Francia - Perché sono partito “in bandiera”... lettera di Bruno dalla latitanza

Ivan, Bruno e Damien vengono fermati il 19 gennaio 2008, sulla strada che li avrebbe portati alla manifestazione all’ ex CPT di Vincennes (vicino Parigi, incendiato a fine giugno), in possesso di fumogeni artigianali e chiodi a tre punte (fora pneumatici). Arrestati, si rifiutano di farsi identificare e di farsi prendere le impronte e il DNA. Due sono imprigionati per più di quattro mesi e uno viene subito posto sotto controllo giudiziario.
Al momento, tutti e tre (più due altri, ancora in galera per l’attaco contro un veicolo della polizia) sono sotto inchiesta per “detenzione e trasporto di sostanze esplosive o incendiarie” e “associazione di malfattori con lo scopo di un attacco terrorista” (equivalente all’associazione sovversiva).
Dal 5 luglio, Bruno è latitante dopo essere sfuggito allo stretto controllo giudiziario imposto all’uscita dal carcere a fine maggio.


Perché sono partito “in bandiera”

Lettera aperta n°1’
5 luglio 2008

“Agire come un primitivo, pensare come uno stratega”, René Char

Ciao a tutti/e i compagni, amici, ciao a tutte quelle e a tutti quelli che, da vicino o da lontano, hanno seguito le nostre storie.

Mi sono fatto arrestare in gennaio, e dopo quattro mesi e mezzo di prigione e di lotte, anche per ottenere delle condizioni decenti di detenzione, eccomi fuori sotto “controllo giudiziario” da un mese. Il “controllo giudiziario” è una specie di legge individuale che ti dice ciò che puoi fare e ciò che ti è vietato. Io non potevo uscire dalla città di Belfort né dalla provincia della Haute-Saone (est della Francia) dove è stata stabilita la mia residenza obbligata nella casa di mio padre. I miei spostamenti erano teoricamente limitati alla ricerca ed all’espletamento di un lavoro oppure per “le necessità” dell’inchiesta. L’idea è quella di esercitare un forte controllo sociale, quella di far sì che il proprio corpo venga messo a disposizione della polizia e della giustizia. Io, ad esempio, dovevo recarmi tutte le settimane a mostrare la mia faccia alla caserma locale ed essere “seguito” due volte al mese da uno “sbirro-sociale” dell’amministrazione penitenziaria: una sorta di corrispondente in loco del giudice. Alla grossa le cose sono semplici: te ne stai buono, ti trovi un “posto” e te lo tieni stretto oppure te ne ritorni in galera. Ed è bene che ti guardi dallo sforare da queste regole.

Ho avuto, durante tutto il periodo di controllo giudiziario, la sgradevole sensazione di stare al di fuori di ogni spazio di lotta, di assistere alla mia morte come soggetto politico. Accettare le regole del loro gioco era come firmare la mia sottomissione, la mia resa di rivoltoso. Anche se a volte pensiamo che sia possibile raccontarsi “me la gioco per un po’ e dopo sono tranquillo” o ancora “me la gioco di facciata e poi…”. Ecco, mi sono sentito spossessato della possibilità di scegliere il come lottare contro l’esistente, mi sono sentito spossessato dell’opportunità di valutare, io, il come lottare per una trasformazione radicale degli spazi in cui viviamo, contro ogni mediazione capitalista delle nostre vite.

Allora il mio gesto è il gesto semplice della rivolta, contro quello che tentano di impormi. Non possiedo nulla se non la mia vita, e potevo scegliere fra il farmi stritolare, far sì che venisse annullato tutto ciò che avevo fatto fino a quel momento, oppure, dall’altra, battermi, non accettare gli eventi impostimi, conquistare gli spazi che mi si aprono davanti. Non mi restava allora, come margine di manovra, che l’illegalità, la clandestinità, la fuga. Innanzi tutto per mettere un po’ di distanza fra me e la sbirraglia. Poi, per osare vivere al presente, senza rimpianti.

So che questo cammino è duro, che spesso è la prigione che ci attende, che le grinfie della repressione finiscono per abbattersi su tutti coloro che lottano nell’illegalità. So anche che preferisco alcune ore di “libertà rubata”, strappata agli oppressori, piuttosto che respirare col conta-gocce, piuttosto che leccare la mano al padrone.
Voglio vivere senza padroni, senza nessuno che mi dica ciò che è buono o cattivo per me. Poco importa ciò che si pensa di me. Voglio vivere in rivolta permanente contro l’oppressione. Voglio, partendo da questo, intessere legami che permettano l’agire collettivo, perché è questa la politica: intenderci alla base su quello che vogliano ed agire di conseguenza. Partiamo dai problemi che abbiamo ed agiamo senza attendere che un capo venga a dirci se è d’accordo o no.

Fuggire oggi dal controllo giudiziario vuole dire raggiungere coloro che stanno lottando, è affermare che io non sono un corpo da gestire, a cui si possa imporre l’altrui volontà. Vuole dire che non ho nessuna intenzione di arrestare la mia critica verso l’oppressione, verso il potere del capitalismo. Resterò uno fra le centinaia e migliaia di uomini e donne in lotta, nei propri spazi al di fuori delle dinamiche di potere, contro la follia della nostra epoca. Non ho mai smesso di pensare che è nella lotta, nella riappropiazione quotidiana delle nostre vite, che si trova la libertà.

Penso a tutti quelli e a tutte quelle solidali con i compagni in galera.
Un pensiero particolare a loro, allora. Ai nostri compagni incarcerati: forza, coraggio e determinazione.

Per tutti coloro che barattano la distruzione delle nostre vite per un po’ di denaro, per una posizione sociale o non so che cosa… non avrete da me che il mio più profondo disprezzo, spero di non rivedervi mai più.

Fuoco a tutte le prigioni.
Fuoco al capitalismo.

Dalla clandestinità, Bruno

Dom, 03/08/2008 – 23:56
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