Ostaggi dello stato – Cittadini in attesa di giudizio [Lettera di Peppe dal carcere di Montorio]

Ostaggi dello stato – Cittadini in attesa di giudizio

Nel vigente sistema punitivo, braccio pratico della sacra autorità statale, non esiste ciò che libri e film (solitamente fedeli al concetto di giustizia penale come ogni espressione della cultura mainstream)chiamano presunzione di innocenza. La detenzione preventiva viene applicata agli individui che, non importa quale reato (disgusta chiamarlo crimine, termine che porta con sé, oltre al già abbastanza nauseabondo giudizio giuridico, anche un giudizio morale), sono già in sé colpevoli. In questa società non può esistere altro che la colpevolezza, condizione latente e innata nell’individuo, come il peccato originale.

Davanti a dio siamo tutti peccatori, davanti allo stato tutti delinquenti. Lo stato sa bene che un cittadino è sempre potenzialmente colpevole, lo stato avverte chiaramente la pericolosità insita in ognuno di noi. Il detenuto in attesa di giudizio viene prelevato dallo stato, che non si cura di fattori (come la perdita del lavoro) che possono rovinare la vita. Che importa? Se l’imputato viene condannato, ottiene ciò che si è meritato. Se viene prosciolto, allora tanto meglio e da quei mesi fagocitati dalla macchina statale avrà imparato una utile lezione: lo stato non chiede scusa, non risarcisce, perché dovrebbe farlo? Una simile idea è semplicemente ridicola. Il macellaio non si scusa con le mucche che uccide.

Lo stato, padrone delle nostre (?) vite, ha semplicemente esercitato se stesso: più hanno imparato a considerare il suo diritto, ovvero il potere di annientare un’esistenza, più la liberta è diventata qualcosa dieffimero, il premio che lo stato concede a chi si sottomette alle sue leggi, a chi vive dentro i suoi margini. Cittadini operosi che devono rinnovare ogni giorno la loro silenziosa servitù, ancora per un giorno prolungano la loro sottomissione quotidiana e, ancora per un giorno, possono tenersi la libertà di dormire nelle proprie case e di giocare coni propri figli come fare l’amore con la persona che amano. Se essi guardano alla propria vita, non vedono certezze: solo una costante instabilità, un dubbio perenne, un dubbio che si estende forzatamente alla propria innocenza. Se essi vengono accostati ad uno sbirro, tremano non perché hanno commesso qualcosa ma perché sanno perfettamente che l’innocenza è una favola, un gioco per bambini, una farfalla che muore al primo freddo.

Essi sanno di non essere completamente innocenti (questo, del resto, lo hanno già imparato al catechismo). Sanno che la libertà di cui usufruiscono non è una proprietà inalienabile. Quella che posseggono è la libertà dello stato, modellata secondo le sue norme e i suoi bisogni. Ci muoviamo in questa società come bambole in una casa di plastica: manovrati, crediamo di vivere le nostre vite ma stiamo solo recitando dei copioni e dei ruoli impostici. Nulla è certo, nemmeno il fatto che domani staremo ancora dentro al gioco o rinchiusi dentro qualche sgabuzzino per la colpa di non piacere a chi, fino a ieri, ci ha usato. Siamo tutti detenuti in attesa di giudizio e ogni giorno viviamo nella speranza di non diventare colpevoli, accontentandoci del carcere immenso in cui siamo rinchiusi per paura di ritrovarci in una sua più piccola e dichiarata copia.

Dal carcere di Montorio (Verona) – 2/1/2009

Giuseppe “Sucamorvo” Sciacca

Mer, 07/01/2009 – 23:26
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