Dall'economia della catastrofe alla società del dono - Contributi e Spunti Critici

In occasione del primo dei sei incontri "Tra passato e futuro", organizzati in collaborazione tra El Paso, Nautilus e Porfido, sono usciti alcuni contributi.

I primi due li trovate a questo link, mentre pubblichiamo sul sito un ulteriore contributo, come già spiegato, per renderlo disponibile a chi non ha potuto partecipare all'incontro e per stimolare un dibattito che continua dal vivo o qui in rete.


“La vita non è né bella, né brutta: è originale” (1)

“Amico mio, se sfuggendo a questa battaglia potessimo vivere eterni senza vecchiaia né morte, certo non mi batterei in prima fila, né spingerei te alla lotta gloriosa. Ma a migliaia incombono i destini di morte, cui nessun vivente può sottrarsi: andiamo dunque, a dar gloria. O a riceverne.” (Sarpedonte, all’amico Glauco, nell’accingersi ad affondare Patroclo – Iliade, Canto XII)

Ci ammoniscono, sempre più spesso, che stiamo danzando sul margine di un abisso. Così spesso da non permettermi di sfuggire a una riflessione su questo preteso abisso. Perché, forse, l’abisso nemmeno esiste. Sicuramente, la sua eventuale esistenza non ha molta importanza. Un sorriso che ci seduce, una passione che ci risveglia, rimangono tali anche nell’ultimo dei nostri giorni, e perfino in quello che dovesse rivelarsi l’ultimo giorno del mondo. Si rinviene una rivendicazione caparbia e indomabile nel definire noi stessi “i viventi”, in faccia a una morte che in ogni caso avanza. Domani dormiremo tutti, pacificati e concordi, ma oggi che siamo svegli e vivi, la pace non è un destino ma una peripezia. Da morti torneremo uguali, certamente, ma oggi quel che ci tocca è di essere diversi, unici. Non ci saranno date altre possibilità. “questo è il luogo, questo il momento” scrivevo in un volantino al liceo, trentanove anni fa. Lo riscrivo oggi, e, se le circostanze me lo dovessero permettere, lo riscriverò fra trentanove anni, dovunque sarò, comunque dovesse essere composto quel momento di cui oggi ignoro tutto.
A volte, la dimensione mercantile in cui sopravviviamo sospesi, ci trae in inganno, proponendoci le scelte relative alla nostra esistenza alla maniera di acquisti possibili dinanzi agli scaffali di un supermercato. Vado verso l’abisso? Mi ci tuffo? Me ne ritraggo? Quale soluzione presenta il più coveniente rapporto qualità-prezzo? Sono tutte suggestioni: ciascuno ha una vita soltanto da giocare, dentro o fuori l’abisso. La può giocare in quell’unico luogo, dove le circostanze lo hanno sistemato; in un solo e unico momento, il presente. Non esiste controprova, non esiste una sessione d’appello in cui scegliere di nuovo, diversamente, e scoprire se avevamo magari sbagliato. La vita non è un cinema multisala, in cui, mentre assisti alla proiezione del tuo miserevole destino, ti tormenti pensando che la sala giusta era quell’altra, in cui avresti potuto abdicare a te stesso perdendoti nelle evoluzioni di qualche Mary Poppins. Se ti capita di finire nell’abisso, che può essere Guantanamo o Gaza, l’ergastolo o la malattia invalidante, certamente puoi per qualche attimo, se credi, maledire la sorte maligne, ma poi non ti rimane che traversare virilmente il tuo tempo,vivente sfregio verso i tuoi persecutori, esempio per le genti che verranno. L’abisso è un posto come un altro per compiere azioni grandi, per pronunciare parole che non si perdano. La felicità umana è in ogni caso passeggera perché passeggeri sono i viventi: essa può esistere unicamente in polemica, in opposizione con il tempo, con il proprio tempo. Non esiste felicità che non contenga ribellione contro l’ingiustizia, battaglia inesausta contro gli abissi passati, presenti e futuri. Che cosa è dunque la volontà di vivere? è volontà di levarsi contro l’ingiustizia, di lasciare quel segno nel mondo che solo chi vive può imprimere.
In questo senso, la volontà di vivere somiglia al coraggio: sia nel senso che chi non ce l’ha nessuno gliela può dare, come pure nel senso che si compone del medesimo materiale, del medesimo impasto di incoscienza e di caparbietà, di realismo e di fatalismo. Vita sarà che noialtri non saremo, si direbbe dalle mie parti: uno può partecipare di questa consapevolezza e apportarvi il proprio contributo o ritrarsi colpito dalla propria insignificanza. Qualsiasi cosa uno di noi faccia, il mondo andrà avanti: l’uno può dedurne, non senza ragione, che agire è futile. L’altro, e con argomenti altrettanto buoni, che agire è assolutamente libero. Che nulla è vero, e tutto è permesso.
E’ senza dubbio vero che i segnali di autonomia e di accesso alla libertà pratica risultano sommersi dall’alluvione di segnali di adesione supina al sistema delle separazioni e delle alienazioni – si pensi all’infame ripresa del sacrificio di sé nel nome delle abiette religioni. Ma questi segnali non differiscono fra loro su basi unicamente quantitative. La differenza fondamentale, io credo, sta nel fatto che mentre i segnali di disperazione ci pervengono dal sistema di costruzione e consolidamento delle verità di stato, i segnali opposti, di testarda resistenza e di audace contrattacco, ci raggiungono attraversando la cortina delle menzogne coalizzate, per il tramite di esseri umani reali, di persone che ci sono simili.
A chi conviene credere?
L’abisso di cui abbiamo parlato, non esiste separatamente dalla società: è precisamente questa società ad averlo scavato e ad avere scavato nella nostra percezione per indicarlo come prossimo, come profondissimo e, al tempo stesso, come evitabile alla condizione di procedere agli opportuni riti di sottomissione e di socializzazione. Che lo stato presente sia senza speranza per gli oppressi, per gli alienati, per gli isolati, per i sacrificati, è precisamente la speranza di coloro i quali reputano di avere da guadagnare dall’oppressione, dall’alienazione, dall’isolamento. Temere l’abisso non appartiene alla coscienza di chi vuole salvarsi, ma è il prodotto di un’opera infaticabile di ipnosi collettiva per mano di chi intende perderci. Le analisi dei cantori dell’esistente non sono esatte perché essi hanno la capacità di vedere ciò che a noi sfugge: ma perché essi sono solidali con coloro che producono i disastri che vengono analizzati. Sanno che il mondo va di male in peggio e dicono la verità quando lo affermano, per il banale motivo che sono loro stessi a trascinarlo in quella direzione. L’analisi fondata, non esiste separata dal potere. Di chi governa; o di chi è inteso a distruggere l’esistente. Nell’impotenza non vi è intelligenza: chi non ha il potere di condursi a proprio modo, sa del mondo unicamente quel che gli viene intimato di sapere, e di ripetere. Cassandra non si oppone al disegno degli dei, ma ne è parte integrante. La libertà non viene per sua mano, e neppure per quella – pure meravigliosa – di Aiace Oileo folgorato per avere maledetto gli dei fino all’ultimo respiro. E’ Odisseo a darle forma, prigioniero nell’abisso di Polifemo. La libertà è verosimile solo come tragitto oltre la notte, non come timido e tremulo al di qua, come arcadia imbelle e guardinga
In questo senso io non credo che parlare oggi di autocostruzione sia dar vita a un’ennesima utopia, a un’ennesima società del futuro. Ma di associarsi OGGI, di agire OGGI, in una maniera che non è mai esistita in alcun luogo. Di abitare l’utopia nel nostro modo concreto, presente, di agire. Effimera è la nostra condizione, effimere in ogni caso le nostre costruzioni: questo non è il nostro handicap, ma la più grande delle nostre fortune. Il vento che ci ha condotti qui, sta già montando per portarci lontano: abbiamo, da lasciare in nostra memoria, per opporci alla ruota dell’oblio, solo i nostri figli e le nostre azioni esemplari.
Scrive con una certa acutezza il Pepi che il risveglio della volontà di vivere sarebbe il “leit motiv, caro all’ideologia situazionista e in particolare a Raoul Vaneigem, per cui tutto il vecchio mondo a un certo punto crollerà di fronte all’affermarsi del soggettivo, del piacere, della pienezza di vita…” E prosegue “Questa è l’ideologia che ha accompagnato, negli anni ’60 e ’70, il movimento rivoluzionario radicale. E, mi sbilancio, ritengo che gran parte di quell’ideologia fosse figlia dell’ottimismo tecnologico dominante di quegli anni, anche quando non lo sposava dichiaratamente.” Sarà pure vero, ma è altresì vero quel che dichiara oggi Bernardo Bertolucci che nel Sessantotto vi furono invero anche tanti errori, ma allora la vita pareva un continuo sogno, mentre oggi è un continuo incubo. L’uomo che pone mano alla fragola (2), finirà né più né meno di quello che si sarà disperato per la propria malasorte. La differenza sta nel segno che sarà stato capace di lasciare, che avrà avuto anche la fortuna di lasciare. Noi abbiamo la fortuna, determinata da cento concause, di poter schernire l’abisso verso cui la storia ci sospinge. E di cercare di colmarlo con le macerie di questa società.
Tanto, la catastrofe è già in mezzo a noi da un bel pezzo: visibilmente dal 1973, sostanzialmente da molto prima, forse addirittura dal 1937 o magari dal 1917 o persino dal 1848. Se per catastrofe intendiamo il disastro della prospettiva rivoluzionaria del proletariato, perché se invece diamo questo nome alla sorte infelice della specie, possiamo risalire tranquillamente fino al primo delinearsi delle società agrarie. Nell’abisso abbiamo residenza da generazioni, anche se è pur vero, che esiste sempre un abisso ancor più scosceso in cui precipitare sarebbe possibile.

Nel momento in cui il processo di valorizzazione ha permeato di sé ogni relazione, e ha costruito la società a propria immagine, è del tutto conseguente che sia l’intera società a soffrire della malattia endemica di quel processo, la tendenza a decrescere del saggio di profitto. Fuor di metafora, ciò implica che sopravvivere diviene ogni giorno più faticoso ed affannoso, che i singoli devono compiere sforzi sempre più insopportabili per sottrarsi alla spinta che, mentre trascina innanzi l’astratto corpo sociale, ricaccia indietro i corpi reali degli individui concreti. La moltiplicazione delirante degli adempimenti rende l’adesione alla società sempre più obbligata, a mano a mano che essa diviene meno conveniente, se non del tutto controproducente, come sospettano i sovversivi. Il costituirsi di relazioni estranee a questo stato di cose, che noi possiamo vedere manifestarsi in cento luoghi, indica che esiste tuttavia una possibilità di decidere su basi diverse. Che la presenza di altri, che ci sono simili nella condizione di oppressi, e nella determinazione a sottrarcene, può ancora essere una risorsa. Da questo punto di vista, le soluzioni sono sempre parziali, e denunciano interamente la loro parzialità, precisamente nella misura in cui si pretende di lanciarle come “LA SOLUZIONE” che dovrebbe sciogliere ogni possibile nodo. Ma l’autocostruzione, che Sergio ventila, ha in ogni caso di interessante, il fatto di situarsi agli antipodi della condizione etero costruita in cui ci vorrebbero perpetuamente confinare. Del pari, la decrescita sarà un concetto ancora confuso e ambiguo, ma indica come minimo la volontà di sottrarsi all’ipnosi della crescita. Ed entrambe comportano un aumento immediato dei momenti di riflessione e di decisione comune, un attacco all’isolamento in cui ci troviamo confinati. E una possibilità di operare in maniera tale da offrire fondamento ai nostri giudizi, a regalare loro concretezza. Perché, come ammoniva al-Kubaysi “…non è necessario scrivere libri per convincere la gente. Se il tuo personale stile di vita è congruente con la tua missione, allora convincerai la gente.”
Valerio fa un parallelo col Seicento, in cui l’Arcadia sarebbe stata una fuga dalla concretezza mortifera della controriforma. L’Arcadia però, era solo uno stile, non già una condotta materiale. Diserzione dalla guerra civile e costruzione di relazioni solidali sono necessariamente declinazioni del medesimo processo. Chi decide è sempre meno disposto a comprare; chi si sottrae al consumo delle merci, diviene sempre meno permeabile al consumo di ideologie; chi dismette le ideologie correnti, diviene ogni giorno più capace di esprimere un libero giudizio; chi è uso a giudicare autonomamente, desidera che la sua condizione materiale gli somigli. Autocostruzione e decrescita hanno senso solo come tasselli di un circolo virtuoso da fondare, da edificare. Ma di cui esistono sparsi già altri non meno importanti tasselli. In tale circolo, esiste spazio (sia nel senso che ci troviamo ancora a un grado talmente iniziale che sono innumerevoli gli elementi tuttora indefiniti; sia in quello che un tale circolo deve, per risultare virtuoso, saper trovare spazio alle più diverse passioni) per mille approcci differenti. Il desiderio di sperimentare modi diversi di fare insieme con altri; quello di sottrarsi per quanto possibile all’handicap sociale nell’ambito dell’alimentazione e della riproduzione materiale; quello di riportare qualche sorta di bellezza in un mondo che ne ha tanto bisogno; quello di offrire un esempio attivo, COSTRUTTIVO, di rifiuto della proprietà; quello di sperimentare una maniera non aggressiva di abitare il mondo, cercando di inventare equilibri; quello di dare forma a uno spazio liberato dove poter legittimamente godere della passione di definire criteri e accordi…e mille altre ipotesi, tante quante saranno i protagonisti dell’impresa.
Quella dell’autocostruzione è appena poco più che una scusa: la questione di fondo, rimane quella di dare fondamento a una nuova civiltà. La grande imperitura passione di chi ha in sorte di vivere tempi oscuri.


  1. (Italo Svevo – La Coscienza di Zeno)
  2. “Un monaco, inseguito da una tigre, scappando arriva sul bordo di un abisso. Sotto un'altra tigre lo aspetta. C'è solo una radice di vite selvatica alla quale aggrapparsi, ma, non appena lo fa, due topi iniziano a rosicchiare la radice. Vicino alla radice vede una bella fragola. La afferra. Come era dolce quella fragola!” (parabola zen)
Mar, 15/01/2008 – 19:31
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