famiglia”). Successivamente il clan di Dnepropetrovsk (la sua fazione anti-Kuchma) è riuscito nel corso del primo Maidan [con “primo Maidan” l’autore indica qui e di seguito la cosiddetta “rivoluzione arancione” del 2004 - N.d.T.] a infrangere i piani del presidente e ha riconquistare le proprie posizioni nell’ambito del potere. E la Krivorozhstal, dopo un eclatante processo, è stata riprivatizzata al prezzo di mercato di quasi 4 miliardi, entrando a fare parte dell’impero mondiale dell’acciaio dell’indiano Lakshmi Mittal.

Dopo Kuchma il personaggio più noto proveniente da Denpropetrovsk è Yuliya Timoshenko. La sua biografia è meno nota a causa delle vicende giudiziarie che hanno accompagnato la sua carriera, soprattutto le vicende che la hanno legata a un altro personaggio proveniente da Dnepropetrovsk, Pavel Lazarenko. Quest’ultimo nel 1996-1997 ha guidato il governo ucraino ed è proprio durante il suo mandato che sono state messe in atto manovre per mettere le mani sulle risorse energetiche in transito, grazie ai quali il clan di Dnepropetrovsk ha accumulato importanti capitali. Un po’ meno noto è che anche Aleksandr Turchinov, fino a poco fa presidente ad interim dell’Ucraina e che alla fine degli anni ottanta ha guidato la sezione agitazione e propaganda del comitato regionale del Komsomol [organizzazione dei giovani comunisti - N.d.T.] di Dnepropetrovsk, nel 1992 ha diretto il comitato per le privatizzazioni nell’amministrazione della regione di Dnepropetrovsk ed era anche lui legato a Pavel Lazarenko.

Gli oligarchi più noti di Dnepropetrovsk sono Gennadiy Bogolyubov e Igor Kolomoyskiy. Per lungo tempo vi sono stati collegamenti tra di loro e l’impero mediatico di Sergey Tigipko, che intorno agli anni duemila ha cominciato tuttavia a gravitare verso la “famiglia” e il clan di Donetsk. Allo stesso tempo va osservato che fino al secondo Maidan [cioè quello dell’inverno 2013-2014 - N.d.T.] e agli eventi che vi hanno fatto seguito questi oligarchi di opposizione erano più che altro il “ramo giovane” del clan di Dnepropetrovsk, mentre i suoi rappresentanti “più anziani” (Lazarenko, Timoshenko, Turchinov) preferivano il business alla partecipazione diretta alla politica ucraina.

kolomoyskiy e akhmetov a inaugurazione poroshenko

Ora è giunto il momento di parlare dello stato ucraino e del suo apparato burocratico. Per gli stati post-sovietici che sono passati attraverso le privatizzazioni è possibile dedurre empiricamente una costante che tutti sembrano seguire nella propria politica: dopo la liberalizzazione dell’economia subentra un rafforzamento del ruolo dello stato nell’amministrazione dell’economia. Ciò accade, probabilmente, perché la struttura del complesso industriale sovietico è nel suo complesso tale che una semplice concentrazione delle aziende nell’ambito di gruppi finanziari-industriali è insufficiente per un loro funzionamento coerente. Il proseguimento logico delle concentrazioni consiste, a un nuovo livello, nell’ingerenza diretta dello stato nei meccanismi economici nonché nel legame tra centinaia di filiere industriali e la volontà del governo, il quale in tale modo assume dal punto di vista funzionale una forma “quasi sovietica”.

Definiamo con riserva il processo con il quale si realizza questa legge come “putinizzazione” – con riserva, perché in Bielorussia è stato messo in atto da Lukashenko molto prima e con un successo relativamente maggiore rispetto a quanto non sia riuscito a fare Putin in Russia. Del fatto che la “putinizzazione” sia in ultimo adeguata ai compiti che l’industria dei paesi post-sovietici deve adempiere (indipendentemente da come la giudichiamo dal punto di vista politico) è facile convincersi analizzando il livello di crescita del Pil della Bielorussia, della Russia e dell’Ucraina nell’ultimo decennio e il suo rapporto con gli indici del 1990. Il Pil dell’Ucraina, passata come gli altri paesi della regione attraverso la crisi del 2008, è cresciuto nel periodo 2005-2012 del 13,7%, quello della Russia del 35,8% e quello della Bielorussia del 66,4%. Allo stesso tempo, nel 2013 il Pil ucraino era pari a solo il 69,4% di quello del 1990 (nel 2008, appena prima della crisi, questo dato era di poco migliore: 74,2%). Questa differenza non può essere ridotta all’effetto della rendita petrolifera, dato che sia l’Ucraina sia la Bielorussia grazie al transito partecipano anch’esse ai vantaggi dell’export petrolifero russo. Ritengo che le cause del fallimento economico dell’Ucraina rispetto ai suoi vicini consista essenzialmente nel fatto che la sua economia rimane frammentata nell’ambito di clan regionali e non viene difesa a livello nazionale dall’amministrazione paternalista del proprio stato.

Perché lo stato ucraino, che rimane centralizzato secondo il modello sovietico e che è indispensabile alla vita del paese, non riesc comunque a consolidarsi e a portare sotto il proprio controllo i gruppi oligarchici, sintetizzando in se stesso i propri e i loro interessi? La risposta a questa domanda è a due livelli. In primo luogo, gli apparati repressivi dello stato ucraino nel corso dei due decenni e mezzo della sua esistenza come stato indipendente sono stati eccezionalmente deboli. E non si tratta di una debolezza tecnica e quantitativa delle forze di sicurezza ucraine: l’Ucraina ha ricevuto in eredità dall’Urss un apparato repressivo statale esemplare e un complesso militare-industriale potente. Ritengo che la causa del fatto che a un dato momento l’esercito, la polizia e i servizi segreti ucraini siano diventati semplicemente un altro mezzo di monetizzazione degli incarichi statali sia attribuibile alla loro mancanza di fedeltà nei confronti dei dirigenti dello stato ucraino, nell’assenza in loro della volontà di applicare la forza e di andare fino in fondo per gli interessi dei loro padroni. Qui bisogna cercare di immaginarsi la psicologia degli uomini e dei dirigenti degli apparati repressivi, che nell’ambito del sistema burocratico costituiscono uno strato a se stante. Essendo isolati dalla società, sono carne della carne dello stato, che non solo si si rivela la fonte principale dei loro mezzi di sostentamento, ma anche il prisma attraverso il quale guardano al mondo. Per gli ufficiali ucraini educati nella tradizione sovietica del patriottismo statale (e questa tradizione tra le pareti delle scuole militari non è affatto sparita dopo la morte dell’Urss) lo stato ucraino, dilaniato dalle lotte senza fine di clan reciprocamente ostili per il diritto di controllare i redditi collegati al potere centrale, è infinitamente lontano dallo Stato-padre loro così caro, che dovrebbe prendersi cura dei propri cittadini e difenderli. E’ difficile uccidere qualcuno per un tale stato, e ancora più difficile morire per lui. Non meraviglia quindi che fin dall’inizio della guerra civile nel Donbass gran parte delle forze di sicurezza ucraine abbiano deciso di propria iniziativa di sabotare gli ordini della dirigenza di Kiev.

L’altra parte della risposta alla domanda delle cause della relativa debolezza dello stato ucraino risiede negli interessi divergenti dei gruppi oligarchici ucraini. Lo stato semplicemente non è in grado di unire inteorno a sé tutti gli oligarchi se i loro obiettivi commerciali sono contrapposti. Illustrerò qui la plurivettorialità dell’economia ucraina con la struttura delle esportazioni ucraine e la dinamica dei loro cambiamenti negli ultimi due decenni. Subito dopo la dichiarazione di indipendenza i principali partner commerciali del paese erano, come è ovvio, le ex repubbliche sovietiche, fondamentalmente la Federazione Russa e la Bielorussia. Durante gli anni dell’indipendenza il mercato dell’Ue ha cominciato a entrare progressivamente in concorrenza con questi mercati. Se nel 1996 oltre il 40% del commercio estero del paese riguardava la Federazione Russa e circa il 20% i paesi dell’Ue, nel 2006 queste cifre erano rispettivamente del 27% e del 30% [4]. La crisi sopraggiunta ha mantenuto la struttura dell’export all’incirca a tale livello, ma la tendenza sfavorevole al mercato russo non è affatto sparita. Di conseguenza, per gli oligarchi e gli uomini d’affari orientati verso mercati diversi, e spesso reciprocamente nemici, la questione degli indirizzi di politica estera e dell’integrazione economica non è affatto irrilevante. E lo stato ucraino semplicemente non è in grado di garantire la salvaguardia degli interessi così divergenti dei vari gruppi di potere. Da tale punto di vista è interessante notare che la scintilla che ha fatto scoppiare il secondo Maidan è stata la mancata firma dell’accordo economico con l’Ue, che di per se stesso non garantiva ancora nulla all’Ucraina sul piano dell’integrazione europea [5].

Tuttavia non si può dire che nel funzionamento dello stato ucraino la tendenza alla “putinizzazione” non emerga mai. Al contrario, l’incessante crisi politica degli ultimi quindici anni è una conseguenza diretta del fatto che sotto il potere di uno o dell’altro clan lo stato ucraino cerca di rafforzare nella maggiore misura possibile il proprio ruolo e nel corso di questo tentativo crea le condizioni che rendono possibile un rovesciamento del potere statale – è interessante notare che nessuno dei Maidan sia stato organizzato dal nulla a opera dell’opposizione, ma che tali eventi invece abbiano trovato la loro origine nei tentativi di Kiev di passare all’offensiva. Già Kuchma all’inizio del suo mandato aveva ritenuto possibile appoggiarsi alla “famiglia”, spaccare il clan di Dnepropetrovsk, collaborare con il clan di Donetsk e addirittura parlare di una possibile revisione delle privatizzazioni [6]. Il primo Maidan che ha fatto seguito a tutto questo ha ristabilito un equilibrio all’interno del potere ucraino.

Solo che un anno dopo, sotto il nuovo regime, questo equilibrio delle forze tra lo stato e gli interessi immediati dei clan è nuovamente saltato in conseguenza delle mosse di Yuliya Timoshenko. Dopo avere condotto in modo dimostrativo la riprivatizzazione della Krivorozhstal a condizioni di mercato, Timoshenko ha messo ordine nella legislazione sulle parivatizzazioni rendendo la messa in atto delle relative procedure meno vulnerabile alla corruzione. In questo modo ha dimostrato di fatto di avere le doti per essere una “Putin in gonna”. La conseguenza è stata una delle più comiche tra tutte le crisi politiche ucraine, quando la fazione filo-Yushchenko della “coalizione arancione” insieme al “clan di Donetsk” ha rimosso il premier eccessivamente indipendente dalla carica che rivestiva. Infine Yanukovich, che aspettava la sua rivincita, è arrivato dopo il 2010 più vicino di tutti i suoi predecessori a unire intorno allo stato ucraino, in una prospettiva a lungo termine, tutti i maggiori clan oligarchici del paese e a diventare con successo una “crisalide” nella forma dell’ennesimo semidittatore post-sovietico.

Il rafforzamento del ruolo del centro sotto il regime di Yanukovich è una conseguenza dell’enorme livello raggiunto dalla corruzione in Ucraina – nel contesto post-sovietico la corruzione ai più alti livelli è una conseguenza diretta della centralizzazione del potere. E’ riuscito per un tempo relativamente lungo ad appoggiarsi al clan di Donetsk, alla parte di quello di Dnepropetrovsk che era più incline al conformismo e anche a quei grandi uomini d’affari estranei alle lotte tra frazioni che traevano vantaggio dalla stabilità del regime. Ma come sappiamo alla fine la fortuna lo ha abbandonato. La coalizione del Partito delle Regioni si è rivelata troppo fragile, tra le altre cose anche perché una parte significativa della stessa era composta, per usare un termine dei tempi della rivoluzione francese, da un “pantano”: uomini d’affari la cui fedeltà a qualsivoglia regime ucraino esiste solo fino al momento in cui dimostra di avere successo a livello politico. Le dimensioni del “pantano” politico ucraino sono dimostrate dal fatto che i non meno di cento deputati della Rada Suprema che hanno votato per le dimissioni di Yanukovich nel febbraio di quest’anno avevano votato per le sue “leggi dittatoriali” a gennaio.

Infine, prima di terminare questo testo, è necessario soffermarsi sul ruolo del nazionalismo ucraino all’interno di questo sistema. Da un punto di vista storico il nazionalismo ucraino è stato l’ideologia dell’intelligencija dissidente sovietica, principalmente di Kiev. Alla fine degli anni ottanta e all’inizio degli anni novanta, questa intelligencija ha cercato sull’onda della Perestrojka di ascendere ai vertici della politica ucraina, ma successivamente fino all’inizio degli anni duemila è rimasta un fenomeno principalmente marginale, utilizzato dalle autorità caso per caso. La seconda nascita del nazionalismo ucraino è avvenuta dopo che la lotta tra il clan di Donetsk e quello di Dnepropetrovsk aveva assunto la forma di elemento fondamentale della politica ucraina. Nell’ambito di questo sistema il nazionalismo ucraino si è affermato nell’essenza come ideologia fondamentale dell’opposizione ai politici e agli uomini d’affari “di Donetsk” che, a loro volta, a causa della struttura economica e sociale di stampo sovietico della loro regione, erano ideologicamente orientati piuttosto verso un paternalismo pseudosovietico.

poroshenko mimeticaIl nazionalismo ucraino è ritornato nella grande politica, sotto la forma di un nazional-liberalismo, già con il primo Maidan, solo che il fallimento complessivo della politica di Yushchenko ha reso questo ritorno piuttosto breve. Il secondo ritorno del nazionalismo ucraino in forme ormai di gran lunga più brutali è iniziato intorno al 2010, quando il clan di Donetsk è nuovamente tornato alla guida del potere statale ucraino. E’ stato allora che il partito di estrema destra Svoboda, in una versione riformattata rispetto al passato, ha avviato inaspettatamente la propria graduale marcia elettorale da Lvov e Ternopol a Kiev, e successivamente gli oligarchi del clan di Dnepropetrovsk, primo tra tutti Igor Kolomoyskiy, hanno preso sotto la propria protezione le formazioni fasciste ucraine che nel 2014 sono diventate il nucleo del Pravy Sektor. Per il Partito delle Regioni, come è stato osservato più di una volta, è risultato conveniente per un certo periodo di tempo la presenza dei nazionalisti sulla scena politica, poiché ciò consentiva loro di mobilitare il proprio elettorato e di dividere l’elettorato degli “arancioni”.

Solo che quanto è accaduto quest’anno ha dimostrato che il clan di Dnepropetrovsk, sollevando le bandiere nazional-liberali, è riuscito a sottomettere i nazionalisti, cosa che il clan di Donetsk non si attendeva. Nei fatti, il triumvirato di Maidan, formato da Klichko, Tyagnibok e Yatesnyuk, è riuscito a unire contro Yanukovich sia Lvov che Kiev e Dnepropetrovsk, con un chiaro ruolo politico dominante dell’ultima. E non è un caso che nella guerra civile in corso nel Donbass il centro politico e militare dell’ATO [la “operazione antiterroristica” del governo di Kiev - N.d.T.] sia costituito non dalla regioni occidentali del paese, e nemmeno da Kiev, dove formalmente si trova il comando dell’esercito ucraino, ma dalla stessa Dnepropetrovsk, dove con il sostegno di Igor Kolomoyskiy, nel frattempo diventato governatore, vengono create le formazioni di volontari del nuovo regime più capaci di combattere.

Quali sono le prospettive del nuovo regime ucraino? Abbiamo già osservato qui sopra che la tendenza alla “putinizzazione” dell’Ucraina negli ultimi 14 anni non ha mai cessato di agire. Nessuno dei due Maidan è riuscito a fermarla, al massimo è riuscita a rimandarla di un paio di anni. A ciò va aggiunto che la dialettica dell’evoluzione della società è tale che perfino la democrazia diretta più radicale può trasformarsi nel giro di pochi mesi in una dittatura della minoranza. Cosa che è accaduta con il secondo Maidan sullo sfondo della guerra civile in corso e il nascosto intervento russo.

La conduzione della guerra richiede centralizzazione e un comando unico. A sua volta il grado di esacerbazione al quale sono giunte tutte le parti rende realistica la prospettiva di una espropriazione delle proprietà degli sconfitti, cosa che a sua volta spinge i clan fedeli allo stato ucraino a stringersi intorno a quest’ultimo. E’ importante notare che in questo contesto lo stato non si riduce alla figura del suo leader, nel nostro caso il presidente Petro Poroshenko. L’ironia del destino risiede nel fatto che un oligarca dell’industria alimentare come Poroshenko, proveniente dalle fila del clan SDPU(o) [Partito Socialdemocratico] di Kiev è legato mani e piedi da una parte agli uomini di Dnepropetrovsk che occupano incarichi chiave a livello statale e, dall’altra, ai nazionalisti che sono entrati a fare parte dell’apparato di sicurezza ucraino. In una parola, la saturazione di quest’ultimo con quadri motivati dal nazionalismo consente alla fine allo stato ucraino di superare la leggendaria impotenza del proprio apparato di applicazione della violenza.

Con ogni probabilità Poroshenko cederà alla linea aggressiva della propria cerchia, oppure verrà in un modo o nell’altro sostituito da un personaggio più fedele agli interessi del clan di Dnepropetrovsk. E si tratta di interessi che rendono assolutamente impossibile una tregua su basi eque, poiché essa 1) manderebbe all’aria la struttura, con tanta fatica consolidata dal clan, di uno stato che corrisponda ai loro interessi, 2) creerebbe le condizioni per un ritorno del clan di Donetsk al potere, vale a dire farebbe ritornare l’Ucraina alla situazione successiva al 2005.

Allo stesso tempo, e paradossalmente, anche i miliziani del Donbass indirizzano i loro sforzi verso una “putinizzazione”, anche se non dalle posizioni del nazionalismo ucraino, bensì da quelle di un paternalismo pseudosovietico. Gli interessi della guerra, l’orientamento verso la Russia e l’assenza di un aperto sostegno degli oligarchi del Donbass nei loro confronti, costringono i “separatisti” a dare vita a forme statali nelle quali il ruolo della direzione politica diretta dei meccanismi economici risulterebbe alla fine eccezionalmente alto. La schizofrenia collettiva dei leader delle “repubbliche popolari” riguardo alla questione della nazionalizzazione delle proprietà di Akhmetov è una conferma indiretta di questa tesi. Anche per questi leader la firma di una tregua sulla base di una federalizzazione non è conveniente, perché in tale caso la rilevanza politica dei loro reparti armati diminuerebbe e gli stessi cadrebbero sotto l’influenza degli oligarchi di Donetsk, e in primo luogo di Akhmetov.

Allo stesso tempo, se la guerra proseguirà e i “separatisti” riusciranno a sopravvivere a un’avanzata generale dell’esercito ucraino, con una conseguente demoralizzazione delle forze lealiste, lo scenario di una controffensiva delle forze dei miliziani verso ovest non sarebbe più solo una fantasia. Se le milizie dovessero riuscire a ottenere successi militari, comincerebbero a passare dalla loro parte gli uomini d’affari di Donetsk e di Dnepropetrovsk (il “pantano”), cosa che renderebbe più rispettabile l’aspetto politico delle “repubbliche popolari”, ma difficilmente cambierebbe il loro accento paternalistico sul ruolo attivo dell’apparato statale nella direzione dell’economia.

Pertanto, basandosi sulla struttura dell’economia e della politica dell’Ucraina è possibile immaginare due scenari a breve termine: se la guerra proseguirà ci sarà una “putinizzazione”, in una forma o nell’altra, mentre se si giungerà alla federalizzazione ci sarà un ritorno a un conflitto nascosto tra il clan di Donetsk e quello di Dnepropetrovsk. Come qualcuno forse si sarà accorto, nel corso di tutto quest’articolo non ho nominato nemmeno una volta le masse popolari ucraine come soggetto autonomo della politica del paese. Non è casuale. Nonostante il fatto che Maidan come istituto presupponga la democrazia diretta del popolo, l’atomizzazione delle masse ucraine e la loro conseguente incapacità di difendere i propri interessi collettivi le rende sia a Maidan sia nelle elezioni o nei referendum delle comparse nelle mani di gruppi statali-oligarchici meglio organizzati e più coscienti di sé. Fino a quando i lavoratori dell’Ucraina non si doteranno di proprie organizzazioni che esprimono i loro interessi, e non gli interessi della “nazione”, delle “regioni sud-orientali” o dello stato, sarà impossibile la realizzazione di uno scenario democratico per la vita politica del paese.

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[1] La privatizzazione in Ucraina. Nota informativa // Otechestvennye zapiski. 2007. N. 1
[2] A. Aslund – Oligarchia comparata: Russia, Ucraina e Usa // Otechestvennye zapiski. 2005. N. 1
[3] Qui e più avanti le cifre relative al Pil sono prese dall’articolo sull’economia dell’Ucraina in Wikipedia, che a sua volta si basa sui materiali dell’Ufficio statale di statistica dell’Ucraina.
[4] Movchan, M., Sysenko N. – Tra i mercati della Russia e dell’Ue // Otechestvennye zapiski. 2007. N. 1
[5] Sarebbe un grande errore ritenere, sulla scia delle modelli delle “guerre culturali” che ci vengono suggeriti, che Dnepropetrovsk (o addirittura in generale l’”occidente” del paese) sia a favore dell’Europa e il Donbass della Russia. Infatti per la metallurgia e l’industria chimica ucraine, in gran parte ubicate nelle regioni di Donetsk e Lugansk, la Russia è un paese concorrente sui mercati europei dei metalli e dei fertilizzanti. E a questi stabilimenti è a sua volta legata la notevole attività di estrazione del carbone nel Donbass. Allo stesso tempo, la seconda voce dell’export ucraino – la meccanica delle regioni di Dnepropetrovsk, di Zaporozhie e di Kharkov – è fin dai tempi dell’Unione Sovietica legata principalmente al mercato russo. Alla lucce di tutto ciò diventa particolarmente interessante il fatto che il complesso militare-industriale dell’Ucraina, risalente al periodo sovietico e situato nelle regioni orientali del paese, è riuscito a sopravvivere negli ultimi due decenni grazie agli ordini del Ministero della difesa russo. Allo stesso tempo la Uralvagonzavod, concorrente della Fabbrica di Trattori di Kharkov nel campo della costruzione di mezzi corazzati, è interessata come nessun altro alla sconfitta della “primavera russa” nel Donbass, alla vittoria del governo di Kiev e alla massima frattura possibile nelle relazioni tra la Russia e l’Ucraina.
[6] Le privatizzazioni in Ucraina. Nota informativa // Otechestvennye zapiski. 2007. N. 1

(traduzione dal russo di Andrea Ferrario; titolo di “Crisi Globale”) tratto da http://crisiglobale.wordpress.com/

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