Francia - Una critica a “L’insurrezione che viene”

da non-fides

Una critica a “L’insurrezione che viene”

venerdì 29 giugno 2012

[NdT: Comité Invisibile, “L’insurrection qui vient”, La Fabrique éditions, Parigi, 2007. Ed. italiana: Id., “L’insurrezione che viene”, editore non indicato (autoprodotto), 2010. L’edizione francese de L’insurrection qui vient ha la copertina tutta verde: ecco perché gli/le autor* lo definiscono “libretto verde”.]

    “Che l’obesità borghese sia maledetta per sempre
    che si semini sale e zolfo al posto delle sue botteghe,
    e che la misericordia del suo dio sia leggera alla sua sporca anima!
    E tuttavia vi è ancora gente che crede
    nello spirito rivoluzionario del droghiere!”
    Ernest Coeurderoy, “I giorni dell’esilio”, Vol. I, 1854.



Girarci attorno


Diversi motivi ci hanno spinto ad ignorare a lungo questo libretto, nonostante la parola chiave del titolo: insurrezione.

Come sa per esperienza chiunque rubi alla FNAC [1]], raramente un libro viene “spinto” da questo supermercato a causa del suo contenuto, ma piuttosto perché vende bene. Passato l’autunno 2007, il “colpo di fulmine del mese” che gli aveva aggiudicato la catena di librerie è scaduto da un bel po’. Inutile, quindi, cercare un qualche aspetto interessante ne “L’insurrezione che viene” per quanto riguarda il suo valore di scambio.

D’altra parte il nostro ladro, per quanto accanito lettore, non rischiava nemmeno di farsi tentare dal caso dei suoi vagabondaggi critici: cosa potrebbe infatti avere di interessante da proporre un testo uscito presso l’editore di uno sbirro gollista (Erik Blondin, “Journal d’un gardien de la paix” [Diario di un poliziotto, NdT], 2002), di un medico legale (Patrick Chariot, “En garde à vue”, [In stato di arresto, NdT], 2005), di un affossatore di rivoluzioni (“Mao. De la pratique et de la contradiction” [Mao, della pratica e della contraddizione, NdT], testi presentati da Slavoj Zizek, 2008) o, più recentemente, di giudici sindacalizzati (Syndicat de la magistrature, “Les mauvais jours finiront” [Sindacato della magistratura, I giorni cattivi finiranno, NdT] 2010)? Cos’altro che un riciclo della minestra post-sinistrosa che piace tanto al fondatore di La Fabrique?

Questo libretto vagava quindi, naturalmente, seguendo gli imprevisti del mercato, finchè una notizia d’attualità completamente estranea ad esso è arrivata a ricordarci della sua esistenza. All’improvviso, nel novembre 2008, il ministero dell’Interno pretende di aver identificato uno dei suoi autori fra le persone accusate (ed incarcerate) nel caso detto “di Tarnac”. Un procuratore qualunque definisce perfino il testo come “una sorta di breviario della lotta armata”. Diamine! L’astuzia della storia avrebbe nascosto per più di un anno un libro sovversivo nel bel mezzo degli scaffali della cultura di sinistra? L’incarcerazione di un “droghiere” o di una “studentessa”, come ad alcuni degli accusati piaceva allora presentarsi, sarebbe il filo da seguire per prendere un po’ di più in considerazione il pamphlet? Dovremmo seguire i consigli letterali di uno degli accusati : “Lo scandalo di questo libro è che tutto quello che vi figura è rigorosamente e catastroficamente vero e non cessa di avverarsi ogni giorno di più” [2]?

La nostra curiosità malsana è stata solleticata giusto per un momento. Perché, mentre il fior fiore dell’intellighenzia del Paese si chiedeva se “le leggi d’eccezione adottate col pretesto del terrorismo e della sicurezza [sono, NdA] compatibili a lungo termine con la democrazia” [3], la maggior parte delle forme-di-vita sotto accusa si lasceranno andare ad interviste ed articoli sui media, il tutto portando avanti collettivamente una strategia di difesa innocentista e frontista (riunificando da una parte la sinistra, dall’altra le classi medie indignate). Indubbiamente, nemmeno loro riusciranno a convincerci a sfogliare il libretto verde. Ma forse questo imbroglio funziona meglio altrove, visto che molti editori stranieri de “L’insurrezione che viene” hanno volontariamente collegato la repressione ai danni di “qualche giovane contadino comunista” [4] al libro da loro tradotto, con lo scopo di vendere meglio la propria zuppa. Fare dello Stato e della sua repressione il criterio del carattere rivoluzionario di un libro, bella trovata! Se tutto questo non ci dice nulla a proposito del libro, la dice lunga, però, su quelli a cui tutto ciò conviene...

In effetti, il nostro bravo anarchico non era per niente convinto dell’interesse di una recensione della cosa, e c’è voluta tutta l’insistenza benevola dei partecipanti a questa rivista per spingerlo a portare questa pietra al dossier in corso sul tema dell’insurrezione [5]]. Consci che altri, qui ed altrove, hanno già elaborato questa critica, e soprattutto dello spazio ristretto di cui dispone queste recensione, ci accontentiamo qui di qualche punto.


Luoghi comuni


Questo libro è composto, oltre che di un prologo, di sette cerchi e quattro capitoli. Nella prima parte, il Comitato Invisibile in abiti danteschi ci fa attraversare l’inferno della società attuale. Nella seconda parte, siamo infine introdotti nel paradiso dell’insurrezione, che potremmo raggiungere attraverso una moltiplicazione delle comuni. Se la prima parte ha gioco facile a riscontrare una certa approvazione, con la sua descrizione di un mondo disseminato di disastri permanenti, la seconda è molto più leggera. Entrambe, però, sono accomunate da un elemento: una certa nebulosità, ben avviluppata in uno stile secco e perentorio. Può darsi che non si tratti nemmeno di un difetto, ma al contrario di un ingrediente fondamentale del fascino di questo piccolo libro.

Per sostenere il suo discorso, il Comitato non ha infatti bisogno di analisi. Preferisce le constatazioni. Basta con tutte le critiche ed i dibattiti che fanno impazzire, spazio all’evidenza e all’obiettività di ferro, che saltano subito agli occhi! Facendo atto di modestia, i redattori precisano subito che essi non fanno altro che “mettere un po’ d’ordine nei luoghi comuni dell’epoca, in quanto si mormora nei bar o dietro le porte chiuse della camere da letto”, cioè essi si accontentano di “fissare quelle verità necessarie” (pp. 7-8). D’altra parte, essi non sono gli autori di questo libro, ma “si sono fatti scribi della situazione”, poiché “privilegio delle circostanze radicali è che il rigore conduca logicamente alla rivoluzione”. Bella trovata: i luoghi comuni sono le verità necessarie che bisogna trascrivere per risvegliare il senso del giusto, il quale poi, da parte sua, porterà logicamente alla rivoluzione! Evidente, no?

Penetrando nei sette cerchi che suddividono l’inferno sociale contemporaneo, si troveranno quindi ben poche idee sulle quali riflettere e molti stati d’animo da condividere. Gli autori/redattori evitano a qualunque prezzo di basare i loro discorsi su una qualunque teoria esplicita. Per non correre il rischio di essere superati o messi in discussione, preferiscono registrare, nella sua banalità, l’esperienza vissuta, là dove tutto diventa familiare. Come in una fila di luoghi comuni, appunto, in cui “il Francese”, questa finzione, ritorna ad ogni momento. Già che ci siamo possiamo dire qualunque banalità, fino a fare della realtà il riflesso del solo dominio totalitario e non invece il frutto di una dialettica all’interno alla guerra sociale. Ma è vero che ciò richiederebbe di spingersi un po’ più lontano che limitarsi a delle sensazioni generalizzate. Per descrivere il loro mondo immaginario senza classi né individui, la propaganda del potere diventa una fonte non trascurabile e soprattutto credibile: allora vanno bene la DIGOS (p24 [i curatori dell’edizione italiana traducono genericamente “questurini”, NdT]), il direttore delle risorse umane di Daimler-Benz (p27), un ufficiale israeliano (p37), le barzellette dei quadri (p42) oppure il primo sondaggio d’opinione trovato (p43). Ne “L’insurrezione che viene” tutto è livellato, schiacciato dal controllo e dalla repressione. Non è il mondo che vi è descritto, ma il deserto che sogna il potere, la rappresentazione che esso dà di sé stesso. Eppure questa quasi assenza di dialettica fra dominatori e dominati, sfruttatori e sfruttati, non è un caso: ogni lettore deve potersi ritrovare nella percezione dell’incubo totalitario, deve esserne spaventato. Non si tratta di convincerlo e ancora meno di indicare i meccanismi di adesione o di partecipazione volontaria alla nostra propria servitù. Fargli condividere la situazione di inferno quasi universale vuol dire poterlo poi salvare di colpo se aderisce al grande Noi e alle sue intensità soggettive.

Prendendo atto, con toni apocalittici, dell’imminente fine del mondo e passando in rivista i diversi ambiti in cui essa si consuma, il Comitato Invisibile si sofferma sugli effetti più facilmente percepibili del disastro, ma tacendone le possibili origini. Ci informa ad esempio che “Perché il malessere generale cessa di essere sopportabile nel momento in cui appare per quello che è: senza causa né ragione” (p43). Senza causa né ragione? Soprattutto, niente critiche affilate dell’esistente, né quelle più comuniste contro il capitalismo, né quelle più anarchiche contro lo Stato. Non sarebbe più abbastanza vago e poi per questo esistono altri testi, come quelli riservati ad una piccola cerchia (i due numeri della rivista Tiqqun, autodissoltasi nel 2001, o l’Appel [6]], libro del 2003 da cui è tratta la citazione che costituisce la quarta di copertina de “L’insurrezione che viene”). Perciò l’impotenza politica od il fallimento economico, quando appaiono in questo pamphlet, non portano mai ad uno sviluppo di una critica radicale della politica o dei bisogni, poiché questi temi non sono che pretesti per una descrizione nauseante destinata a valorizzare il seguito. Semplicemente, “L’insurrezione che viene”, nato sotto forma di merce editoriale, è stato pensato e scritto per attirare l’attenzione del “grande pubblico”. Visto che questo “grande pubblico” è composto da spettatori avidi d’emozioni da consumare seduta stante, che è refrattario ad ogni idea che potrebbe dare senso ad una vita intera, diamogli delle immagini facili da afferrare senza troppa fatica.

Per meglio prenderlo per mano, c’è anche bisogno di includerlo nella costruzione di un grande “Noi” collettivo, di cui si farà l’apologia, contro il vile Io individuale. L’individuo, che come tutti sanno non esiste che come parola d’ordine di Reebok (“I am what I am”) è rapidamente liquidato come sinonimo di “identità” (p10 e segg) o di “camicia di forza” (p78). Sono in effetti le famose bande che devono incarnare “tutta la gioia possibile” (p18). Queste bande non sono più il prodotto complesso dell’arte d’arrangiarsi e di una reclusione, dell’aiuto reciproco per la sopravvivenza (che è cosa diversa dalla solidarietà) e della competizione, ma la forma di autorganizzazione per eccellenza, a cui bisogna ispirarsi. In un altro libro, ciò era detto in maniera ancora più esplicita: “La prospettiva di formare delle bande [or. francese: gangs, termine che ha senso negativo, NdT] non ci spaventa, quella di passare per una mafia più che altro ci diverte” (Appel, proposizione V [7]]).

I redattori de “L’insurrezione che viene”, come altri hanno notato, “vedono già da subito, nella decomposizione di tutte le forme sociali, una manna: allo stesso modo che per Lenin la fabbrica creava l’esercito dei proletari, per questi strateghi che scommettono sulla ricostruzione di forme di solidarietà incondizionata di tipo clanico, il caos imperiale moderno crea le bande, cellule di base del loro partito immaginario, che si aggregheranno in “comuni” per andare verso l’insurrezione” [8]. Agli aspiranti pastori piace soltanto l’odore di gregge, “l’unione di più gruppi, comitati o bande” (p93), tutto quello che può comportare un carattere abbastanza gregario per esercitarvi un controllo. L’unicità deve essere rigettata, essa non permette di disporre di una massa di manodopera sufficiente.

Viene anche detto e ripetuto che questa società è diventata invivibile, ma soprattutto perché essa non ha mantenuto le sue promesse. Ed in caso contrario? Se “il popolo” non fosse stato cacciato dalle “sue campagne”, le “sue strade”, i “suoi quartieri”, i “[suoi, NdT] atri di palazzi” (p84), se non fossimo stati espropriati della “nostra lingua da parte dell’insegnamento”, delle “nostre canzoni da parte del varietà”, della “nostra città da parte della polizia” (p16 [traduzione nostra])… forse potremmo ancora vivere felici nel nostro mondo? Come se fosse mai stato nostro, questo mondo, e questi quartieri o queste città non fossero appunto un esempio del nostro spossessamento, qualcosa da distruggere. Come se la riappropriazione di un’architettura carcerale da parte dei poveri non fosse appunto uno dei segni ultimi dell’alienazione. Nessuno può “invidiare i cosiddetti quartieri-ghetto” (p16) e di sicuro non perché vi regnerebbe “l’economia informale”. Lasciamo volentieri al Comitato le distinzioni gesuitiche fra la mafia e lo Stato o fra le diverse espressioni del dominio della merce, cioè il piccolo gioco delle preferenze tattiche fra le diverse facce del padrone. Da parte nostra, preferiamo lottare contro l’autorità e l’economia in quanto tali.

A forza di negare una guerra sociale multiforme che non è l’appannaggio di un solo soggetto (il giovane rivoltoso delle banlieues), lungo queste pagine ci si ritrova a volte a chiedersi se gli scribi del libretto verde non procedano per ignoranza, essendo forse semplicemente speculari ai lettori ai quali si indirizzano, non siano di quelli che vedono in tutta la vita delle banlieues soltanto poliziotti e giovani rivoltosi, di quelli che regolano i propri conti con la famiglia mantenendo dei legami utili a sovvenzionare la sovversione sociale (p21), di quelli che possono “«circolare liberamente» da un capo all’altro del continente, e senza eccessivi problemi nel mondo intero” (p85) o anche partecipare al circo elettorale avendo l’impressione di compiere qualche atto sovversivo (“È lecito sospettare che in realtà si continui a votare contro il voto stesso”, p3).


L’insurrezione come moltiplicazione di comuni


Se ci viene descritto l’inferno moderno, è per arrivare dove? A quale aurora porterebbe la fine di questa civilizzazione in declino che non ha più nulla da offrirci, una civilizzazione che è supposta produrre addirittura, come una macchina ben oliata “i mezzi della propria distruzione” (non si tratta di un riferimento alla catastrofe nucleare permanente, ma alla… “moltiplicazione dei telefoni cellulari e dei punti d’accesso a Internet”! pp39-40)?

Cercando bene, in questo libro l’insurrezione sembra venire senza altro fine che quello di precipitare il gran crollo, senza il proprio superamento che l’orienterebbe per esempio verso l’anarchia (o il comunismo, per altri). Essa è il proprio fine, essa basterebbe a sé stessa. “Noi lavoriamo alla costituzione di una forza collettiva tale che un enunciato come “Morte al Bloom!” o “Abbasso la Jeune-fille!” sia sufficiente a provocare giorni e giorni di sommosse” notavano già, non senza ridicolo, i tiqquniani [9]. Più che di nichilismo – al di là di questo mondo non c’è che questo mondo, senza futuro né possibilità alcuna – si tratta qui di un millenarismo rimaneggiato in cui l’avvenire apocalittico è già dissimulato nel presente, in cui esso sembra completamente slegato dalle nostre azioni presenti e deliberate (od involontarie). Bisognerebbe semplicemente essere capaci di accogliere questa agonia per farne un momento liberatorio e purificatore, prendere posizione a favore della grande insurrezione distruttrice, costituendosi come forza. Non soltanto il realismo filo-catastrofico di una tale posizione può apparire dubbio, ma nell’ipotesi che una tale situazione si realizzi, si potrebbe anche pensare che questa insurrezione porterebbe solo a ristrutturazioni del potere e non per forza ad una vera trasformazione del mondo che distruggerebbe ogni dominio. Così, le “comuni” non sembrano mai essere immaginate come delle basi di sperimentazione, come una tensione. Esse sono già qui: “Ogni sciopero spontaneo è una comune, ogni casa occupata collettivamente su basi chiare è una comune” (p78).

D’altra parte, questa questione è talmente vaga per il Comitato che essi ammetto che “un’insurrezione: non sappiamo nemmeno come potrebbe cominciare” (p71). Con delle sommosse, si sarebbe tentati di rispondere. Oppure con una rivolta che, benché minoritaria, si generalizza socialmente. Ma no, per loro è già troppo impegnativo. È meglio lasciare la questione aperta, per attirare più curiosi possibili; meglio evitare gli argomenti a proposito dei quali gli animi si scaldano e si dividono. È meglio continuare a semplificare la realtà dell’antagonismo presentandola come un Tutto che si può attaccare soltanto a partire da un ipotetico altrove, attraverso una “secessione”, “doppia[ndolo]” (p85) oppure costituendo “un insieme di focolai di diserzione” (Appel, proposizione V). Il fato di non vedere l’insurrezione come un processo particolare con l’insieme di ciò che la precede evita soprattutto di far sì che si rifletta a come lottare per la distruzione di questo sistema, dentro e a partire da esso stesso, ma portando già, nella maniera di farlo, la progettualità di un altro mondo. Perché tutto ciò significherebbe partire dall’ipotesi inversa rispetto ai redattori del libro. Un’ipotesi rivoluzionaria che non sia né alternativista (si possono costruire delle nicchie nell’esistente e fin da subito “elaborare una nuova idea di comunismo” all’interno del capitalismo [10]), né messianica (la fatalità della civilizzazione che crolla ed alla quale bisogna prepararsi). In realtà, non esistono spazi esterni che potrebbero sfuggire ai rapporti sociali del dominio e costituire così delle basi d’appoggio per elaborare una forza tendente all’insurrezione. [Questi rapporti di dominio, NdT] possono essere sovvertiti soltanto durante momenti di rottura. Come diceva già un vecchio testo “Non c’è alcun ruolo, per quanto legalmente rischioso, che possa sostituire il cambiamento reale dei rapporti. Non c’è scorciatoia a portata di mano, non esiste un salto immediato nell’altrove. La rivoluzione non è una guerra” [11].

Un’altra questione che ci si pone di solito con quella dell’insurrezione è quella dei rapporti e dell’affinità (la condivisione di una prospettiva generale e di idee), che non è la stessa cosa dell’affettività (la condivisione momentanea di situazioni particolari e di sentimenti, come la rabbia). Anche qui, non temete di ottenere una risposta, perché il Comitato ne esce con una capriola: “ogni affinità è affinità in una verità comune” (p74). Il gioco è semplice. Piuttosto che partire da desideri individuali, desideri per forza di cose molteplici e divergenti, basta partire da situazioni sociali facilmente percettibili come comuni, chiamate “verità”. Perché il Comitato non è interessato alle idee che vengono sviluppate, preferisce le verità che ci possiedono. “Una verità non è una visione del mondo, ma quel che ci tiene irriducibilmente legati ad esso. Una verità non è qualcosa che si possiede, ma qualcosa che ci porta” (p73). La verità è messianica, esterna ed obiettiva, fuori da ogni discussione. Basta condividere il sentimento di tale verità per trovarsi insieme su banalità del tipo “bisogna organizzarsi”. Per non spezzare l’incanto, un esempio di verità che dobbiamo sorbirci è che il vicolo cieco nel quale si trova l’ordine sociale si trasformerà in autostrada verso l’insurrezione e che un prolungamento di questa agonia, per esempio, è impossibile. E visto che tutto ciò è ineludibile, ognuno può tranquillamente evitare di porsi domande del tipo: “organizzarsi in che modo”, “per fare cosa”, “con chi” e “perché”?

Allo stesso modo, sparirebbe così il vecchio dibattito fra pensare la distruzione del vecchio mondo come un momento inevitabile e preliminare ad ogni autentica trasformazione sociale, oppure essere persuasi che la nascita di nuove forme di vita riuscirà da se ad esautorare i vecchi modelli autoritari, rendendo superfluo ogni scontro diretto generalizzato con il potere. Il Comitato Invisibile, lui, è infatti capace di conciliare senza problemi queste due tensioni da sempre opposte. Da una parte, vuole “una molteplicità di comuni capaci di sostituirsi alle istituzioni sociali: la famiglia, la scuola, il sindacato, l’associazione sportiva etc..” (p77) e dall’altra raccomanda di “Non già rendersi visibili, ma volgere a nostro favore l’anonimato a cui siamo stati relegati e, attraverso la cospirazione e l’azione notturna o mascherata, trasformarlo in una inattaccabile posizione d’attacco” (p89). Anche qui ce n’è per tutti i gusti: per gli alternativi che provano l’esperienza di sistemarsi tranquillamente in campagna (e per i quali la Comune è l’oasi di felicità nel deserto del capitalismo) e per i nemici di questo mondo (per i quali Comune è sinonimo della Parigi insorta del 1871).

Così come i sostenitori moderni della “sfera pubblica non statale” (dai militanti anarchici più strabilianti ai “disobbedienti” più abili), il Comitato Invisibile sostiene che “l’autorganizzazione locale, sovrapponendo la propria geografia alla cartografia statale, la scompagina e l’annienta: produce così la propria secessione” (p85). Però, mentre i primi vedono nella diffusione progressiva di esperienze di autorganizzazione una alternativa all’ipotesi insurrezionale, il Comitato propone una integrazione strategica di strade fino ad ora giudicate incompatibili. Non più sabotaggio o piccolo commercio, ma sabotaggio e piccolo commercio. Piantare patate di giorno ed abbattere tralicci di notte. L’attività diurna è giustificata dall’esigenza d’indipendenza dai servizi forniti dal mercato o dallo Stato e dal fatto di garantirsi una certa autonomia materiale (“Come nutrirsi una volta che tutto è stato paralizzato? Saccheggiare i negozi, come avvenuto in Argentina, ha i suoi limiti”, p101). L’azione notturna viene posta dall’esigenza di interrompere i flussi di potere (“il primo gesto perché qualcosa possa emergere nel bel mezzo della metropoli, perché si aprano degli altri possibili, consiste nell’arrestare il suo perpetuum mobile”, p40). Gli scribi si chiedono allora “perché le comuni non si moltiplicano all’infinito? In ogni fabbrica, in ogni strada, in ogni paese, in ogni scuola… Finalmente il regno dei comitati di base!!” (p77). Perché, in effetti, non sarebbe realizzabile la vecchia illusione degli anni ’70 di “comuni armate” che non solo “tengono duro” per difendere il proprio spazio liberato, ma partono anche all’assalto degli spazi rimasti nelle mani del potere?

La risposte si trova nella contraddizione che gli autori dell’opuscolo pretendono di superare: al di fuori di un contesto insurrezionale, una comune vive soltanto negli interstizi lasciati dal potere. La sua sopravvivenza resta legata al suo carattere inoffensivo. Finché si tratta di coltivare delle carote senza Dio né padrone in giardini biologici, di offrire pasti a basso prezzo (o gratuitamente) in mense popolari, di curare dei malati in ambulatori autogestiti, tutto può ancora andare bene. In fondo, che qualcuno si occupi delle carenze dei servizi sociali può risultare utile, la creazione di un’area di parcheggio per emarginati, lontana dalle sfavillanti vetrine del centro cittadino, può risultare comodo. Ma appena ne usciamo per andare a scovare il nemico ecco che le cose si complicano. Un giorno o l’altro la polizia bussa alla porta e la comune si spegne, o viene ridimensionata. La seconda ragione che rende vano ogni tentativo di generalizzazione di “comuni armate” al di fuori di una insurrezione è dovuta alle difficoltà materiali nelle quali si dibattono tali esperienze, che vedono sorgere una miriade di problemi ed una mancanza cronica di risorse. Visto che solo pochi privilegiati sono in grado di risolvere ogni difficoltà con la rapidità necessaria a firmare un assegno, i partecipanti alle comuni sono quasi sempre obbligati a dedicare tutto il loro tempo e la loro energia al suo “funzionamento” interno.

Insomma, per proseguire con la metafora, da una parte l’attività diurna tende ad assorbire con le sue esigenze tutte le forze, a detrimento dell’attività notturna; dall’altra, l’attività notturna e le sue conseguenze tendono a mettere in pericolo l’attività diurna. E un giorno o l’altro questa situazione di tensione scoppia. Ciò non significa che sia necessario negare l’importanza ed il valore di tali esperienze, ma che non si può dare loro un contenuto ed una portata che non hanno: quello di essere già il momento di rottura stesso, che, estendendosi, formerebbe l’insurrezione. Come notava già Nella Giacomelli nel 1907, dopo l’esperienza di Aiglemont, "una colonia fondata dagli uomini dell’oggi e costretta ad esistere sul margine della società attuale e ad attingere alle sue fonti, è fatalmente destinata ad essere null’altro che una imitazione grottesca della società borghese. Essa non ci può dare la formula del domani, giacché troppo rispecchia in sé la vecchia formula dell’oggi, di cui inconsapevolmente siamo tutti penetrati fino ad esserne sfigurati” [12].

Quanto al fatto di estendere il concetto di “comune” a tutte le manifestazioni di ribellione e di rivolta e fare dell’Insurrezione la somma di queste, è un’altra trovata del Comitato che gira attorno al problema senza risolverlo. Se l’insieme delle pratiche sovversive è l’insurrezione, allora questa non sta arrivando: è già qui. Non ve ne eravate resi conto? Questo confusionismo permette di accontentare tanto quelli che mirano alla soddisfazione dei propri bisogni quotidiani che quelli che lottano per realizzare i loro desideri utopici, di prendere per il verso buono quelli che si dedicano a “capire la biologia del plancton” (p83) e quelli che si pongono delle domande del tipo “come rendere inutilizzabile una linea TAV, una rete elettrica?” (p88). Il Comitato può tranquillamente sostenere, in teoria, una qualche sorta di complementarietà interessata fra tutte queste pratiche, però non avanza di un millimetro quanto a ciò che queste forme sviluppano, quanto al perché che solo dona loro senso per davvero, sostenendo che basterebbe un insieme di contro. Uno degli obiettivi di questa apologia delle forme di ostilità, indipendentemente dal loro contenuto, risiede forse nella volontà esplicita del Comitato di tracciare “dei fronti a scala mondiale” (p87), cioè non approfondire la passione per un’esistenza liberata da ogni forma di dominio, ma realizzare ogni sorta di alleanze, che soltanto questa assenza di contenuto positivo comune renderebbe possibile.

Infine, un ultimo punto ha stuzzicato la nostra curiosità: se questo libro non definisce un perché dell’insurrezione, poteva almeno affrontare la questione del come? Anche qui lo stile permette di eludere l’ostacolo: “quanto a decidere delle azioni, il principio potrebbe essere il seguente: che ognuno vada in ricognizione, che si verifichino le informazioni e la decisione verrà da sé. Non saremo noi a prenderla, sarà piuttosto lei a prenderci” (p99)! Inutile perdere il proprio tempo in noiosi dibattiti sul metodo da adottare e l’obiettivo da raggiungere, che per di più presentano l’inconveniente di provocare dei disaccordi. Andiamo alla pesca delle informazioni e la decisione arriverà da sola, bella, luminosa e valida per ciascuno. Avete bisogno di qualche precisazione supplementare? Date un’occhiata alle referenze storiche dell’Appel e di “L’insurrezione che viene” e fate prova di un po’ d’immaginazione. Se “l’incendio di novembre 2005 ne offre il modello” (p89 [traduzione nostra]) non è che a parole, perché l’azione che gli scribi hanno in testa assomiglia più a quella di un Black Panther Party guidato da Blanqui (cioè forse la costruzione del “partito dell’insurrezione” o “dell’organizzazione collettiva permanente” [13]). Quest’accozzaglia autoritaria completata da nozioni evanescenti come la “densità” relazionale o lo “spirito” comunitario (pp.77-78) viene a sancire il carattere confuso del libro, cosa che, come abbiamo già notato, non ne costituisce un difetto ma il suo principale vantaggio. “L’insurrezione che viene” è in accordo con il tempo presente, perfettamente alla moda. Possiede le qualità del momento, una flessibilità ed un’elasticità che possono adattarsi a tutte le circostanze nel milieu ribelle. Ha una bella presenza, ha dello stile e sembra simpatico a ciascuno perché dà ragione a tutti senza scontentare completamente nessuno.

Ritorniamo ora al punto di partenza di questa recensione e prendiamo alla lettera, per una volta soltanto, un opuscolo che i suoi redattori hanno scelto di far pubblicare presso un editore commerciale di sinistra e di far distribuire nei templi del consumo. Se è chiaro che “il compito dei milieu culturali è di raccogliere le intensità nascenti per annullare, [spiegandolo, NdT], il senso di ciò che si fa” (p76) dobbiamo lasciare agli opportunisti l’ipocrisia di far passare le proprie incursioni in territorio nemico come della sana tattica, quando non si tratta in realtà che di speculazioni politiche. Che strana idea sarebbe infatti quella di una secessione od un’autonomia dalle istituzioni che si organizzerebbe per mettervi volontariamente piede e parteciparvi senza rimorsi!

Un movimento rivoluzionario animato dalla volontà di arrivare ad una rottura con l’esistente non ha bisogno della conferma dell’ordine sociale che esso critica. “L’insurrezione che viene” nelle vetrine di tutte le librerie non è che la caricatura e la mercificazione di quell’insurrezione che potrebbe infrangerle tutte.


Alcuni insorti senza codice a barre


[Testo originariamente pubblicato con il titolo “Commentaires déplacés”, in A Corps Perdu, Revue anarchiste internationale, num. 3, Parigi, agosto 2010, pp. 88-94.
Riedito come “Tourner autour. Une critique de « L’insurrection qui vient »”, Tumult Editions, Bruxelles, 2013.]
Note

[1] Grande catena francese di negozi di libri ed altri “prodotti culturali”. [NdT

[2] Intervista esclusiva di Julien Coupat a Le Monde, 25 maggio 2009.

[3] Agamben, Badiou, Bensaïd, Rancière, Nancy ed altri sinceri democratici : «Non à l’ordre nouveau», in Le Monde, 28 novembre 2008.

[4] Comité Invisible, Mise au point, 22 gennaio 2009, pag. 4.

[5] Riferimento al dossier “Insurrection”, in A Corps Perdu, Revue anarchiste internationale, num. 3, Parigi, agosto 2010, di cui il presente testo fa parte (vedasi bibliografia in fondo). [NdT

[6] Appel, anonimo, senza editore, senza luogo né data [ma 2003]. Per una traduzione italiana, si veda qui. Alcuni estratti della rivista Tiqqun (2 volumi usciti nel 1999 e nel 2001) sono stati pubblicati in italiano: Tiqqun, “Elementi per una teoria della Jeune-Fille”, Bollati Boringhieri, Torino, 2003; Id., “La comunità terribile : sulla miseria dell’ambiente sovversivo”, DeriveApprodi, Roma, 2003; Id., “Teoria del Bloom”, Bollati Boringhieri, Torino, 2004. Sono reperibili su internet in italiano anche Tiqqun, “Introduzione alla guerra civile” e Id., “Ecografia di una potenzialità”. [NdT

[7] “Appello”, versione su internet, cit. pag. 28. [NdT

[8] René Riesel e Jaime Semprun, “Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable”, Encyclopédie des nuisances, giugno 2008, pp. 41-42.

[9] Tiqqqun, postfazione all’edizione italiana della “Teoria del Bloom”, Bollati Boringhieri, Torino, novembre 2004, p. 136. Si noterà tra l’altro il giochetto delle corrispondenze fra i gemelli siamesi di Tiqqun, L’Appel e L’Insurrection qui vient: in detta postafazione Tiqqun raccomanda al “pubblico italiano” la lettura dell’Appel, mentre L’Insurrection qui vient ne ha fatto la sua quarta di copertina. Infine, il secondo testo del Comité Invisible, “Mise au point“ [lett.: “Precisazione”, NdT] portava discretamente, in fondo alla terza pagina, l’indicazione di un sito internet che riunisce questi diversi scritti ed altri ancora ai quali essi sono legati (come quello del Comité de la Sorbonne en exil).

[10] Comité Invisible, “Mise au point”, cit., pag. 3.

[11] “Ai ferri corti con l’esistente, i suoi difensori e i suoi falsi critici”, edizioni NN, 1998, pag. 32.

[12] Ireos, “Una colonia comunista”, Biblioteca de la Protesta Umana, Milano, 1907.

[13] Proposizione num. 14 del Comité d’occupation de la Sorbonne en exil, giugno 2006 [questa proposta di un “partito dell’insurrezione” è stata introdotta in Italia attraverso le traduzione di vari testi del Comité d’occupation de la Sorbonne en exil, in Filippo Argenti, “I giorni del rifiuto. Documenti e riflessioni dal movimento anti-Cpe”, ed. Tempo di ora, novembre 2006 : “è solo avendo cura di organizzarsi sulla base dei nostri bisogni che si costruisce, di crisi in movimento, il partito dell’insurrezione”, pag. 93] e proposizione di Le jardin s’embrase, “Les mouvements sont faits pour mourir”, Tahin Party (Lyon), agosto 2007, pag. 114.

Mar, 02/07/2013 – 21:54
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