Una tela tessuta pazientemente, anche se talvolta capitava che ciò che era
stato costruito di giorno veniva smontato la notte, dopo una feroce
ristrutturazione, un contratto di lavoro non proprio edificante o una legge
nazionale pessima. Fattori che non hanno tuttavia impedito a giornalisti,
lavoratori dello spettacolo, insegnanti, docenti a provare a sviluppare un
ordine del discorso «potente» e critico rispetto alle trasformazioni che
hanno caratterizzato il capitalismo degli ultimi trent’anni.
Punto di
partenza è stato il milieu che dava e dà linfa vitale alla MayDay, il
primo maggio dei precari che si tiene da molti anni a Milano. In quel
contesto sono nate le prime discussioni su come era mutato profondamente il
mercato del lavoro in Lombardia, dove il trenta per cento della
forza-lavoro è «atipica»: percentuale che sale precipitosamente tanto
più è giovane l’età di chi entra nel mercato del lavoro. E una volta che
si è entrati come precari, precari si resta per sempre o molto, troppo
tempo. E quando la Federazione nazionale della stampa ha posto la
precarietà come uno temi qualificanti della sua battaglia per il rinnovo
contrattuale, quelle discussioni hanno cominciato a focalizzare meglio
l’oggetto su cui puntare l’attenzione.
Tra incontri, seminari è cresciuta
la volontà di comprendere la realtà dei «lavoratori della conoscenza»,
figura sociale su cui erano state fantasticate le virtù prometeiche nel
trasformare la società. Soltanto che di quel «potenziale» conflittuale
ce ne era ben poca traccia tanto a Milano che nel resto d’Italia. Da qui la
necessità di affinare gli strumenti analitici per capire come una figura
di lavoratore così centrale non mostrasse certo il suo lato «ribelle».
Un lungo preambolo per dire che nel tempo però la tela cresceva, fino al
punto di mettere a punto un «Manifesto dei lavoratori della conoscenza» e
una «Ipotesi di carte dei diritti dei lavoratori della conoscenza» (i
documenti sono consultabili ai siti internet: www.precaria.org;
www.actainrete.org; www.rerepre.org;
diversamentestrutturati.noblogs.org). Testi importanti per l’analisi che
sviluppano e per le proposte che vengono lì avanzate. In primo luogo
perché stabiliscono il legame tra deregolamentazione del mercato del
lavoro e questa specifica figura lavorativa.
La conoscenza è sempre legata
a una persona sebbene sia prodotta socialmente. Ha quindi sempre un doppio
statuto: prodotto sociale, ma esperita individualmente. Bene comune, ma
anche patrimonio individuale. Da qui la volontà da parte delle imprese di
«individualizzare» il rapporto di lavoro. La crescita a macchia d’olio
delle forme contrattuali atipiche si basa su questa ambivalenza. Compito
dei lavoratori della conoscenza scioglierla, come appunto prova a fare la
proposta di una «carta dei diritti», quando richiede la formazione
continua, la continuità di reddito per figure lavorative «intermittenti»
o l’accesso pieno ai diritti sociali di cittadinanza.
Nei testi non c’è traccia dell’ipotesi di un auspicabile ritorno ai
contratti tradizionali, quelli a tempo indeterminato per essere espliciti
fino in fondo, proposta presente invece in altre vertenze che hanno visto
protagonisti lavoratori precari. Possibilità non contemplata proprio per
la «specificità» dei «lavoratori della conoscenza», anche se c’è un
passaggio in cui viene sostenuto che il sapere «rappresenta il centro dei
meccanismi della valorizzazione capitalista».
Detto in altri termini, i
knowledge workers costituirebbero una figura centrale nel processo della
forza-lavoro contemporanea, che anticipa ciò che costituirà nel prossimo
futuro la quotidianità di tutta la forza-lavoro. Da qui la rilevanza
strategica che viene assegnata nei documenti ai processi di
autorganizzazione sindacale dei lavoratori della conoscenza.
Non è certo una novità che tanto nelle teorie mainstream che in quella
«critiche» i lavoratori della conoscenza vengono indicati come il settore
trainante dell’economia capitalistica. E in questa affermazione c’è molto
del vero. Ma è altrettanto vero che la conoscenza, il sapere, in quanto
materia prima e «risorsa strategica» non riguarda solo un settore
specifico della produzione della ricchezza. Da questo punto di vista, è
componente essenziale in tutti i settori produttivi.
Da qui la
deregolamentazione di tutto il mercato del lavoro. Il nodo da scioglere è
quali gli obiettivi da perseguire – in termini di salario, di reddito, di
diritti sociali – sia per chi lavora negli sweatshop che in una impresa
high-tech..
L’economia capitalista fondata sulla conoscenza non prevede infatti un
settore «privilegiato» della forza-lavoro, quanto una composita
cooperazione sociale messa la lavoro e il cui coordinamento e comando è
fortemente differenziato e articolato.
Il nodo da sciogliere, quindi, è la precarietà, condizione sempre
ambivalente, perché presentata, spesso in termini ideologici, come il
regno delle possibilità e della autodeterminazione, ma soprattutto come
condizione di sofisticato e, al tempo stesso, brutale sfruttamento.
Soltanto che le necessità stesse della produzione della ricchezza devono
prevedere allentamento della gerarchia e al tempo stesso un comando
definito attraverso norme, leggi che definiscono rigidamente le condizioni
contrattuali della forza-lavoro.
Da questo punto di vista, tanto le leggi
che regolano il mercato del lavoro o le migrazioni tendono appunto a
definire i termini del comando sulla forza-lavoro. Da qui, appunto, la
necessità di trovare le forme adeguate per rompere questo circolo
infernale. Ed è quindi importante che i lavoratori della conoscenza
provino a trovare i punti di crisi di quel comando, in quanto laboratorio
dove sono affinate le tecniche di «eterodirezione» della forza-lavoro. I
documenti provenienti da Milano vanno in questa direzione. E vanno salutati
come un contributo importante, tanto più in una stagione dove il discorso
della precarietà si impone all’interno di una crisi economica che è
lecito definire epocale.
Documenti tanto più importanti perché giungono in un periodo dove questi
sono stati i temi attorno ai quali sono cresciute le mobilitazioni
dell’«Onda». E che oggi ci sia uno sciopero dove questo è l’ordine del
discorso valutato con interesse anche dal sindacato confederale vuole dire
che la tela tessuta comincia a presentare un affresco dove molti possono
riconoscersi.
Benedetto Vecchi
Il Manifesto del 18/03/09
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