Da oltre dieci anni, ormai, i discorsi convergono, aldilà delle
divergenze teoriche, su un punto: l’emergere di un’economia della
conoscenza.
Che si tratti delle teorie della crescita o delle teorie
del cambiamento tecnico e dell’innovazione, la teoria economica
sottolinea il ruolo centrale della conoscenza, del sapere,
dell’informazione in quanto forza produttiva, in quanto fattore di
produzione fondamentale nelle economie contemporanee. Un cambio di
paradigma fondamentale con ripercussioni conseguenti sui contenuti e
sull’organizzazione del lavoro dei knowledge workers. Gli unici che
sembrano non essersene accorti sono i giornalisti. Fossero solo
quelli nostrani, pazienza. Un mondo grande è diventato, per fortuna,
piccolo e l’Europa è il riferimento minimo a cui è necessario
guardare. Ma anche in Inghilterra, a leggere un articolo di David
Randall pubblicato sull’"Internazionale" di questa settimana, la
scoperta sembra essere recente. Appena di ieri.
David Randal è uno dei più noti giornalisti britannici nato a
Ipswich, in Inghilterra, nel 1951. Nella sua trentennale carriera ha
collaborato con giornali britannici, africani, statunitensi e russi.
È senior editor del settimanale Independent on Sunday di Londra.
Collabora all’Internazionale. Proprio sull’ultimo numero del noto
settimanale italiano, Randall ha pubblicato un articolo sulle
trasformazioni della professione giornalistica e del ruolo
dell’informazione. In esso, si denuncia come l’avvento della
rivoluzione digitale "ha spazzato via i compositori, i tipografi, i
correttori di bozze, i fattorini e tutti quelli che collaboravano
alla produzione di un quotidiano". Si è verificato così un cumulo di
mansioni che ha inchiodato i redattori al proprio monitor (il desk).
Le fonti delle notizie sono quasi esclusivamente i dispacci delle
grandi agenzie di stampa. La navigazione su Internet fa il resto. Nel
frattempo, la fonte principale dei ricavi si è spostata dalle vendite
alle inserzioni pubblicitarie, che devono essere trattati con un
occhio di riguardo, soprattutto se investono molto in pubblicità. A
ciò si dovrebbe aggiungere – anche se Randall non ne parla – il
crescente stuolo di vari collaboratori, che in condizioni sempre più
precarie e spesso con remunerazioni ridicole, contribuiscono a
riempire di notizie le pagine dei giornali, nell’illusione – ormai
assai remota – di poter entrare nel circolo ristretto dei giornalisti
garantiti.
Chi ha dimestichezza con City of Gods conosce da tempo questa realtà.
Una realtà che era stata già ampiamente documentata, per esempio, più
di dieci anni fa, quando uscì il volume collettaneo "Il lavoro
autonomo di II generazione. Scenari del postfordismo in Italia",
edito da Feltrinelli (1997). Un capitolo di tale libro era
significativamente intitolato: "Lavoro autonomo e settore editoriale:
la parabola di una professione". Nel saggio si descriveva il processo
di ristrutturazione che a partire dagli inizi degli anni Novanta
cominciava il suo cammino rendendo l’attività giornalistica sempre
più devalorizzata e subordinata, costretta ad accorpare un numero
crescente di mansioni, in un contesto di precarizzazione crescente e
di espulsione progressiva di forza lavoro, "orfana di tempo e di
spazio", in perfetta "crisi di identità" in seguito al ruolo cruciale
che l’informazione tendeva a profilare: non solo come strumento
mediatico di veicolo del consenso sociale ma soprattutto come
elemento centrale delle nuove forme di valorizzazione capitalistica.
Ci fa piacere che anche le grandi firme d’oltre manica abbiano preso
atto di questi processi e siamo felici che promettano di tenerci
informati sui suoi andamenti, nel 2009. A noi, francamente, pur con
tutto il rispetto, sembra la scoperta dell’acqua calda.
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